Valida l’ispezione fiscale all’avvocato basata sui questionari inviati dal Fisco ai suoi clienti

E’ legittimo l’accertamento in rettifica del reddito emesso nei confronti di un professionista, un avvocato, a seguito di ispezione fiscale condotta presso il suo studio e basato sui questionari inviati ai suoi clienti.

E’ legittimo l'accertamento, a carico del professionista, basato sui questionari inviati ai suoi clienti e anche se l'ispezione della Guardia di Finanza presso il suo studio non è stata preventivamente comunicata. L'autorizzazione della Procura assolve il dovere di garanzia previsto nello Statuto del contribuente. Tale assunto è stato statuito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1299 del 22 gennaio 2020, che ha respinto il ricorso di un avvocato. La fattispecie. Nel caso di specie, un professionista è stato sottoposto ad ispezione fiscale con redazione e notifica del pvc. Il Giudice di prima istanza ha ridotto forfettariamente la pretesa erariale mentre il Giudice del gravame ha confermato integralmente l’operato dell’ufficio ed ha annullato la riduzione operata dal primo giudice perché ritenuta immotivata. In sede di ricorso per cassazione il professionista ha lamentato a la mancata comunicazione preventiva delle ragioni che giustificavano la verifica con ispezione presso lo studio professionale b la mancata notifica dell’autorizzazione all’accesso della Procura della Repubblica. Il dovere informativo non deve pregiudicare l'attività ispettiva e di indagine. Gli Ermellini, con la pronuncia citata, hanno ribadito che il dovere informativo non deve pregiudicare l'attività ispettiva e di indagine successiva, qual è stata, nel caso di specie, la sottoposizione di questionari ai clienti del professionista, dovendosi trovare un equilibrio fra le opposte esigenze a tutela del contribuente ed al prosieguo dell'attività ispettiva. Infatti, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'inosservanza dell'articolo 12, legge n. 212/2000, funzionali ad assicurare un'equilibrata composizione delle contrapposte esigenze delle parti nell'espletamento della verifica, garantendo, da un lato, l'efficacia all'attività ispettiva, e assicurando, dall'altro, la tutela dei diritti del contribuente sia come persona sia come soggetto economico, può determinare, pur in assenza di espressa previsione, la nullità del provvedimento impositivo solo qualora i verbalizzanti abbiano eseguito un accesso nei locali dell'impresa in difetto delle indicate esigenze di ricerca e rilevazione in loco e, dunque, non anche nell'ipotesi di verifica condotta in luoghi diversi. L'inosservanza degli obblighi informativi determina la nullità degli atti della procedura nei casi in cui l'effetto invalidante sia espressamente previsto dalla legge, mentre, negli altri casi, occorre valutare, anche alla luce dell'interpretazione offerta dalla giurisprudenza europea che impone di verificare se la prescrizione normativa si riferisca a una formalità o circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo cui l'atto è preordinato, se la violazione di legge abbia comportato la mera irregolarità dell'atto. Conclusioni. In sede di accertamento fiscale possono essere presi in considerazione i risultati dei questionari spediti dal Fisco ai clienti del professionista Cassazione sent. n. 22179/2008 . Gli accertamenti possono trarre origine da indagini svolte a seguito di verifica fiscale generale, sulla base di dati acquisiti mediante invio di questionari a clienti dello studio. L'Amministrazione può legittimamente inviare ai clienti di un operatore questionari sollecitando informazioni circa i loro rapporti economici intrattenuti con l'operatore stesso ed utilizzarne le risposte anche scritte per un accertamento induttivo in materia di IVA Cass. civ., sez. V, 30/01/2007, n. 1942 . Le dichiarazioni rese da un terzo, acquisite dalla Guardia di Finanza e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall'avviso di accertamento, anche se non rese in contraddittorio col contribuente, hanno valore indiziario e concorrono a formare il convincimento del giudice Cass. n. 6946/2015 v. anche Cass. n. 22519/2013, 21813/2012 n. 12247 e n. 12245/2010 . Infatti, l'inammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario non comporta l'inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi, eventualmente raccolte dall'amministrazione nella fase procedimentale , distinguendosi queste dalla tipica prova testimoniale per il loro valore probatorio che è quello proprio degli elementi indiziari , dei quali il contribuente può contestare la veridicità delle dichiarazioni introducendo, a sua volta, nel giudizio di merito altre dichiarazioni di terzi rese a discarico in sede extraprocessuale Corte Costituzionale, n. 18/2000 Anche al contribuente, oltre che all'amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta - in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell'articolo 111 Cost. - la possibilità d'introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutate dal giudice - non potendo costituire da sole il fondamento della decisione - nel contesto probatorio emergente dagli atti Cass., sez. trib., n. 20028/2011 . Alla luce dei principi che precedono è inesatto pretendere che gli indizi scaturenti da fonti orali possano assurgere a fonte di prova presuntiva unicamente se confortati da ulteriori indagini, da eseguirsi necessariamente da parte dell'Ufficio. Infatti, gli elementi assunti a fonte di presunzione non devono neppure essere necessariamente plurimi, benché l'articolo 2729 c.c., il d.P.R. n. 600/1973, articolo 38 e il d.P.R. n. 633/1972, articolo 54, si esprimano al plurale . Il convincimento del giudice può infatti fondarsi anche su un unico elemento preciso e grave, mentre la valutazione della relativa rilevanza, nell'ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità Cass. n. 656/2014 . Rischiano una incriminazione per favoreggiamento i clienti di professionisti, commercianti e artigiani che non rispondono in modo corretto ai questionari inviati loro, dalla Guardia di Finanza ad essi, infatti, nell’ambito delle consuete attività ispettive nella lotta anti evasione, sono indirizzati dei formulari standard con richieste di chiarimenti in merito ai loro acquisti di beni o servizi. Ciò al fine di accertare eventuali evasioni, da parte dei professionisti, commercianti e artigiani, di base imponibile e di Iva su cui le Fiamme gialle già hanno già chiari indizi di irregolarità. Per i clienti pertanto – alcuni dei quali vengono convocati in sede, con l’invito a rendere dichiarazioni veritiere – l’alternativa è obbligata rivelare l’esatto importo delle prestazioni fatturate sempre che lo siano state e non incorrere in ulteriori fastidi oppure tentare di difendere i dati formali del rapporto intrattenuto con l’imprenditore o il professionista, ma rischiando guai seri. Infatti, qualora la Finanza dimostri la mendacità o la reticenza del cliente, scatta automatica la sanzione amministrativa da 258 a 2066 euro. È noto che l’articolo 32 d.P.R. n. 600/73 in materia di imposte dirette e l’articolo 51 d.P.R. n. 633/72 in ambito IVA, conferiscono agli uffici dell’Amministrazione Finanziaria numerosi poteri ai fini dei controlli fiscali tra questi si segnalano quelli relativi alla possibilità di richiedere informazioni e notizie ai contribuenti. Chiunque riceve una richiesta del Fisco è tenuto a rispondere, nel termine assegnato, al fine di non incorrere nella sanzione amministrativa da 258,22 ad euro 2.065,82 prevista dall’articolo 11 del d.lgs. n. 471/97. Se all’esito finale degli accertamenti il professionista o l’imprenditore scivoli complessivamente oltre la soglia penale della dichiarazione infedele, per i clienti mendaci” scatta l’imputazione di favoreggiamento personale. L ‘articolo 11, comma 1, d.l. n. 201/2011 c.d. decreto salva Italia” , punisce chiunque” durante un’attività di accertamento ex articolo 32 e 33 d.P.R. n. 600/73, o articolo 51 e 52 d.P.R. n. 633/72, a seguito delle richieste effettuate dagli accertatori, esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte, oppure fornisce dati o notizie non rispondenti al vero per i quali si configurano reati tributari in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto di cui al d.lgs. n. 74/00. L’esibizione e la trasmissione di documenti falsi ha sempre rilevanza penale la comunicazione di dati non rispondenti al vero ha rilevanza penale nel solo caso in cui, in seguito alle richieste dell’Amministrazione Finanziaria, si configura un reato ai sensi del d.lgs. n. 74/2000.

Corte di Cassazione, sez. V Civile, sentenza 22 ottobre 2019 – 22 gennaio 2020, n. 1299 Presidente Cirillo – Relatore Fracanzani Fatti di causa 1. Il contribuente esercita la professione di avvocato ed era soggetto ad ispezione fiscale presso il suo studio iniziata nel pomeriggio del 14 febbraio 2008 e conclusa il 8 aprile successivo con redazione e notifica del pvc. Ne seguiva l’emissione di accertamento in rettifica del reddito dichiarato nell’anno di imposta 2006, per maggiori importi incassati e non fatturati, come dedotti con procedimento analitico induttivo in base a scritturazioni contabili rinvenute presso lo studio del professionista ed i questionari sottoposti ai suoi clienti. 2. Avverso il provvedimento impositivo spiegava ricorso il contribuente, sostenendo la violazione dei degli obblighi informativi e partecipativi di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, donde l’inutilizzabilità delle prove ricavate da una procedura di verifica ab initio viziata. Nel merito affermava la propria coerenza e congruità contributiva e l’ambivalenza probatoria a carico o discarico degli elementi indiziari portati a sostegno dell’atto impositivo. Il giudice di prossimità rimodulava in ribasso l’accertamento operato dall’Ufficio, calcolando forfettariamente un 30% di spese effettivamente sostenute da scomputare dall’imponibile. Sull’appello dell’Amministrazione erariale, relativamente a questo capo di sentenza, e sull’impugnazione incidentale del contribuente, per i capi di propria soccombenza, si pronunciava la CTR con la sentenza qui impugnata, ove confermava integralmente l’operato dell’Ufficio ed annullava la riduzione operata dal primo giudice perché ritenuta immotivata. Avverso questa sentenza ricorre il contribuente con quattro articolati motivi di gravame, cui replica l’Avvocatura dello Stato per tempestivo controricorso. Ragioni delle decisione Sono proposti quattro motivi di ricorso. 1. Con il primo motivo si lamenta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, in parametro all’art. 360 codice rito civile, comma 1, n. 3, per mancata comunicazione preventiva delle ragioni che giustificavano la verifica con ispezione presso lo studio professionale. Trattasi di violazione procedimentale che si ripercuote sull’atto impositivo finale, già debitamente censurata, su cui la CTR non avrebbe motivato, dalla quale scaturisce l’inutilizzabilità delle prove ricavate e la nullità dell’avviso di accertamento impugnato. Non di meno, dagli atti risulta che sia stata notificata l’autorizzazione all’accesso, su conforme provvedimento della Procura della Repubblica, adottata dal Comandate di Reparto e che l’attività ispettiva sia stata motivata come verifica sostanziale a carattere generale e di un tanto dà atto anche il contribuente pag. 18 del ricorso . La circostanza assolve il dovere di cui all’art. 12 precitato, ed è menzionata in sentenza come autorizzazione dell’Autorità giudiziaria all’ispezione. Peraltro, il dovere informativo non deve pregiudicare l’attività ispettiva e di indagine successiva, qual è stata, nel caso di specie, la sottoposizione di questionari ai clienti del professionista, dovendosi trovare un equilibrio fra le opposte esigenze a tutela del contribuente ed al prosieguo dell’attività ispettiva. Nè incorre in omissione di motivazione la CTR che ricordi come il potere/dovere istituzionale di verifica a carattere generale non debba essere ulteriormente giustificato. Al riguardo già questa Suprema Corte ha statuito come in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’inosservanza della L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, commi 1 e 3, funzionali ad assicurare un’equilibrata composizione delle contrapposte esigenze delle parti nell’espletamento della verifica, garantendo, da un lato, la necessaria efficacia all’attività ispettiva dell’ufficio, e assicurando, dall’altro, la tutela dei diritti del contribuente sia come persona sia come soggetto economico, possa determinare, pur in assenza di espressa previsione, la nullità del provvedimento impositivo solo qualora i verbalizzanti abbiano eseguito un accesso nei locali della impresa in difetto delle indicate esigenze di ricerca e rilevazione in loco e, dunque, non anche nell’ipotesi di verifica condotta in luoghi diversi cfr. Cass., V, n. 28390/2013 . Altresì, si è precisato che in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’inosservanza degli obblighi informativi determina la nullità degli atti della procedura nei casi in cui l’effetto invalidante sia espressamente previsto dalla legge, mentre, negli altri casi, occorre valutare, anche alla luce dell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza Europea che impone di verificare se la prescrizione normativa si riferisca ad una formalità o circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato, se la violazione di legge abbia comportato la mera irregolarità dell’atto o della procedura ovvero sia idonea a determinare l’invalidità dello stesso. Nella specie si è escluso che l’imprecisa indicazione fornita al contribuente circa l’estensione temporale della verifica comportasse l’automatica invalidità dell’atto, tanto più che l’atto impositivo si fondava sulla documentazione offerta dal contribuente e nel processo verbale di rilevamento della giacenza era previsto il compimento di una contestuale verifica generale cfr. Cass., V, n. 992/2015 . Più in generale, si è affermato come in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente sia meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità di tali atti può ricavarsi dalla ratio delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione cfr. Cass., V, n. 17002/2012 . Il motivo è quindi infondato e va disatteso. 2. Con il secondo motivo si denuncia illogicità della motivazione in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver ritenuto non ostensibile il programma annuale di ispezioni della G.d.F., in quanto atto non impugnabile, che il contribuente invece richiedeva di vedere a fini di spiegare le proprie difese. La censura non indica il punto di cui sarebbe stato omesso l’esame, vertendo piuttosto sulla logicità della motivazione e non è quindi aderente al dettato dell’invocato art. 360 codice di rito, n. 5, nel testo vigente ratione temporis. Peraltro, nell’esposizione del motivo, manca l’illustrazione della decisività del documento richiesto e non ottenuto. Infatti, questa Suprema Corte ha ritenuto che il mancato esame di un documento possa essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa cfr. Cass., VI-5, n. 19150/2016 . Il motivo è dunque inammissibile. 3. In parametro all’art. 360 codice rito civile, n. 4, con il terzo motivo si eccepisce omessa motivazione su motivi dell’appello incidentale relativi alla valutazione delle prove indiziarie consistenti nelle annotazioni contabili rinvenute sulle cartelline delle pratiche di vari clienti. La motivazione è contenuta dalla fine di pag. 3 all’inizio di pag. 4 della sentenza impugnata, ove tratta del valore probatorio delle annotazioni, seppur nell’ambito del ricorso principale poi accolto. Al proposito, questa Corte In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la contabilità in nero , costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dal art. 2709 c.c. e ss., tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta. Ne consegue che detta contabilità in nero , per il suo valore probatorio, legittima di per sé, ed a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui al citato art. 39, incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli cfr. Cass., V, n. 24051/2011 . Il motivo è quindi infondato e va disatteso. 4. Con il quarto motivo si lamenta violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine all’illogicità della motivazione ove riforma la riduzione del 30% dell’accertato, ritenuto in primo grado come spese ed anticipazione non imponibili, che la CTR ha invece ritenuto non motivate. La censura non è aderente al dettato dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come vigente al momento del ricorso. Peraltro, sul punto, questa Suprema Corte ha infatti statuito che in tema di imposte sui redditi, l’accertamento induttivo di maggiori ricavi derivanti da un’attività di impresa non comporta l’automatico e forfettario riconoscimento degli elementi negativi del reddito, incombendo sul contribuente l’onere di provare la certezza dei costi e la loro inerenza all’attività. cfr. Cass., VI-5 n. 9888/2017 , sicché In tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù del D.L. n. 90 del 1990, art. 2, comma 6-bis, conv., con modif., dalla L. n. 165 del 1990 , avente, come norma interpretativa, efficacia retroattiva, sia il D.P.R. n. 597 del 1973, art. 74, che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, ora art. 109, comma 5 , devono intendersi nel senso che le spese e i componenti negativi sono deducibili anche se non risultino dal conto dei profitti e delle perdite, purché siano almeno desumibili dalle scritture contabili così Cass., VI-5, n. 23457/2017 . Il motivo è quindi inammissibile In definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato. Le spese seguono la regola della soccombenza sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso, condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro tremila/00 oltre a spese prenotate a debito.