Condannata la proprietaria dell’allevamento di cani per le condizioni cui sottoponeva gli animali

Decisivo un blitz dei carabinieri. Così sono venute alla luce le precarie condizioni a cui erano sottoposti gli animali. Evidente la responsabilità penale della titolare, vista l’inadeguatezza della struttura.

Struttura inadeguata ad accogliere i cani grave la manca di aerazione e la conseguente eccessiva umidità. Legittima la condanna per la proprietaria dell’allevamento Cassazione, sentenza n. 12436/21, depositata il 1° aprile . Riflettori puntati su un allevamento di cani in Umbria. Il controllo compiuto nel febbraio del 2017 dai carabinieri porta alla luce il degrado vissuto da ben trentadue quadrupedi, detenuti in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze, essendo i cani chiusi in nove box inidonei a garantire adeguato ricambio d’aria . Inoltre si è appurato che molti cani erano affetti da patologie , dovute molto probabilmente all’inadeguatezza della struttura. Per i giudici del Tribunale è evidente la responsabilità della proprietaria dell’allevamento. Ella è ritenuta colpevole di avere consapevolmente detenuto i cani in condizioni incompatibili con la loro natura e viene punita con 4mila euro di ammenda . Secondo la donna, però, i ragionamenti che hanno portato i Giudici del Tribunale alla sua condanna sono erronei. In particolare, col ricorso in Cassazione ella mette in discussione la riconducibilità delle patologie dei cani – patologie ritenute prodromiche di sofferenza certa – agli ambienti di ricovero , precisando che, invece, i cani, oltre a non essere mal custoditi, erano costantemente seguiti dal veterinario, in ragione delle patologie insorte, peraltro temporanee e soprattutto non riconducibili ai luoghi di custodia . La linea difensiva viene ritenuta fragile dai Giudici della Cassazione, i quali ritengono invece solido il quadro probatorio , poggiato soprattutto sul resoconto del blitz compiuto dai carabinieri nell’allevamento. Grazie a quel controllo, difatti, è emerso che la struttura era completamente chiusa e priva di qualsiasi tipo di apertura per il ricambio di aria e i cani erano collocati in nove box chiusi con porte e finestre , e inoltre all’interno l’aria era carica di umidità e di un forte odore di ammoniaca mentre la pavimentazione, intrisa di umidità, era inidonea ad ospitare animali . Significativo poi il resoconto fornito dal veterinario chiamato dai carabinieri egli rilevava che la maggior parte dei cani presentava dermatiti e alopecia diffuse in stato avanzato, verosimilmente riconducibili all’ambiente malsano, alla mancanza di ricambio di aria , e aggiungeva poi che alcuni cani presentavano congiuntivite e cheratite, altri rogna, mentre un cane era stato trovato addirittura con numerose feci attaccate al corpo . Inevitabile il sequestro preventivo degli animali, poi restituiti, nell’aprile del 2017, alla titolare dell’allevamento, solo dopo però che ella aveva eseguito tutti i lavori di adeguamento della struttura che le erano stati prescritti in sede di sopralluogo e gli animali malati erano stati sottoposti alle cure dovute . Tirando le somme, l’inadeguatezza dei locali dove erano ospitati gli animali – i quali, anche a causa dell’umidità dei luoghi, avevano contratto le patologie diagnosticate dal veterinario – è elemento sufficiente per ritenere acclarata la responsabilità penale della titolare dell’allevamento. Significativa, in sostanza, la connessione tra le patologie presenti su molti degli animali e la mancanza di prese di areazione della struttura con mancato ricambio di area e condensa di umidità .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 3 dicembre 2020 – 1 aprile 2021, n. 12436 Presidente Rosi – Relatore Zunica Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa il 14 ottobre 2019, il Tribunale di Perugia condannava C.S. alla pena di 4.000 Euro di ammenda, in quanto ritenuta colpevole del reato di cui all’art. 727 c.p., comma 2, a lei contestato perché, quale titolare dell’impresa individuale I cuccioli di Sally , deteneva 32 cani di diversa età e razza, in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze, essendo i cani chiusi in 9 box inidonei a garantire adeguato ricambio d’aria ed essendo peraltro molti cani affetti da patologie, fatto accertato in omissis . Avverso la sentenza del Tribunale umbro, la C. , tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con cui la difesa censura l’affermazione della penale responsabilità della ricorrente, rimarcando, in primo luogo, l’errore compiuto dal Tribunale circa l’antefatto storico del reato contestato, avendo il giudice omesso di valutare la dichiarazione del teste di P.G. B.L. , il quale aveva sottolineato l’esistenza di un duplice sequestro di cani, uno con finalità probatorie, disposto dalla Procura della Repubblica di Cuneo, l’altro, con finalità preventive, operato dalla Gruppo forestale dei c.c. di Perugia e successivamente convalidato dalla locale Procura. Ora, la circostanza che le due diverse Autorità procedenti siano pervenute, a seguito di semplice istanza della difesa, alla restituzione dei cani alla ricorrente costituisce un tema rilevante circa l’insussistenza dei profili di maltrattamento e di sofferenza che, sebbene proposto, era stato pretermesso nella motivazione. La difesa inoltre censura il giudizio operato nella sentenza impugnata circa la riconducibilità delle patologie dei cani agli ambienti di ricovero degli animali, osservando che, partendo dallo stato dei luoghi, peraltro in spregio alle prove orali e documentali, il Tribunale è arrivato all’erronea conclusione secondo cui le patologia riscontrate, ritenute prodromiche di sofferenza certa per i cani, fossero in diretta connessione con il dato ambientale, senza considerare che per i medici veterinari la prognosi causale era in realtà multipla, fermo restando che la struttura dove erano ospitati gli animali non poteva arrecare loro nocumento, secondo quanto sostenuto dal medico veterinario Dott. L.F. . Infine, quanto alle presunte sofferenze dei cani, la difesa osserva che la prova nel caso di specie era del tutto mancata, atteso che i cani, oltre a non essere mal custoditi, erano costantemente seguiti dal veterinario, in ragione delle patologie insorte, peraltro temporanee e non riconducibili ai luoghi di custodia, per cui non poteva ritenersi configurabile nella vicenda in esame il necessario livello di grave sofferenza degli animali, elemento costitutivo della fattispecie contestata. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. 1. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, il giudizio di colpevolezza dell’imputata non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede. Al riguardo deve infatti osservarsi che il giudice monocratico ha innanzitutto compiuto una disamina adeguata delle fonti dimostrative acquisite, in particolare richiamando le testimonianze dei testi di P.G. e la documentazione acquisita, da cui è emerso che, in data 28 febbraio 2017, personale dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Polizia Ambientale e forestale di Perugia eseguiva un sopralluogo in omissis , presso l’allevamento di cani denominato I cuccioli di Sally , di cui risultava legale rappresentante la ricorrente C.S. nella struttura, completamente chiusa e priva di qualsiasi tipo di apertura per il ricambio di aria, dimoravano 32 cani, collocati in nove box chiusi con porte e finestre. All’interno l’aria era carica di umidità e di un forte odore di ammoniaca e inoltre la pavimentazione, intrisa di umidità, era inidonea a ospitare animali. A quel punto veniva sollecitato l’intervento del veterinario Dott. Bo.Ma. , dirigente presso il servizio veterinario dell’A.U.S.L. Umbria X, il quale rilevava che la maggior parte dei cani presentava dermatiti e alopecia diffuse in stato avanzato, verosimilmente riconducibili all’ambiente malsano al cui interno dimoravano, alla mancanza di ricambio di aria, nonché agli esiti di parassitosi, essendo inoltre emerso che alcuni cani presentavano congiuntivite e cheratite, altri rogna, mentre un cane era stato trovato addirittura con numerose feci attaccate al corpo. Gli animali venivano quindi sottoposti a sequestro preventivo, per essere poi, in data 27 aprile 2017, restituiti all’imputata, dopo che costei aveva eseguito tutti i lavori di adeguamento della struttura che le erano stati prescritti in sede di sopralluogo e dopo che gli animali malati erano stati sottoposti alle cure dovute. Orbene, all’esito di tali accertamenti, il Tribunale è pervenuto alla coerente conclusione circa la configurabilità del reato, richiamando in tal senso la costante affermazione della giurisprudenza di legittimità cfr. Sez. 3, n. 52031 del 04/10/2016, Rv. 268778 , secondo cui, in tema di reato di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, previsto dall’art. 727 c.p., comma 2, la grave sofferenza dell’animale, elemento oggettivo della fattispecie, deve essere desunta dalle modalità della custodia che devono essere inconciliabili con la condizione propria dell’animale in situazione di benessere. Nella vicenda in esame, ai fini della configurabilità del reato contestato, il giudice monocratico ha valorizzato, in maniera non illogica, l’inadeguatezza dei locali dove erano ospitati gli animali, i quali, anche a causa dell’umidità dei luoghi, avevano contratto in gran numero le patologie diagnosticate dal veterinario interpellato. Ora, a fronte della ricostruzione operata dal giudice di merito, la ricorrente ha proposto una differente lettura del materiale probatorio, che tuttavia non può trovare ingresso in questa sede, dovendosi solo rilevare che, come sottolineato anche dal Procuratore generale, alcun travisamento delle prove appare ravvisabile nell’odierna vicenda processuale, atteso che, come risulta dalle stesse allegazioni difensive, il veterinario B. , in dibattimento, ha ricondotto probabilmente, anzi sicuramente , pag, 9 della trascrizione fonografica del 5 novembre 2018 le patologie presenti su molti degli animali ospitati nella struttura alla mancanza di prese di areazione della struttura e al conseguente mancato ricambio di area. Del resto, con onestà intellettuale, la stessa imputata, all’udienza del 4 marzo 2019 pag. 4 ss. della trascrizione fonografica , pur ridimensionato l’entità dei fatti, ha tuttavia riconosciuto che le dermatiti e le congiuntiviti riscontrate sui cani sono state causate dalla condensa di umidità dovuta a sua volta all’assenza delle bocchette d’aria, non ancora installate al momento del trasferimento dei cani nella struttura avvenuto a fine gennaio 2017 , mentre, a seguito del sopralluogo, sono state installate le prese d’aria ed è stata risolta la problematica dell’umidità che interessava il pavimento, essendosi cioè posto rimedio alle iniziali inadeguatezze della struttura, che avevano provocato l’insorgenza delle patologie riscontrate. Del resto, anche lo stesso teste della difesa, il veterinario D.F.L. , all’udienza del 14 ottobre 2019, ha riferito di aver iniziato a frequentare la nuova struttura dove sono stati trasferiti i cani solo dopo i fatti di causa, per cui non conosceva lo stato dei luoghi prima del sopralluogo da cui è scaturito il presente procedimento, avendo in ogni caso il Dott. D.F. parlato genericamente di una multifattorialità delle dermatiti, senza tuttavia indicare fattori di rischio alternativi concretamente operanti nel caso di specie, precisando solo che le patologie degli animali, da lui seguite con il collega Farinelli, si risolsero in tempi brevi circa un mesetto , circostanza questa che non smentisce certo il presupposto dell’odierna contestazione, ovvero che, sia pure in un periodo circoscritto, gli animali sono stati ospitati in una struttura le cui condizioni, a causa dell’umidità e della mancanza di prese di areazione, hanno provocato in molti cani l’insorgenza di patologie non proprio trascurabili, per eliminare le quali sono state necessarie cure specifiche. Nè appare decisivo approfondire in questa sede la questione su se l’adeguamento della struttura da parte dell’imputata sia stato o meno spontaneo, trattandosi di un postfactum inidoneo a incidere sulla configurabilità del reato, fermo restando che il positivo comportamento della ricorrente è stato correttamente valorizzato nella sentenza impugnata ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche. 2. In conclusione, l’affermazione della penale responsabilità dell’imputata, in quanto fondata su un percorso argomentativo che, pur nella sua sintesi, risulta non manifestamente illogico e comunque coerente con le acquisizioni probatorie, non presta il fianco alle censure difensive, che come detto sollecitano una diversa e invero parziale rilettura delle fonti dimostrative acquisite, per cui si impone il rigetto del ricorso proposto nell’interesse della C. , con conseguente onere per la ricorrente, ex art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.