Il giudice dell’esecuzione deve riqualificare la pena accessoria sulla base dei parametri di cui all’art.133 c.p.

La durata delle pene accessorie, non definite in misura fissa, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’articolo 133 c.p. e non, invece, parametrata alla durata della pena principale inflitta ex articolo 37 c.p. Tale operazione non deve ritenersi preclusa al giudice dell’esecuzione, allorquando è chiamato a riqualificare la sanzione principale o accessoria secondo novellati indici di legalità .

La Corte di Cassazione, con la pronuncia numero 26601/20, depositata il 24 settembre u.s., si esprime in tema di pene accessorie in materia fallimentare e ribadisce principi già enucleati dalle Sezioni Unite della Corte sulla scorta della sentenza numero 222/2018 pronunciata dal Giudice delle Leggi. Il Giudice dell’Udienza Preliminare di Sciacca – in funzione di giudice dell’esecuzione - emetteva ordinanza di rigetto avverso l’istanza proposta dal difensore di un soggetto condannato, in via definitiva, per bancarotta fraudolenta aggravata , con la quale si chiedeva la riduzione della durata delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e dell’inabilità ad assumere uffici direttivi stabilite in anni dieci. La richiesta si fondava sull’intervenuta sentenza della Corte Costituzionale numero 222 del 5 dicembre 2018 , con cui la Consulta dichiarava costituzionalmente illegittimo l’articolo 216, ultimo comma, del R.D. numero 267/1942 nella parte in cui prevedeva l’automatica pena accessoria ivi contemplata in anni dieci, anziché fino ad anni dieci . Dunque, la Corte Costituzionale, con sentenza manipolativa additiva, non stigmatizza l’ automatica applicazione della pena accessoria in caso di condanna per fatti di bancarotta fraudolenta, bensì ne dichiara irragionevole e anticostituzionale la misura fissa e non parametrabile al caso concreto. Il G.U.P. procedente, con rito planare , in violazione delle norme in tema di contraddittorio, rigettava l’istanza. Avverso tale provvedimento propone ricorso per Cassazione il difensore del condannato, articolando due motivi di censura in primis , si contesta la violazione dell’articolo 666 c.p.p., per l’omessa trattazione della questione nelle forme assicurate dalla legge in contraddittorio in secondo luogo, si lamenta la violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo agli artt. 37, 62- bis e 133 c.p., per avere il giudicante argomentato il proprio diniego con un generico richiamo alla motivazione resa dal giudice del merito che aveva negato la prevalenza delle attenuanti generiche, senza tener conto dell’applicazione di una pena vicino al minimo edittale. Le censure avanzate dalla difesa colgono doppiamente nel segno. La Corte di Legittima, in prima battuta, condivide la violazione delle forme di trattazione del procedimento di esecuzione, che tollera l’assenza di contraddittorio solo in caso di inammissibilità dell’istanza. Altresì, gli Ermellini scorgono la piena fondatezza della doglianza sollevata dalla difesa con riguardo al vizio di motivazione. Più segnatamente, a sostegno di tale apprezzamento viene richiamato l’insegnamento delle Sezioni Unite del 2019, col quale si è affermato che la durata delle pene accessorie , non definite in misura fissa, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’articolo 133 c.p. e non, invece, parametrata alla durata della pena principale inflitta ex articolo 37 c.p. Ebbene, sulla scorta di tale principio, secondo la Corte di Cassazione, il G.U.P. procedente ha emesso una motivazione generica e incongrua, priva di una disamina effettiva circa le determinazioni del Giudice di merito sulla quantificazione della pena principale alla luce degli indicatori di cui all’articolo 133 c.p., da doversi utilizzare anche per la determinazione delle pene accessorie. Siffatta indagine non deve ritenersi preclusa al giudice dell’esecuzione, allorquando è chiamato a riqualificare la sanzione principale o accessoria secondo novellati indici di legalità. Alla stregua di tale ricostruzione, la Corte di Cassazione annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Giudice per le Indagini Preliminari di Sciacca.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 16 – 24 settembre 2020, n. 26601 Presidente Rocchi – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1.Con ordinanza in data 29 novembre 2019 il G,u.p. del Tribunale di Sciacca, pronunciando quale giudice dell’esecuzione, respingeva l’istanza, proposta nell’interesse di B.L. , volta ad ottenere la riduzione della durata delle pene accessorie dell’inabilitazione ad esercitare impresa commerciale e dell’inabilità ad assumere uffici direttivi presso qualsiasi impresa, durata già stabilita in misura pari a dieci anni con sentenza emessa dallo stesso Tribunale in data 15 gennaio 2016, confermata dalla Corte di appello di Palermo e divenuta irrevocabile il 2 settembre 2018. A fondamento della decisione, rilevava che l’entità della pena principale inflitta in sede di cognizione non consentiva di rimodulare la durata delle pene accessorie. 2. Ricorre per cassazione il B. a mezzo del difensore, avv.to Giuseppe De Luca, che ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata per i seguenti motivi a violazione di norme processuali in relazione al disposto dell’art. 666 c.p.p., comma 3, per avere il giudice dell’esecuzione provveduto de plano in assenza di contraddittorio tra le parti in violazione del diritto di difesa, sebbene la domanda proposta con incidente di esecuzione fosse tutt’altro che inammissibile, essendo basata sull’intervento della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018. b Violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in riferimento al disposto degli artt. 37, 133 e 62-bis c.p Secondo la difesa, le argomentazioni poste a fondamento dell’ordinanza sono contrastanti tra loro, poiché, richiamati gli artt. 37 e 133 c.p., viene poi riportata la motivazione della sentenza della Corte di appello per ritenere conclusivamente congrua la misura massima possibile consentita dalla legge e già inflitta. In tal modo il giudice dell’esecuzione ha richiamato la decisione di non condurre il giudizio di prevalenza tra le concesse attenuanti generiche sulle aggravanti senza però considerare che la commisurazione della pena principale era avvenuta in prossimità del minimo edittale. 3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, Dott. Pasquale Fimiani, ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. Considerato in diritto Il ricorso è fondato e merita dunque accoglimento. 1.La vicenda processuale all’odierno esame riguarda il contestato esercizio dei poteri cognitivi da parte del giudice dell’esecuzione, chiamato a delibare il tema della commisurazione temporale di sanzioni accessorie temporanee, inflitte con sentenza di condanna irrevocabile. La questione di diritto, che il provvedimento impugnato non affronta, ma che per implicito ritiene risolvibile positivamente, attiene alla proponibilità con il rimedio dell’incidente di esecuzione della richiesta di rinnovata determinazione del profilo temporale relativo all’applicazione delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualunque impresa, già imposta all’imputato per la durata di anni dieci all’esito del giudizio di cognizione con statuizione irrevocabile. La peculiarità del caso si coglie nell’intervento, successivamente alla formazione del giudicato, della pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 5/12/2018, che ha dichiarato l’illegittimità del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa , anziché che la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni . Sul presupposto di tale diversa parametrazione legale del profilo temporale delle pene accessorie, il condannato aveva chiesto al giudice dell’esecuzione di procedere ad una diversa e più favorevole commisurazione della loro durata, istanza che è stata respinta. 2. La decisione reiettiva dell’istanza presenta un primo profilo di nullità per la violazione del disposto dell’art. 666 c.p.p., comma 3. Come dedotto in ricorso, il giudice di merito ha definito il procedimento col rito planare in violazione del diritto delle parti al contraddittorio. 2.1 La disciplina dell’art. 666 c.p.p. impone in via generale al comma 3 l’attivazione del contraddittorio tra le parti e la fissazione dell’udienza in camera di consiglio per dar modo alle stesse di partecipare ed interloquire innanzi al giudice contempla, altresì, in deroga alla regola ordinaria, la possibilità di un epilogo decisorio anticipato della richiesta, in termini d’inammissibilità, ai sensi dell’art. 666 c.p.p., comma 2, mediante pronuncia di decreto reso con procedura de plano ed in assenza di contraddittorio, quando ricorrano le due condizioni della proposizione di istanza già rigettata e basata sui medesimi elementi, ovvero manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge . Avverso il decreto di inammissibilità adottato de plano è poi consentita la proposizione di ricorso per cassazione, ai sensi dell’ultimo inciso dell’art. 666 c.p.p., comma 2. La norma citata, inserita tra le disposizioni generali sull’esecuzione, sancisce la forma di tutti i procedimenti di competenza del giudice dell’esecuzione, con la unica eccezione per i casi in cui sia applicabile la diversa e specifica procedura de plano quale fase preliminare dell’ordinario procedimento camerale, prevista dal cit. art. 666 c.p.p., comma 2. sez. 1, n. 45998 del 05/07/2013, P.M. in proc. Cervone e altri, rv. 257472 sez. 1, n. 42471 del 27/10/2009, P.M. in proc. Tozzi, rv. 245574 sez. 1, n. 7344 del 28/01/2008, P.M. in proc. Palmigiani, rv. 239138 sez. 2, n. 5495 del 17/1/1999, Esposito, rv. 216349 sez. 1, n. 1461 del 5/3/1996, P.G. in proc. Verde, rv. 204311 sez. 1, n. 5626 del 23/11/1994, Giovazzino, rv. 200329 . Tale ultima disposizione delimita i casi di inammissibilità della richiesta presentata ai sensi del precedente art. 665 e consente di pronunciare la decisione con decreto in deroga alla regola generale del contraddittorio, garantito dal rito camerale, quando l’inammissibilità sia palese ed oggetto di mera constatazione, più che di valutazione, per carenza dei presupposti minimi indefettibili richiesti per legge per l’accoglimento della domanda, oppure se operi la preclusione alla rinnovata proposizione di domanda, priva di aspetti di novità rispetto a quella già decisa in precedenza. 2.2 Nel caso specifico la decisione di respingere la richiesta del condannato all’esito di una disamina approfondita delle circostanze rappresentate in considerazione della vicenda processuale già definita in fase di cognizione ed ai mutamenti del quadro normativo di riferimento, quindi su questione giuridicamente controvertibile, richiedente accertamenti di fatto e corretta esegesi della disciplina regolatrice, rivela la piena ammissibilità dell’iniziativa del B. , che quindi, non essendo assunta in difetto delle condizioni legittimanti e non costituendo mera replica di identica domanda già respinta, avrebbe richiesto il confronto tra le parti ed il giudice nel contesto dell’udienza in camera di consiglio. L’aver omesso tale adempimento è causa di nullità assoluta ed insanabile ai sensi dell’art. 178 c.p.p., lett. c , degli atti e del provvedimento conclusivo del procedimento per violazione del diritto della parte alla partecipazione del suo difensore all’udienza, nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento sez. 1, n. 7433 del 28/1/2008, rv. 239138 . 3. Ritiene comunque opportuno il Collegio affrontare anche il motivo sul contenuto della decisione. 3.1 Va premesso che si ritiene di dare continuità all’indirizzo già affermato da questa Corte sez. 1, n. 3290 del 03/12/2019, dep.2020, Di Leva, rv. 278813 , secondo il quale anche al giudice dell’esecuzione è consentito procedere alla rideterminazione della durata delle pene accessorie, inflitte con sentenza definitiva, quando ne sia richiesto l’adeguamento alla sopravvenuta modifica della disciplina normativa per effetto dell’intervento di una sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale. Il caso già risolto presenta identica questione giuridica, riguardando anch’esso la rinnovata commisurazione della durata delle pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c 3.2 Pacifici sono i presupposti di fatto dell’istanza da un lato la condanna irrevocabile del B. per fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione, alla inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale ed all’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci dall’altro l’intervento dopo la formazione del giudicato di condanna della sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 216, u.c., L. Fall., nella parte in cui stabilisce in dieci anni, anziché fino a dieci anni, la durata delle sanzioni accessorie in essa prevista. La pronuncia additiva della Consulta, pur senza avere inciso sul meccanismo di automatica applicazione, ha determinato un sostanziale e rilevante mutamento della previsione circa la durata decennale, unica e fissa, delle pene accessorie fallimentari ivi stabilite, con la trasposizione all’interno dell’art. 216 della medesima formulazione degli artt. 217 e 218 L. Fall., comportante la determinazione da parte del giudice della durata in base ad una valutazione operata caso per caso e disgiunta dalla commisurazione della pena principale, da ancorare al diverso carico di afflittività ed alla diversa finalità di ciascuna pena. Sul tema sono poi intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a dirimere il contrasto emerso tra le sezioni semplici in ordine agli effetti ed alle modalità di reazione alla sentenza della Corte costituzionale in riferimento ad un processo di cognizione, non ancora definito con sentenza irrevocabile hanno così stabilito che La durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. Sez. U., n. 28910 del 28/02/2019, Suraci ed altri, rv. 276286 , rimettendo al giudice di merito il compito di procedere alla rinnovata commisurazione in base ai criteri di principio così espressi. È rimasta effettivamente insoluta, perché non devoluta al giudizio delle Sezioni Unite, l’ulteriore questione della possibilità di operare tale nuova determinazione, che tenga conto della diversa struttura della pena non prefissata e predeterminata dal legislatore, nell’ambito dell’incidente esecutivo dopo che sulla sua durata, già stabilita in misura fissa ed invariabile di dieci anni, si sia formato il giudicato. Si ritiene di dover offrire al quesito risposta positiva in coerenza con i principi generali che già la giurisprudenza di legittimità ha fornito in precedenza. Se, infatti, si ammette pacificamente la possibilità che il giudice dell’esecuzione intervenga per rimuovere la pena principale, ove la stessa sia stata inflitta in violazione dei parametri normativamente fissati, e se il profilo dell’illegalità del trattamento punitivo quanto alla sanzione principale debba essere oggetto di costante verifica in tutto il corso del procedimento, compreso il suo segmento esecutivo, poiché non sarebbe conforme ai valori costituzionali ammettere che la potestà punitiva dello Stato si esplichi in contrasto con le previsioni di legge Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, rv. 258650 Sez. U., n. 4687 del 20/12/2005, Catanzaro, rv. 232610 , le medesime esigenze di salvaguardia dei diritti individuali e di adeguamento al sopravvenuto mutamento normativo o a declaratorie di incostituzionalità si pongono, quando il rapporto esecutivo non si sia già esaurito, anche in riferimento al profilo temporale delle pene accessorie, la cui applicazione e commisurazione rientra nelle facoltà conferite in via generale dall’art. 676 c.p.p. al giudice dell’esecuzione. La finalità di garantire la proporzione tra previsione normativa e risposta punitiva concreta e l’allineamento tra la sanzione nel suo profilo attinente alla durata e gli estremi edittali, quando modificati per intervento del legislatore o del giudice costituzionale con la sostituzione di un criterio commisurativo ad altro - nel caso in esame da quello che prevedeva un’unica misura fissa alla possibile graduazione sino ad un tetto massimo-, deve trovare realizzazione mediante un’operazione di riqualificazione sanzionatoria da attuare in via postuma rispetto al giudicato già formatosi, ossia nella fase dell’esecuzione e si pone in termini speculari per la pena principale come per quella accessoria quando venga in gioco il profilo della misura e della protrazione temporale ed ancora il rapporto esecutivo sia in atto e produttivo di effetti. A fronte della formulazione ampia dell’art. 676 c.p.p., che testualmente non contiene limitazioni sulle attribuzioni decisorie del giudice dell’esecuzione in materia di pene accessorie e legittima quindi qualsiasi tipo di statuizione anche di eliminazione o di modifica della pronuncia già intervenuta sul punto, non è sufficiente richiamare la previsione dell’art. 183 disp. att. c.p.p. che consente di sanare l’omissione verificatasi nel giudizio di cognizione, ma a condizione che l’applicazione delle pene accessorie non richieda l’esercizio di poteri delibativi discrezionali la norma, infatti, prevede uno spazio d’intervento per il giudice dell’esecuzione, circoscritto ai soli casi di pena predeterminata per specie e durata, a ragione degli effetti peggiorativi del carico sanzionatorio già derivante dalla pronuncia di condanna. Non altrettanto può ritenersi quando l’adeguamento della sanzione già inflitta comporti effetti favorevoli per il condannato. Deve dunque confermarsi l’ammissibilità della domanda di tutela avanzata dal ricorrente, per sollecitare un intervento conformativo da parte del giudice dell’esecuzione delle pene complementari inflittegli alla nuova cornice edittale. 3.3 Ciò posto, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto di dover confermare in dieci anni la misura delle pene accessorie già inflitte al B. a ragione del giudizio espresso nella sentenza della Corte di appello di Palermo, confermativa di quella di primo grado, circa l’irrogazione della pena principale eccedente il limite minimo assoluto di soli sei mesi di reclusione ed il diniego di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle contestate aggravanti per l’assenza di elementi positivi valutabili a tal fine. Sul presupposto che in fase esecutiva fosse preclusa una rivalutazione della gravità dell’apporto causale del B. rispetto ai fatti per i quali interveniva sentenza di condanna in relazione ad entrambe le fattispecie oggetto di contestazione , considerati l’entità del pregiudizio arrecato alla massa ed il predetto apporto causale, ha concluso per la congruità della misura massima delle predette sanzioni complementari. La motivazione del provvedimento in verifica è palesemente incongrua e non tiene conto delle valutazioni già espresse nel giudicato di condanna, laddove, pur a fronte della considerazione della natura fraudolenta delle condotte, compiute in danno dei creditori e della pluralità di fatti criminosi, la pena della reclusione è stata graduata, partendo dalla base di anni tre e mesi sei di reclusione, superiore di soli sei mesi al minimo edittale e previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche, stimate equivalenti alle due aggravanti contestate. Tanto implica un apprezzamento della fattispecie concreta come contraddistinta da non particolare gravità oggettiva e da un giudizio altrettanto modesto di pericolosità sociale dell’imputato, che non trova rispondenza ed è contraddetto dalle considerazioni espresse in fase esecutiva, rimaste però prive di un supporto giustificativo che dia conto della ragionevolezza e proporzione della scelta improntata al massimo rigore punitivo, del tutto sperequata rispetto al trattamento inflitto quanto a pena principale. In definitiva, aderendo all’interpretazione delle Sezioni Unite e pur riconoscendo al giudice dell’esecuzione la libertà cognitiva di stabilire in via autonoma la durata delle pene accessorie fallimentari, senza dover rispettare la perfetta simmetria di decisione rispetto a quanto statuito per la pena principale detentiva, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Sciacca, che procederà al rinnovato esame dell’incidente utivo nel rispetto dei principi sopra esposti. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Sciacca.