Concessione del permesso premio e verifica dei collegamenti con la criminalità organizzata

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. ove non prevede che, ai detenuti per i delitti ivi elencati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità e la possibilità di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. Per questa ragione il giudice di sorveglianza deve concretamente verificare l’evoluzione della personalità del detenuto in funzione del tempo trascorso in detenzione.

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 19600/20, depositata il 30 giugno. Il Tribunale di Sorveglianza rigettava il reclamo proposto da un condannato avverso il decreto del Magistrato di sorveglianza che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di concessione del permesso premio da lui richiesto, a ragione dell’espiazione della pena inflitta per reati ex art. 4-bis, c.1, ord. pen. e dell’insussistenza del requisito di collaborazione impossibile o inesigibile e per mancata acquisizione di elementi idonei ad escludere l’insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata . Avverso la decisione propone ricorso l’interessato lamentando che il Tribunale di sorveglianza non ha tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale n. 253/2019 perché intervenuta successivamente al decreto contestato col reclamo, ignorando l’efficacia ex tunc delle pronunce di incostituzionalità che fanno perdere efficacia alla norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione ed erga omnes con l’unico limite dei rapporti esauriti, posto che non è esaurito quello riguardante il ricorrente, che è ancora detenuto in espiazione di pena. La Cassazione rileva che è fondata la doglianza, con la quale si lamenta che il Tribunale di sorveglianza abbia ritenuto ininfluente sulla decisione da assumere l’intervento della pronuncia n. 253/19 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti ivi elencati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. pen., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Con la sentenza n. 253 del 2019 la Corte costituzionale ha concluso che non è di per sé irragionevole la presunzione che il condannato non collaborante con la giustizia resti legato all’organizzazione criminale di originaria appartenenza, ma lo sono la sua assolutezza ed invincibilità in forza di prova contraria. Pertanto, la magistratura di sorveglianza deve verificare l’evoluzione della personalità del detenuto in funzione del tempo trascorso in detenzione. A ragione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità, demandato dai giudici rimettenti, la decisione della Corte costituzionale non investe le disposizioni in tema di collaborazione impossibile o inesigibile ma non esaurisce l’ambito dell’indagine demandata alla giurisdizione di sorveglianza che, come già detto, include la verifica anche dell’assenza del pericolo di ripristino di collegamenti con gli ambienti criminali organizzati. Nel caso di specie, non essendo stata la questione dell’accesso al permesso premio già trattata ed esaurita in base alla sola decisione del magistrato di sorveglianza, che è stata investita di reclamo, la stessa è ancora oggetto di riesame nel merito da parte del giudice dell’impugnazione, quindi non si sottrae agli effetti della declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, che avrebbero dovuto essere direttamente considerati dal Tribunale di sorveglianza Chiarito questo, la Cassazione accoglie il ricorso e annulla l’ordinanza impugnata, rinviando al Tribunale di sorveglianza.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 22 giugno – 30 giugno 2020, n. 19600 Presidente Di Tomassi – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1.Con ordinanza in data 12 dicembre 2019, il Tribunale di sorveglianza di Milano rigettava il reclamo, proposto nell’interesse di S.T. , condannato in espiazione pena, avverso il decreto del Magistrato di sorveglianza di Pavia del 16 settembre 2019, che aveva dichiarato inammissibile Istanza di concessione del permesso premio dallo stesso richiesto, a ragione dell’espiazione di pena inflitta per reati ostativi di prima fascia ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. e dell’insussistenza del requisito della collaborazione impossibile o inesigibile, oltre alla mancata acquisizione di elementi idonei ad escludere l’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. 2. Avverso l’indicata ordinanza ha proposto ricorso l’interessato a mezzo del difensore, avv.to Antonella Calcaterra, la quale ne ha chiesto l’annullamento per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 136 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30 e per vizio di motivazione. Secondo la difesa, il Tribunale di sorveglianza ha erroneamente rifiutato di considerare il caso in base alla decisione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253/2019 perché intervenuta successivamente al decreto contestato col reclamo, ignorando l’efficacia ex tunc delle pronunce di incostituzionalità che fanno perdere efficacia alla norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione ed erga omnes con l’unico limite dei rapporti esauriti. Tale non è quello riguardante il ricorrente, che è ancora detenuto in espiazione di pena e può accedere ai benefici penitenziari, sicché il reclamo avrebbe dovuto essere considerato rispetto a domanda ammissibile, da valutare secondo gli stringenti criteri dettati dalla Consulta. 3. Con requisitoria scritta, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, Dott. Sante Spinaci, ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. Considerato in diritto Il ricorso è fondato e merita dunque accoglimento. 1.Va premesso che, come rilevato nell’ordinanza impugnata, nei confronti del ricorrente è in corso di esecuzione la pena detentiva complessiva di anni dieci, mesi otto e giorni dieci di reclusione, come individuata nel provvedimento di unificazione di pene concorrenti, emesso dalla Procura Generale presso la Corte di appello di Milano n. 1279/2017 SIEP, che include le pene inflitte per numerosi reati di partecipazione ad associazione mafiosa, usura, estorsione aggravata, riciclaggio, intestazione fittizia dei beni aggravati dalla finalità dal metodo mafioso D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e truffa, con fine pena al 19/11/2023. 2. Tanto stabilito, risulta fondata la doglianza, con la quale si lamenta che il Tribunale di sorveglianza abbia ritenuto ininfluente sulla decisione da assumere l’intervento della pronuncia n. 253 del 23 ottobre 2019, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti ivi elencati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. pen., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. È dunque stata abolita la presunzione assoluta di persistenza dei legami con la criminalità organizzata in dipendenza della commissione di determinati reati, indicativi dell’appartenenza ad organizzazioni di stampo mafioso o del collegamento con le stesse, presunzione ritenuta superabile soltanto con la scelta di collaborare con la giustizia, indicativa della volontà di rescindere i pregressi legami con il contesto associativo e del venir meno della pericolosità sociale, incompatibile con l’ammissione ai benefici penitenziari, oppure in via equipollente con l’accertamento della impossibilità o inesigibilità della collaborazione. Con la sentenza n. 253 del 2019 la Corte costituzionale ha concluso che non è di per sé irragionevole la presunzione che il condannato non collaborante con la giustizia resti legato all’organizzazione criminale di originaria appartenenza, ma lo sono la sua assolutezza ed invincibilità in forza di prova contraria. Soltanto una presunzione relativa e superabile da contrarie risultanze si mantiene entro i limiti di una scelta di politica criminale, che rispetta le finalità di prevenzione speciale e di risocializzazione, proprie della pena come delineate dall’art. 3 Cost. e art. 27 Cost., comma 3. È dunque richiesto che la magistratura di sorveglianza, al di fuori di qualsiasi automatismo, verifichi nell’ambito di un’indagine condotta in via discrezionale in concreto ed individualizzata, improntata a criteri di particolare rigore, l’evoluzione della personalità del detenuto in funzione del tempo trascorso in detenzione e dell’attività trattamentale praticata e le modifiche del contesto criminale esterno, al fine di riscontrare l’eventuale scioglimento dell’organizzazione e l’impossibilità di una sua ricostituzione o della ripresa dei vincoli associativi coinvolgenti anche il detenuto. Secondo la Consulta dunque la presunzione di pericolosità sociale del condannato che non collabora potrà essere superata, non in base alla mera regolarità della condotta carceraria o alla partecipazione al percorso rieducativo, nè ad una formale e soltanto dichiarata dissociazione, ma grazie all’acquisizione di altri, congrui e specifici dati conoscitivi personali e di contesto, che includono l’ambiente esterno al carcere, nel quale potrà episodicamente rientrare il detenuto ammesso al permesso premio, per escludere il mantenimento attuale e la possibilità di ripresa dei collegamenti con la criminalità organizzata in riferimento agli elementi favorevoli dedotti dall’interessato a sostengo della sua richiesta. 2.1 A ragione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità, demandato dai giudici rimettenti, la decisione della Corte costituzionale non investe le disposizioni in tema di collaborazione impossibile o inesigibile, non eliminate e quindi ancora vigenti, dotate di invariata concreta portata precettiva ed utilità, poiché l’accertamento in positivo della impossibilità o inesigibilità della collaborazione qualifica la scelta del condannato di astensione dal fornire informazioni alla autorità giudiziaria sez. 1, n. 10551 del 12/12/2019, dep. 2020, Galati, rv. 278490 , ma non esaurisce l’ambito dell’indagine demandata alla giurisdizione di sorveglianza che, come già detto, include la verifica anche dell’assenza del pericolo di ripristino di collegamenti con gli ambienti criminali organizzati. 2.2 Ritiene il Collegio che nel caso in esame emerge l’erroneità in punto di diritto dell’affermazione del Tribunale di sorveglianza sull’irrilevanza per la soluzione della vicenda processuale della pronuncia di incostituzionalità. L’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. è stato rimosso dall’ordinamento nella parte censurata perché in contrasto con i parametri costituzionali e non può più essere applicato nei procedimenti ancora pendenti e non definiti con decisione irrevocabile. Come pacificamente riconosciuto da questa Corte e dalla giurisprudenza costituzionale Sez. U., n. 27614 del 29/03/2007, P.C. in proc. Lista, rv. 236535 Sez. U., n. 17179 del 27/02/2002, Conti, rv. 221401 e secondo quanto discende dalla L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 3, la declaratoria d’incostituzionalità di una norma, assimilabile all’annullamento, anche se di natura additiva, impone l’obbligo per il giudice di non farne applicazione e la relativa questione deve essere affrontata anche d’ufficio, in quanto i suoi effetti invalidanti operano non soltanto per il futuro, ma anche in via retroattiva sulle situazioni pregresse e non ancora esaurite, ossia non modificabili o revocabili. In altri termini, tanto comporta il divieto per il giudice di applicare la norma dichiarata incostituzionale non soltanto nel procedimento in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, ma in ogni altro giudizio in cui la norma stessa possa essere assunta a canone di valutazione di qualsiasi fatto o rapporto anche se antecedente alla data di pubblicazione della suddetta sentenza e sempre che trattasi di fatti o rapporti ancora in via di svolgimento, non produttivi, cioè, di effetti giuridici definitivi Sez. U, n. 7232 del 07/07/1984, Cunsolo, rv. 165563 . Soltanto in relazione alla materia penale sostanziale ed in riferimento a norme incriminatrici ed a quelle incidenti sul trattamento punitivo la retroattività della decisione d’incostituzionalità vince anche l’intangibilità del giudicato di condanna Corte Cost., n. 43 del 10/01/2017 57 del 2016 e 210 del 2013 . 2.3 Nel caso di specie, non essendo stata la questione dell’accesso al permesso premio già trattata ed esaurita in base alla sola decisione del magistrato di sorveglianza, che è stata investita di reclamo, la stessa è ancora oggetto di riesame nel merito da parte del giudice dell’impugnazione, quindi non si sottrae agli effetti della declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, che avrebbero dovuto essere direttamente considerati dal Tribunale di sorveglianza senza che abbia fondamento la pretesa della difesa di un annullamento del provvedimento oggetto di reclamino un nuovo giudizio demandato al Magistrato di sorveglianza. Il reclamo, intatti -, diversamente dal ricorso per cassazione, seppur regolato dal principio devolutivo, investe il giudice chiamato a prenderne cognizione dell’intero thema decidendum e di ogni questione rilevante, non dei soli profili di legittimità del provvedimento impugnato. 2.4 Oltre al rilevato grave errore giuridico, l’ordinanza in esame, pur avendo richiamato testualmente la diffusa motivazione del provvedimento emesso dal Magistrato di sorveglianza, in ogni caso non rispetta i criteri valutativi indicati dal giudice costituzionale, poiché si è limita ad escludere la ricorrenza dei presupposti per riscontrare l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione dello S. senza affrontare il tema dell’acquisizione di elementi idonei a scongiurare l’attualità di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata anche in ragione del suo percorso trattamentale e della probabilità di rinsaldare tali collegamenti. Inoltre, il reclamo rivolto al Tribunale di sorveglianza aveva prospettato numerose obiezioni inerenti alla condotta carceraria ed ai progressi conseguiti durante la detenzione, atti a dimostrare l’assenza di attuale pericolosità sociale del condannato, che il Tribunale ha semplicemente ignorato. Tale carenza vizia l’ordinanza in esame anche per insufficienza ed apparenza motivazionale. Per le considerazioni svolte, il provvedimento va annullato con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Milano per nuovo giudizio, che dovrà rispettare il principio di diritto sull’efficacia vincolante della pronuncia della Corte costituzionale e colmare le lacune motivazionali riscontrate. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Milano.