Il sequestro o la confisca penale del reddito derivante da reato è opponibile al fisco?

In virtù dell’art. 14, comma 4, l. n. 537/1993 nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, TUIR rientrano i proventi da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale, sempre che la misura ablatoria sia intervenuta nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce.

Così la Suprema Corte con la sentenza n. 18575/20, depositata il 19 giugno. Il Tribunale di Genova condannava un imputato per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 per aver omesso di indiare nella dichiarazione dei redditi alcuni elementi attivi di reddito derivante dai delitti di appropriazione indebita . Veniva dunque disposta la confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa. La decisione veniva sostanzialmente confermata dalla Corte d’Appello che si limitava alla rideterminazione della somma confiscata. La questione è dunque giunta all’attenzione della Suprema Corte. Il ricorrente lamenta in primo luogo l’impossibilità di sottoporre a tassazione il reddito confiscato o sequestrato. Fermo restando che la censura è inammissibile non essendo stata proposta in appello, la Corte ricorda che ai sensi dell’art. 14, comma 4, l. n. 537/1993 nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, TUIR rientrano i proventi da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. Secondo la costante interpretazione di legittimità, l’operatività tale meccanismo è condizionata al fatto che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. In altri termini il sequestro e la confisca dei proventi sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto imponibile . Diversamente, il vincolo non nessuna rilevanza se disposto, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di prime grado come conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele. Il ricorso viene in conclusione dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 14 febbraio – 19 giugno 2020, n. 18575 Presidente Sarno – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 17 luglio 2017, il Tribunale di Genova ha condannato l’imputato alla pena - condizionalmente sospesa - di mesi dieci di reclusione, per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, per avere omesso di indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011, elementi attivi di reddito pari a Euro 1.301.704,00 provenienti dai delitti di cui all’art. 646 c.p. ai danni del partito omissis , con un’imposta IRPEF evasa di Euro 559.732,00, disponendo la confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa. Con sentenza del 15 febbraio 2019, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale, rideterminando in Euro 649.787,67 gli elementi attivi di reddito e in Euro 279.408,70 l’imposta IRPEF evasa, ha ridotto a tale somma la confisca disposta con la precedente sentenza e a nove mesi di reclusione la pena inflitta all’imputato. 2. Avverso la sentenza della Corte d’appello l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento. 2.1. Con una prima doglianza, si deducono la violazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34-bis e L. n. 537 del 1993, art. 14, nonché vizi di motivazione relativamente alla determinazione del reddito imponibile. A parere della difesa, la Corte d’appello non avrebbe considerato che il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34-bis, ha ampliato la nozione di reddito diverso di cui alla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, ricomprendendovi i proventi derivanti da illecito, ma ha lasciato inalterata la restante disciplina del citato comma 4, che contempla, come presupposto della sottoposizione ad imposta dei redditi diversi provenienti da illecito, che gli stessi non siano stati sottoposti a sequestro o a confisca penale. Nel caso di specie, dal momento che il reddito indebitamente percepito dall’imputato è stato oggetto di sequestro e di confisca, mancherebbe il presupposto per la tassazione del reddito stesso come proveniente da delitto e non sussisterebbe, di conseguenza, il reato fiscale. 2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano la violazione dell’art. 522 c.p.p. e il vizio di motivazione con riferimento alla provenienza della somma oggetto dell’imputazione, in quanto il giudice di secondo grado avrebbe eluso l’argomentazione difensiva, volta a evidenziare la mancanza di prova della condotta di appropriazione indebita, e avrebbe violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, nella parte in cui ha affermato che l’eventuale esclusione della provenienza delittuosa delle somme oggetto di evasione fiscale non ostacola la configurazione del reato di dichiarazione infedele. La decisione sarebbe altresì contraddittoria dal momento che il giudice, dopo avere formulato tale dichiarazione di principio, avrebbe dato per presupposta l’illecita provenienza delle somme di denaro percepite dall’imputato, riconducendole alla categoria di redditi diversi , piuttosto che verificarne in concreto la natura e i limiti di assoggettabilità a imposizione fiscale. 2.3. In terzo luogo, si deducono la violazione di legge in ordine alla determinazione dell’aliquota applicabile al reddito oggetto di evasione fiscale e il vizio di motivazione, dal momento che i giudici di secondo grado, piuttosto che applicare l’aliquota reale, corrispondente a quella che il contribuente avrebbe pagato ove il reddito fosse stato ricompreso nella dichiarazione, si sarebbero limitati ad applicare la percentuale di tassazione prevista dallo scaglione di reddito più alto il 43% . Inoltre - sostiene la difesa - andrebbero scorporate dall’importo complessivo presuntivamente evaso dall’imputato, le seguenti somme di denaro, non oggetto di condotte appropriative da parte dello stesso a Euro 60.000,00 come pagamento dell’avv. Scovazzi, avendo quest’ultimo percepito la diversa somma di Euro 6.000,00 b Euro 51.000,00, non oggetto della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011 perché in realtà riferiti all’anno 2010 c Euro 100.000,00, impiegati per un investimento del partito e già riconsegnati. Cosicché, tenendo conto di tali detrazioni e applicando l’aliquota reale, l’ammontare dell’imposta evasa dal contribuente sarebbe stato al di sotto della soglia di punibilità di Euro 150.000,00 prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, comma 1, lett. a . 2.4. Con una quarta doglianza, si lamentano la violazione di legge in relazione al calcolo del reddito imponibile e il vizio di motivazione, sul rilievo che la totale inattendibilità dei documenti contabili denunciata dalla difesa con l’atto di appello - e dimostrata dall’anomala presenza nella cassa del partito di un saldo negativo di Euro 327.789,00 - impediva di avere contezza delle somme oggetto di appropriazione indebita tassabili, secondo la normativa fiscale, quali redditi diversi. Inoltre, sarebbe stata pretermessa dalla Corte d’appello la circostanza emersa negli accertamenti peritali di C. e M. relativa all’esistenza in cassa di un saldo positivo di Euro 338.000,00, che avrebbe imposto, in ogni caso, di procedere nuovamente al calcolo degli importi oggetto di appropriazione indebita. Per la difesa, infatti, scomputando tale somma dall’ammontare ritenuto oggetto di illecita appropriazione Euro 649.787,67 e applicando al ricavato il coefficiente del 43%, l’importo evaso Euro 134.068,69 risulterebbe inferiore alla soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, e ciò non consentirebbe di configurare l’illecito penale. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile, risultando le censure sollevate in parte generiche e in parte manifestamente infondate. 1.1. Il primo motivo, con il quale si deduce l’impossibilità di sottoporre a tassazione, ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, il reddito che sia stato confiscato o sequestrato, è inammissibile, avendo ad oggetto violazioni di legge non dedotte nei motivi di appello. La circostanza che nelle precedenti sedi processuali non era stato formulato alcun rilievo concernente il sequestro e la confisca dei proventi, conferisce, infatti, alla censura carattere assolutamente nuovo e ne preclude l’esame in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 2. In ogni caso, tale deduzione risulta manifestamente infondata. Deve rilevarsi, sul punto, che la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, dispone che, nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con cit. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale . Fermo restando, dunque, che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca. L’operatività di tale meccanismo, secondo l’interpretazione data alla norma dalla costante giurisprudenza di legittimità, è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti.ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito. Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele imposta dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato ex plurimis, Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895 Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332 Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095 . 1.2. Il secondo motivo, con il quale si deduce l’insussistenza del reato di appropriazione indebita, è parimenti inammissibile perché formulato in termini non specifici. Deve, infatti, ricordarsi che sono inammissibili per genericità i motivi che riproducono e reiterano gli stessi rilievi prospettati con l’atto di appello, motivatamente respinti in secondo grado, e non si confrontano criticamente con le argomentazioni utilizzate nel provvedimento impugnato, limitandosi a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970 . Nel caso di specie, il giudice di secondo grado giunge ad affermare che, seppure si ipotizzasse come verosimile la tesi difensiva della natura non delittuosa dei proventi corrisposti all’imputato dalla OMISSIS come rimborsi elettorali, tali somme potrebbero essere al più qualificate come compensi di fatto percepiti dall’imputato per il suo operato con la conseguenza che, in ogni caso, l’eventuale accertamento circa tale diversa provenienza del denaro non avrebbe fatto venir meno la configurabilità del reato di dichiarazione infedele, consistente, nel caso per cui si procede, nell’omessa dichiarazione di elementi attivi di reddito conseguiti nel corso dell’anno 2011. Nè tantomeno tale eventuale diversa qualificazione - come ben evidenziato nell’impugnata pronuncia - viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, che va valutato in relazione all’identità del fatto contestato e sempre nell’ottica di garantire l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, comunque pienamente assicurato nel caso di specie. Deve rilevarsi, del resto, che il ricorrente, a fronte del coerente e logico percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado, si limita a formulare censure meramente ipotetiche, senza mai indicare il presunto titolo che legittimerebbe il percepimento delle somme o, per converso, la circostanza del loro mancato percepimento. 1.3. Il terzo motivo, con il quale si lamentano l’erronea applicazione dell’aliquota massima nonché il mancato superamento della soglia di punibilità ex D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, è inammissibile, perché incentrato su elementi nuovi, non dedotti nel giudizio di appello. Infatti, il rilievo concernente la determinazione della percentuale di tassazione cui sottoporre il reddito percepito dall’imputato - su cui si basa la prospettazione di parte ricorrente - è stato proposto per la prima volta nel giudizio di legittimità. Le deduzioni difensive risultano, comunque, del tutto destituite di fondamento, dal momento che la somma oggetto di dichiarazione dei redditi dell’imputato per l’anno di imposta 2011 era pari ad Euro 175.884,00 e che per il reddito riconducibile all’ultimo scaglione, il cui ammontare sia quindi superiore ad Euro 75.000,00, trova comunque applicazionè un’aliquota IRPEF pari al 43%, con conseguente superamento della soglia di punibilità. 1.4. Il quarto motivo, con il quale si deducono l’inattendibilità dei documenti contabili nonché l’insufficiente valutazione delle relazioni peritali, è inammissibile in quanto genericamente riferito a profili fattuali. Il ricorrente, infatti, pur attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, mira ad ottenere una rivalutazione delle risultanze peritali che costituisce giudizio di fatto, incensurabile dinnanzi alla Corte di cassazione, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie. Ed invero, dall’accertamento da parte dei periti dell’esistenza in cassa di un saldo negativo di Euro 327.789, ritenendo non plausibile l’impiego di somme di denaro in eccedenza rispetto a quelle effettivamente disponibili, la Corte d’appello ha ragionevolmente desunto la totale inattendibilità delle annotazioni di cassa riguardanti la gestione contabile dei fondi della OMISSIS . Sulla base di tali considerazioni ha ritenuto di escludere dai redditi non dichiarati tutte le somme di denaro delle quali non è stato possibile accertare l’impiego a favore dell’imputato stesso o di terzi, così rideterminando, e riducendo proporzionalmente, l’ammontare dell’imposta evasa dall’imputato. E lo stesso ricorrente, nell’invocare l’omessa valutazione, da parte dei giudici di secondo grado, del contenuto delle relazioni tecniche, ammette e sostiene l’assoluta inattendibilità dei conti di cassa la quale, facendo emergere una discrasia tra il dichiarato e ciò che è stato realmente percepito e determinando, di conseguenza, un’obiettiva situazione di incertezza in ordine alle rappresentazione delle somme ivi contabilizzate, costituisce indizio rilevante del reato di dichiarazione infedele. 2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a .