Sulla legittimazione del PM ad impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione

Legittimato ad impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione è solo il pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento esecutivo. Dunque, deve escludersi che possa proporre ricorso in Cassazione, avverso un provvedimento emesso da un giudice dell’esecuzione di una determinata sede giudiziaria, il procuratore della Repubblica di una diversa sede giudiziaria, cioè un soggetto che non avrebbe potuto essere parte nel procedimento di esecuzione.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione con sentenza n. 15853/20, depositata il 26 maggio. In un contenzioso innanzi al Tribunale di Lucca nel quale veniva chiesta l’applicazione della disciplina della continuazione nei confronti dell’imputato, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro proponeva ricorso in Cassazione. La Cassazione, ritenendo il ricorso inammissibile poiché proposto da un soggetto non legittimato, afferma che la legittimazione ad impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione non può essere riconosciuta agli uffici del pubblico ministero che abbiano sede in un diverso circondario, cioè ad uffici del pubblico ministero che, avuto riguardo alla geografia giudiziaria, non avrebbero potuto rivestire, comunque, la qualità di parte nel procedimento. Legittimato ad impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione è solo il pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento esecutivo deve escludersi, quindi, che possa proporre ricorso alla corte di cassazione, avverso un provvedimento emesso da un giudice dell’esecuzione di una determinata sede giudiziaria, il procuratore della Repubblica di una diversa sede giudiziaria, cioè un soggetto che non avrebbe potuto essere parte nel procedimento di esecuzione . Posto che nel caso in esame il ricorso è stato proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro che, tenendo conto delle norme sulla geografia giudiziaria , e in applicazione dei suddetti principi, non può rivestire la qualità di parte nei procedimenti svolti nel circondario del Tribunale di Lucca, perché tale circondario è diverso da quello in cui è la sede del ricorrente, il ricorso viene dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 25 febbraio – 26 maggio 2020, n. 15853 Presidente Tardio – Relatore Mancuso Ritenuto in fatto 1. Con atto rivolto al Tribunale di Lucca, in funzione di giudice dell’esecuzione, veniva richiesta, nell’interesse di C.M. , l’applicazione della disciplina della continuazione, ai sensi dell’art. 671 c.p.p., in ordine ai reati giudicati con le seguenti sentenze divenute irrevocabili a sentenza emessa dal Tribunale di Modena il 23 luglio 2010, confermata dalla Corte di appello di Bologna con sentenza emessa il 5 dicembre 2012 b sentenza emessa dal Tribunale di Lucca il 19 febbraio 2013, confermata dalla Corte di appello di Firenze con sentenza emessa il 27 marzo 2017. 2. Il giudice dell’esecuzione accoglieva l’istanza, con ordinanza del 17 luglio 2019, riconoscendo la continuazione e rideterminando la pena, per i suddetti reati, nella misura complessiva di anni 14 di reclusione ed Euro 65.000,00 di multa. 3. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro ha proposto ricorso per cassazione, con atto affidato a due motivi. 3.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 665 c.p.p., comma 4, che regola la competenza del giudice dell’esecuzione. Dall’esame del fascicolo del Tribunale di Lucca emerge che l’ultimo provvedimento passato in giudicato nei confronti di C.M. , rilevabile dal certificato del casellario giudiziale in atti, è la sentenza pronunciata dal Tribunale di Pesaro in composizione monocratica il 12 giugno 2018, divenuta irrevocabile in data 8 luglio 2018, contenuta, insieme alle due sentenze oggetto dell’istanza di riconoscimento della continuazione e ad altre sentenze, nel provvedimento di esecuzione di pene concorrenti emesso il 6 settembre 2018 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro. In precedenza, il Tribunale di Pesaro, in qualità di giudice dell’esecuzione, competente a decidere ai sensi dell’art. 665 c.p.p., comma 4, aveva rigettato, con ordinanza emessa il 29 aprile 2019, l’istanza depositata nell’interesse di C.M. il 28 dicembre 2018, tendente ad ottenere il riconoscimento della continuazione fra i reati giudicati con la sentenza pronunciata il 23 luglio 2010 dal Tribunale di Modena in composizione collegiale, confermata dalla Corte di appello di Bologna con sentenza del 3 giugno 2011, divenuta irrevocabile il 5 dicembre 2012, e la sentenza pronunciata dal Tribunale di Lucca in composizione monocratica il 19 febbraio 2013, confermata dalla Corte di appello di Firenze con sentenza del 27 marzo 2017, divenuta irrevocabile il 17 aprile 2018. L’errata valutazione circa la competenza, commessa dal Tribunale di Lucca, ha comportato che su due istanze di riconoscimento del vincolo della continuazione sono intervenuti due provvedimenti difformi. 3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 81 c.p. e art. 671 c.p.p., che regolano l’istituto della continuazione. Il Tribunale di Lucca, con l’ordinanza del 17 luglio 2019, nel riconoscere la continuazione, ha affermato che i reati oggetto delle sentenze cui l’istanza è riferita, sono stati commessi, senza soluzione di continuità, in un lasso di tempo ravvicinato, che va dal giugno 2007 al gennaio 2008. Nell’ordinanza del Tribunale di Pesaro emessa il 29 aprile 2019, invece, era stato correttamente affermato che stante la duplice differenziabilità delle condotte, sotto il profilo temporale e della localizzazione geografica, ed in assenza di elementi diversi rispetto alla possibile valorizzazione della medesima indole delle violazioni, gli episodi in questione sono da considerarsi frutto di autonome deliberazioni delittuose, quali espressioni della evidente capacità a delinquere del condannato . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile perché proposto da soggetto non legittimato. 2. La trattazione del caso rende opportuno il richiamo di alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità sulla legittimazione di specifici uffici del pubblico ministero a proporre impugnazione. 2.1. È stato affermato, con riferimento alla individuazione - fra il procuratore generale della Repubblica e il procuratore della Repubblica - dell’ufficio del pubblico ministero munito della legittimazione all’impugnazione, che la legittimazione a impugnare i provvedimenti adottati dal giudice dell’esecuzione spetta, in via esclusiva, per espressa designazione del legislatore, al pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento esecutivo Sez. 1, n. 6324 del 11/01/2013, De Giglio, Rv. 254224 , non potendosi riconoscere al procuratore generale presso la corte di appello un potere di surroga assimilabile a quello attribuitogli dall’art. 570 c.p.p., nel giudizio di cognizione Sez. 1, n. 38846 del 27/10/2006, Raffaelli, Rv. 235981 . È stato anche chiarito che il procuratore generale presso la corte di appello non è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso provvedimenti emessi in sede di esecuzione, in quanto nel concetto di parte usato nell’art. 570 c.p.p., comma 1, non può comprendersi la procura generale rimasta estranea al procedimento di esecuzione, riferendosi l’espressione usata ai concreti protagonisti della dialettica processuale del procedimento specifico, e non ad altri soggetti rimasti estranei a quella fase processuale Sez. 1, n. 943 del 02/02/1999, Moro, Rv. 212743 . 2.2. In linea con i predetti principi, deve affermarsi a fortiori, per identità di ratio, che la legittimazione ad impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione non può essere riconosciuta agli uffici del pubblico ministero che abbiano sede in un diverso circondario, cioè ad uffici del pubblico ministero che, avuto riguardo alla geografia giudiziaria, non avrebbero potuto rivestire, comunque, la qualità di parte nel procedimento. Legittimato ad impugnare i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione è solo il pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento esecutivo deve escludersi, quindi, che possa proporre ricorso alla corte di cassazione, avverso un provvedimento emesso da un giudice dell’esecuzione di una determinata sede giudiziaria, il procuratore della Repubblica di una diversa sede giudiziaria, cioè un soggetto che non avrebbe potuto essere parte nel procedimento di esecuzione. 3. Nel caso in esame, il ricorso è stato proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro che, tenendo conto delle norme sulla geografia giudiziaria, e in applicazione dei suddetti principi, non può rivestire la qualità di parte nei procedimenti svolti nel circondario del Tribunale di Lucca, perché tale circondario è diverso da quello in cui è la sede del ricorrente. Oltretutto, perfino il distretto nel cui territorio è compresa la sede del ricorrente - quello della Corte di appello di Ancona - è diverso dal distretto nel cui territorio è compresa la sede del Tribunale di Lucca, che ricade nell’ambito del distretto di Corte di appello di Firenze. 4. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in applicazione dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. a . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.