In caso di reati tributari sono sequestrabili le somme costituenti attivo fallimentare?

La misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge e ciò a maggior ragione nell’ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari.

La Cassazione con la pronuncia in commento sentenza n. 15776/20, depositata il 25 maggio chiarisce i rapporti tra la procedura fallimentare e la misura ablatoria del sequestro adottata in conseguenza di reati tributari commessi dall’imprenditore, poi dichiarato fallito. Alle origini interessi in conflitto. La sentenza in commento trae origine dal ricorso proposto da un curatore fallimentare che si era visto sequestrare, sui conti correnti intestati alla procedura concorsuale, una somma di denaro assai significativa in conseguenza di indebite compensazione ex art. 10- quater d.lgs. n. 74/2000, commesse dal fallito ben prima della dichiarazione di fallimento. Avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP ed eseguito in danno della curatela aveva proposto impugnazione il curatore della procedura, che di fronte alla risposta negativa del tribunale del riesame non aveva esitato a proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento reiettivo. Con diversi e articolati motivi, deduceva il curatore come il denaro nella disponibilità della procedura non potesse più considerarsi in alcun modo pericoloso , siccome destinato inevitabilmente al solo soddisfacimento dei creditori nel rispetto della procedura concorsuale, attraverso l’operato del curatore, sotto la vigilanza e controllo del Giudice delegato. Inoltre, il provvedimento ablatorio incideva pesantemente sui diritti di credito dei terzi creditori della procedura e finanche sui professionisti che avevano lavorato per la procedura e che vedevano le proprie competenze, pur spettanti loro in sede di prededuzioni, irrimediabilmente compromesse dal sequestro e dal successivo provvedimento di confisca. L’interesse del Fisco , che aveva mosso il provvedimento di sequestro preventivo, peraltro, osservava il ricorrente, era invero già e a monte tutelato dalla domanda di ammissione al passivo che il Fisco stesso aveva ritualmente avanzato nei confronti della procedura concorsuale. Né, invero, la natura sanzionatoria della confisca, proseguiva la difesa del curatore, poteva incidere su beni dei quali la disponibilità ora apparteneva alla curatela e non più a chi aveva commesso il reato, né alla società nell’interesse della quale era stato commesso. Il contrasto giurisprudenziale. La presenza di stringenti e contrapposti interessi è, come osserva la stessa Cassazione, plasticamente comprovata da accesi e tuttora attuali contrasti giurisprudenziali. Sul punto, un risalente orientamento giurisprudenziale era giunto a negare in radice al curatore fallimentare la legittimazione attiva ad impugnare provvedimenti di sequestro di natura penale, atteso che la procedura concorsuale non è terzo proprietario dei beni colpiti dal provvedimento ablatorio, ma terzo che ha la semplice disponibilità di detti beni. Detto orientamento è stato definitivamente superato sulla base del rilievo che non può revocarsi in dubbio come la procedura sia soggetto terzo avente diritto alla eventuale restituzione dei beni sottoposti a sequestro e che, dunque, alla stessa vada riconosciuta la legittimazione attiva , anche qualora detti beni fossero stati sottoposti a sequestro prima della sentenza dichiarativa di fallimento. Ben più radicato ed invero ancora irrisolto il contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione centrale posta dal ricorrente. Secondo un primo orientamento, richiamato proprio in sede di ricorso, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca previsto dall’art. 12- bis d.lgs. n. 74/2000 non potrebbe essere adottato su beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il potere di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento. Di fatto, la società fallita è spossessata dei beni, che rimangono nella disponibilità del curatore e del giudice delegato al fine di soddisfare, nel rispetto della par condicio, le pretese creditorie. Secondo altro e invero più corposo orientamento, per contro, il sequestro del profitto dei reati tributari, sia esso diretto o per equivalente, prevale sui diritti di credito vantati sui medesimi beni per effetto della ammissione alla procedura concorsuale, attesa l’obbligatorietà della misura ablativa alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro preventivo. Prevale, infatti, sull’interesse dei creditori l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione al patrimonio dello Stato. Osservano gli Ermellini, nella pronuncia in commento, come ad una più attenta analisi, invero, il contrasto interpretativo riguardi la sola ipotesi in cui, come nel caso di specie, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del provvedimento di sequestro . La soluzione proposta. Precisa la Cassazione come il criterio della priorità temporale non pare possa assurgere a canone interpretativo dirimente, dovendosi per contro aver riferimento al diverso ambito operativo della procedura concorsuale rispetto alla misura cautelare adottata. Se la prima, infatti, è destinata a soddisfare i creditori dell’impresa, la seconda è volta a sottrarre alla disponibilità dell’indagato i proventi di un determinato reato. In tale contesto, ferma la riconosciuta legittimazione del curatore ad impugnare i provvedimenti di sequestro, pare evidente che la misura ablatoria reale , per il suo carattere obbligatorio, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene. Ciò a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, stante la finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente codificata in tema di reati tributari. Il giusto correttivo. Osserva la Cassazione come la soluzione sopra tratteggiata sia imposta dalla stessa disciplina normativa, che prevede come unico limite alla confisca diretta o per equivalente ex art. 12- bis d.lgs. n. 74/2000 solo l’ appartenenza del bene a persone estranee al reato . Proprio in virtù di detto limite, il giudice penale, in sede di merito, dovrà valutare l’esistenza di diritti di terzi in buona fede sui beni oggetto del provvedimento ablativo. Il giudice dovrà, dunque, attentamente perimetrare l’area del profitto confiscabile , valutando, in tema di reati tributari, se l’Erario abbia già proceduto al recupero delle somme non versate, anche in maniera parziale. Così come non potrà prescindersi dal verificare gli effetti di una eventuale ammissione al passivo dello stesso Erario, onde evitare una indebita duplicazione e, dunque, una indebita locupletazione del Fisco in danno degli altri creditori. Ed invero è proprio sullo specifico e da ultimo individuato correttivo che la pronuncia del tribunale del riesame, siccome carente, trova censura, da parte degli Ermellini, che procedono sul punto ad annullare con rinvio perché si proceda a nuovo giudizio su tale aspetto.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 gennaio – 25 maggio 2020, n. 15776 Presidente Sarno – Relatore Zunica Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 19 settembre 2019, il Tribunale del Riesame di Caltanissetta confermava l’ordinanza del 13 agosto 2019, con cui il G.I.P. presso il Tribunale di Gela aveva rigettato la richiesta avanzata da S.L.G. , quale curatore fallimentare della società [ ] s.r.l., volta a ottenere la revoca del sequestro preventivo, disposto con decreto del 19 marzo 2019 dal G.I.P. presso il Tribunale di Gela a sua volta confermato con ordinanza dell’11 luglio 2019 dal Tribunale del Riesame di Caltanissetta , della somma di 3.253.566,22 Euro nei confronti della [ ] s.r.l. la predetta misura era stata adottata in relazione al capo di imputazione provvisorio n. 17, avente ad oggetto il reato di cui all’art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater, comma 2, contestato tra agli altri a T.G.E.M. , all’epoca legale rappresentate della predetta società, accusato, in concorso con altri 4 indagati, di avere effettuato nell’anno 2015 indebite compensazioni utilizzando crediti inesistenti, per un importo pari a 3.253.566,22 Euro, in modo da permettere alla [ ] s.r.l. di ottenere sgravi sulle cartelle esattoriali fatto accertato in omissis . 2. Avverso l’ordinanza del Tribunale nisseno, la Fallimento [ ] s.r.l., in persona del curatore fallimentare, tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi. Con il primo, la difesa richiede la riunione o comunque la trattazione parallela del presente ricorso con quello che ha dato luogo al fascicolo N.R.G. 34658/2019, pendente presso questa Sezione penale di questa Corte, attesa la connessione oggettiva e soggettiva tra i due ricorsi. Con il secondo motivo, la difesa lamenta la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, rilevando che, a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale, le somme di denaro in possesso della procedura fallimentare, soprattutto quando siano depositate in Banca, come avvenuto nel caso di specie, non possono essere qualificate come beni intrinsecamente e oggettivamente pericolosi , anche perché ragionevolmente destinate in larga parte al Fisco il denaro, infatti, diventa pericoloso laddove sia nella disponibilità dell’autore dell’illecito che ha portato alla sua accumulazione, con le conseguenti possibili distorsioni del suo utilizzo. Viceversa, il curatore fallimentare è organo gestore di una procedura regolata dalla legge e, quale ausiliario dello Stato, opera sotto la vigilanza del giudice delegato, potendo destinare il denaro della procedura o a spese autorizzate previste dalla legge o al pagamento dei creditori ammessi, sotto il controllo giudiziario. Peraltro, l’esame dei titoli di credito fiscale emessi contro la [ ] s.r.l. rendeva evidente che la situazione debitoria preesisteva all’indebita compensazione, per cui doveva ritenersi che il reato costituente il presupposto del sequestro non aveva comportato arricchimento della società, non potendosi ritenere quindi consentito stravolgere l’ordine dei privilegi stabilito dall’art. 2745 ss. e art. 2777 c.c In caso di fallimento, infatti, il debito preesistente rimane ex lege soggetto all’ordine dei privilegi, cui la normativa penale e processuale non può derogare. Secondo la prospettiva difensiva, dunque, la misura disposta successivamente all’apertura della procedura fallimentare non poteva colpire il conto corrente della stessa, sul quale sono in deposito somme in sé non pericolose, che nulla hanno a che fare con l’illecito, ravvisandosi diversamente un’evidente violazione di legge, che porrebbe financo problemi di compatibilità costituzionale con l’art. 3 Cost Se infatti la funzione della confisca fosse quella di impedire la restituzione al reo dei benefici conseguenti all’attività illecita, tale funzione non potrebbe riverberarsi certo sui creditori in buona fede, mentre, se la funzione della confisca mascherasse una sanzione, tale credito dovrebbe seguire l’ordine legale dei privilegi. Con il terzo motivo, la difesa censura l’erronea qualificazione giuridica del fatto contestato, evidenziando che dall’ordinanza impugnata non era dato comprendere quale fosse il profitto connesso al reato, atteso che la compensazione di cui si discute ha semplicemente tentato di sterilizzare debiti fiscali della [ ] s.r.l. ben noti all’Erario, perché risalenti addirittura al 2008 e comunque tale compensazione, dopo l’iniziale approvazione, è stata prontamente bloccata con pieno riconoscimento dell’efficacia e della esigibilità del pregresso debito fiscale, prontamente insinuato al passivo fallimentare il fatto pertanto doveva essere al più considerato come un’ipotesi di tentata truffa ai danni dello Stato, posto che la [ ] s.r.l. non ha evitato in alcun modo anticipi di pagamento, ma si è fraudolentemente procacciata da terzi un credito inesistente, cercando poi di ottenere la compensazione con propri, certi, liquidi ed esigibili crediti preesistenti, con una condotta caratterizzata da un raggiro compiuto tramite un artificio. Con il quarto motivo, infine, viene contestata l’erronea applicazione dell’art. 240 c.p., osservandosi che, nella vicenda in esame, il provvedimento impugnato ha colpito non il patrimonio dell’indagato, ma quello di un soggetto terzo, quale la procedura fallimentare, ente totalmente diverso dalla società. La procedura, peraltro, non ha tratto alcun beneficio dal reato, nè alcun profitto è rinvenibile nel suo patrimonio, per cui il sequestro non poteva ritenersi legittimo, avendo riguardato somme prive di alcun collegamento con l’illecito penale. Si osserva poi che la procedura fallimentare era stata autorizzata a farsi assistere da professionisti in varie procedure civili e penali, in cui sono state svolte numerose prestazioni professionali che hanno fatto maturare crediti prededucibili, non ancora liquidati dal giudice delegato, per cui si era giunti all’ulteriore paradosso che il sequestro ha privato anche tali professionisti dei loro legittimi compensi. Considerato in diritto Sono fondati il secondo e il quarto motivo di ricorso, nei soli limiti di seguito esposti. 1. In via preliminare, deve rilevarsi che la richiesta difensiva di riunione del presente giudizio a quello avente il numero 34658/2019 N. R.G. è stata disattesa dalla Corte, posto che, come correttamente rilevato dal Procuratore generale, i ricorsi, per quanto concernenti questioni giuridiche sovrapponibili, hanno avuto tuttavia ad oggetto provvedimenti tra loro differenti, emessi in fasi diverse. 2. Tanto premesso, prima di esaminare i restanti motivi di ricorso, deve ribadirsi la legittimazione del curatore fallimentare a proporre l’odierna impugnazione, dovendosi richiamare in tema la recente affermazione delle Sezioni Unite di questa Corte sentenza n. 45936 del 26/09/2019, Rv. 277257, ricorrente curat. fall. di omissis s.r.l. in liquidazione che, superando un precedente orientamento delle Sezioni Unite sentenza n. 11170 del 25/09/2014, dep. 2015, Rv. 263681, ricorrente Uniland s.p.a. , hanno stabilito il principio secondo cui il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e a impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale. È stato in tal senso precisato che la legittimazione del curatore, discendente dalla titolarità del diritto alla restituzione dei beni sequestrati, deve essere riconosciuta non solo, come nel caso di specie, in relazione ai beni caduti in sequestro dopo la dichiarazione di fallimento, ma anche per quelli sequestrati prima di tale momento, giacché anch’essi facenti parte della massa attiva che entra nella disponibilità della curatela, con contestuale spossessamento del fallito, ai sensi dell’art. 42 L. Fall 3. Passando ai restanti motivi di ricorso, suscettibili di essere esaminati in maniera unitaria, perché tra loro sostanzialmente sovrapponibili, appare utile premettere innanzitutto che, con il decreto del 19 marzo 2019, il G.I.P. ha disposto il sequestro preventivo sino alla concorrenza della somma di Euro 3.253.566,22 nei confronti dell’impresa che, secondo la prospettazione accusatoria, aveva beneficiato del risparmio di imposta scaturito dall’indebita compensazione contestata al suo legale rappresentante, e, solo in caso di incapienza e per la parte mancante, nei confronti delle persone fisiche indagate rispetto al capo 17. Ora, rispetto alla qualificazione giuridica della condotta, deve osservarsi che il tema era stato già affrontato dal Tribunale nell’ordinanza confermativa del decreto impositivo della misura, laddove, in modo non irragionevole, è stata rimarcata sia l’inesistenza del credito dedotto in compensazione circostanza questo invero non contestata , sia l’idoneità delle operazioni svolte a consentire alla società di sottrarsi alla pretesa tributaria per importi considerevoli, a nulla rilevando la circostanza che l’Erario si sia poi insinuato nel passivo fallimentare. In ogni caso, non può sottacersi che la censura difensiva, sollevata peraltro in sede di appello cautelare, involge al più profili di presunta illogicità della motivazione che non sono deducibili in questa sede, dovendosi in tal senso richiamare la costante affermazione di questa Corte cfr. Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656 , secondo cui il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio, ai sensi dell’art. 325 c.p.p., è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo , sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice, mentre non può invece essere appunto dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di cui alla lett. E dell’art. 606 c.p.p. in tal senso cfr. Sez. Un., n. 5876 del 28/01/2004, Rv. 226710 . Rispetto alla qualificazione giuridica del fatto, non è configurabile nel caso di specie nè una violazione di legge, nè un’apparenza di motivazione, avendo il Tribunale del Riesame illustrato adeguatamente le ragioni poste a fondamento della propria decisione, operando una valutazione critica delle risultanze investigative. 4. Ciò posto, deve rilevarsi che il Tribunale del Riesame ha ribadito che nel caso di specie si verte in una ipotesi di sequestro diretto del profitto del reato nei confronti della società, tale dovendosi qualificare il risparmio di imposta conseguito dalla società [ ] a seguito delle indebite compensazioni, ciò in coerenza con l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte cfr. Sez. Un. 31617 del 26/06/2015, ricorrente Lucci, Rv. 264436 , secondo cui, qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta. Tenuto conto della particolare natura del bene, quindi, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato, rilevando solo che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, ciò legittimando la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo. Ora, il dato fattuale, invero pacifico, da cui traggono spunto le doglianze difensive, è che il sequestro è intervenuto nel marzo 2019, ovvero in epoca successiva al 31 luglio 2017, data in cui è stato dichiarato il fallimento della [ ] s.r.l Da ciò, rileva la difesa, deriverebbe l’illegittimità del vincolo cautelare, ritenendosi la peculiare natura dell’attivo fallimentare di ostacolo all’applicabilità del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, che imporrebbe di considerare la disponibilità dei beni appresi dalla procedura fallimentare come assorbente, trattandosi di un soggetto terzo, rispetto alla titolarità formale del diritto di proprietà in capo all’indagato, che tuttavia è stato privato del potere di fatto sui medesimi beni. La tesi difensiva è invero corroborata dal richiamo all’orientamento di questa Corte invero non isolato ed espresso chiaramente con la sentenza Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Rv. 273951 , secondo cui, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, non può essere appunto adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento. Del resto, si è osservato, il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito della apertura della procedura concorsuale, oltre a spossessare la società fallita dai beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, conferisce al curatore, che insieme al Tribunale e al giudice delegato ne è l’organo, il potere di gestione di tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento e garantire la par condicio dei creditori, i quali, in virtù dell’ammissione al passivo, sono portatori di diritti alla conservazione dell’attivo, nella prospettiva della migliore soddisfazione dei loro crediti, che trovano così riconoscimento e tutela, pur convivendo fino alla vendita fallimentare con quelli di proprietà del fallito e con il vincolo concorsuale. A tali obiezioni il Tribunale del Riesame ha replicato manifestando invece adesione alla differente impostazione ermeneutica espressa in sede di legittimità da Sez. 3 n. 23907 dell’01/03/2016, Rv. 266940, da Sez. 3, n. 28077 dell’09/02/2017, Rv. 270333 e, almeno in parte, da Sez. Un., n. 29951 del 24/07/2004, Rv. 228165, ricorrente cur. fall. in proced. a carico di Focarelli , in forza della quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, comma 1, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della ammissione al concordato preventivo, attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, per cui il rapporto tra il vincolo imposto dall’apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull’interesse dei creditori l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato. Le finalità del fallimento non sono dunque in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro, tanto più che i diritti di credito dei terzi non appaiono ricompresi nell’ambito ristretto indicato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, comma 1 e prima ancora dall’art. 322 ter c.p. , essendo rappresentato l’unico limite alla confiscabilità dalla appartenenza del bene a persona estranea al reato. 5. Così sintetizzati i due orientamenti che si sono formati sul tema dei rapporti procedura concorsuale e sequestro penale, occorre rilevare che in realtà gli stessi convergono nel ritenere prevalente il sequestro, laddove quest’ultimo sia intervenuto precedentemente alla dichiarazione di fallimento della società, per cui il dissenso interpretativo investe essenzialmente il caso in cui, come nella vicenda in esame, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro. Ritiene tuttavia il Collegio che la sequenza temporale tra i due vincoli in realtà non sia un aspetto di per sé dirimente, e ciò proprio in considerazione del differente ambito operativo tra la procedura concorsuale e la misura cautelare reale. Mentre infatti la prima è finalizzata a consentire la soddisfazione dei creditori dell’impresa che versi in stato di insolvenza, la seconda è volta a sottrarre alla disponibilità dell’indagato i proventi di un determinato reato, per cui il problema, in caso di sovrapposizione dei due vincoli, non è tanto quello di stabilire quale sia di esso sia stato apposto per primo, ma piuttosto quello di valutare a quale delle diverse esigenze di tutela occorre assicurare preminenza e in che termini. Il terna, sia pure nella prospettiva dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente operato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, è stato diffusamente esplorato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 11170 del 25/09/2014, dep. 2015, Rv. 263681, ricorrente Uniland s.p.a., che, nell’escludere la legittimazione del curatore fallimentare a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro, aveva affermato che deve essere il giudice penale, nel disporre il sequestro o la confisca, a dover valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede e, in caso di esito positivo di tale verifica, il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non sarà sottoposto nè a sequestro nè a confisca. Dunque, spetta al giudice penale della cognizione la valutazione sulla titolarità o meno del diritto del terzo, oltre che in ordine alle modalità della acquisizione del diritto, essendo fatti salvi esclusivamente i diritti acquisiti in buona fede. Peraltro, la legittimazione del curatore fallimentare a impugnare il provvedimento impositivo della cautela reale era stata esclusa anche in base all’assunto secondo cui la dichiarazione di fallimento non trasferisce alla curatela la proprietà dei beni del fallito, ma solo l’amministrazione e la disponibilità degli stessi, per cui nessun diritto reale su tali beni poteva essere riconosciuto al curatore, che ha unicamente compiti gestionali, mirati al soddisfacimento dei creditori, non esercitando il curatore neppure diritti in rappresentanza dei creditori stessi, i quali, fino alla conclusione della procedura concorsuale, vantano una mera pretesa sui beni del fallito e non hanno quindi alcun titolo per la restituzione degli stessi. Tale impostazione, come detto, è stata superata di recente da un altro intervento delle Sezioni Unite sentenza n. 45936 del 26/09/2019, Rv. 277257 , con cui si è osservato che la legittimazione del curatore a impugnare scaturisce dalla possibilità di riconoscere in capo allo stesso, rispetto alla totalità dei beni facenti parte dell’attivo fallimentare, senza limitazioni temporali, la veste di persona avente diritto alla restituzione dei beni , nella sua funzione di conservazione e reintegrazione della massa attiva del fallimento ai fini del soddisfacimento delle ragioni dei creditori, a cui la procedura fallimentare è istituzionalmente destinata. Ora, il riconoscimento in capo al curatore della legittimazione all’impugnazione dei provvedimenti impositivi di cautele reali non vale tuttavia ad alterare l’assetto dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro penale, dovendosi cioè ribadire che la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell’ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato. 6. Unico limite all’operatività della confisca diretta o per equivalente, per come desumile dal tenore letterale del del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, è dunque soltanto l’eventuale appartenenza del bene a persona estranea al reato. Ciò comporta, in sede di merito, la necessità di un’attenta verifica da parte del giudice penale, volta, nel solco interpretativo tracciato dalla sentenza Uniland , in ciò non superata dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite n. 45936 del 2019, ad accertare l’eventuale titolarità o meno di diritti di terzi, e, in caso positivo, le modalità della acquisizione del diritto, ciò al fine di valutarne la buona fede. In quest’ottica, il giudice penale, in sede di merito, dovrà escludere dalla sottoposizione a sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede. L’esigenza di tale verifica assume una particolare pregnanza proprio nell’ambito delle procedure concorsuali, dovendosi cioè in questo ambito scrutinare con particolare rigore, soprattutto in presenza di un attivo fallimentare, l’esistenza della somma oggetto della cautelare reale e la possibile coesistenza, ove dedotta dal curatore, di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro. Se è vero infatti che il sequestro penale è destinato a prevalere sugli interessi dei creditori all’integrale salvaguardia dell’attivo fallimentare, è tuttavia altrettanto innegabile che, sul piano pratico, è indispensabile circoscrivere compiutamente l’entità del profitto confiscabile, consentendo di soddisfare le preminenti ragioni di tutela penale, senza però arrecare pregiudizio alle concorrenti pretese creditorie, e tanto soprattutto laddove l’attivo fallimentare sia costituito da somme di denaro. In tema di reati tributari, poi, resta ferma l’esigenza di valutare anche se l’Erario abbia già proceduto al recupero delle somme non versate dal contribuente, ciò al fine di evitare un’indebita locupletazione da parte del Fisco, tenuto conto che, ai sensi del citato art. 12 bis, comma 2, la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro. 7. Orbene, tale verifica, implicante evidentemente valutazioni di merito, non può ritenersi adeguatamente compiuta nel caso di specie. Ed invero nell’ordinanza impugnata non risulta specificato se il sequestro abbia avuto esecuzione e, in caso affermativo, in che misura rispetto all’attivo fallimentare, non essendo chiaro poi se l’Erario o insinuandosi al passivo o comunque in altra sede abbia già provveduto a recuperare o meno le somme indebitamente non versate dalla [ ] s.r.l., anche se in maniera parziale. In definitiva, per quanto debba ritenersi corretta la valutazione del Tribunale circa i rapporti tra sequestro penale e procedura concorsuale, tuttavia risulta carente nel caso di specie l’accertamento circa taluni essenziali aspetti operativi, come la consistenza dell’attivo fallimentare, l’esecuzione o meno della misura e l’eventuale e preventivo soddisfacimento del credito erariale rispetto all’importo suscettibile di confisca, non risultando altresì specificato se e in che termini siano state dedotte dal curatore eventuali pretese creditorie da parte di soggetti in buona fede. Tale lacuna motivazionale impone pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del Riesame di Caltanissetta per nuovo esame, da compiere alla stregua delle coordinate interpretative in precedenza richiamate. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Caltanissetta. Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a .