Necessaria la traduzione degli atti destinati all’imputato e notificati al difensore d’ufficio

Nell’ipotesi in cui l’imputato alloglotta abbia eletto domicilio presso il difensore d’ufficio, vi è l’obbligo di traduzione degli atti a lui diretti, poiché non spetta al difensore procedere alla loro traduzione.

Sul tema torna ad esprimersi la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12611/20, depositata il 21 aprile. Il fatto. Il ricorrente, imputato per il resto di detenzione a fine di spaccio di stupefacente, denuncia violazione di legge per mancata rimessione in termini, ai fini della richiesta di riti alternativi, giustificata dall’essere venuto a conoscenza del processo, senza sua colpa, solo in occasione della ricezione della notifica dell’ordinanza custodiale. Infatti, fino a quel momento il processo si era svolto mediante notifiche al difensore d’ufficio, nominato domiciliatario. Si trattava però della notifica di atti non tradotti nella lingua dell’imputato. Traduzione degli atti. Nel caso in cui l’imputato alloglotta abbia eletto domicilio presso il difensore d’ufficio, vi è l’obbligo di traduzione degli atti a lui diretti, poiché non spetta al difensore procedere alla loro traduzione, affinché il destinatario venga all’effettiva conoscenza degli stessi. Inoltre, la notifica degli atti privi di traduzione, effettuata al difensore d’ufficio domiciliatario, in difetto di qualsiasi assenso di questi alla domiciliazione e della dimostrazione di un effettivo rapporto professionale instauratosi tra lui e l’imputato, non rassicuri dell’effettiva conoscenza del processo da parte di quest’ultimo, né tale mancata conoscenza può essere addebitata a sua colpa. Pertanto, sulla base di tali ragioni, appare erronea la sentenza impugnata, la quale non ha tenuto conto di quanto dichiarato dall’imputato sulla sua effettiva mancata conoscenza della lingua italiana e dunque va annullata.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 5 marzo – 21 aprile 2020, n. 12611 Presidente Criscuolo – Relatore Rosati Ritenuto in fatto 1. E.O.S.E. , attraverso il suo difensore, impugna la sentenza della Corte di appello di Milano del 3 giugno 2019, che ne ha confermato la condanna per il delitto detenzione a fine di spaccio, in concorso con altri, di circa 4,8 chilogrammi di cocaina. 2. Tre sono le ragioni di doglianza. 2.1. Violazione di legge processuale, per mancata rimessione in termini, ai fini della richiesta di riti alternativi, giustificata dall’essere l’imputato venuto a conoscenza del processo, senza sua colpa, soltanto in occasione della ricezione della notifica della relativa ordinanza custodiale, avvenuta il 2 aprile 2019, e quindi in data successiva alla sentenza di primo grado. Il processo - si adduce - si era fino ad allora svolto mediante notifiche effettuate presso il difensore d’ufficio, nominato ed indicato quale domiciliatario nel verbale di notifica dell’informazione di garanzia e dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, avvenuta l’11 gennaio 2017 atti, tutti questi, però non tradotti in lingua comprensibile all’indagato, che non conosceva quella italiana, e perciò insuscettibili di produrre l’effetto della conoscenza del processo, quanto meno legale, da parte di costui. A riprova di detta mancanza di cognizioni linguistiche, la difesa ricorrente allega la documentazione, anch’essa risalente al 2017, relativa alla disposta espulsione dell’imputato dal territorio dello Stato per altra causa, debitamente tradotta in lingua araba. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l’illogicità della motivazione con la quale la Corte distrettuale ha respinto l’anzidetta istanza di rimessione in termini. Quei giudici hanno posto in risalto come, dal verbale di notifica dell’11 gennaio 2017, non risulti che l’imputato avesse rappresentato, nell’occasione, la mancata comprensione della lingua italiana inoltre, hanno desunto la verosimile conoscenza del processo da parte di costui, dal fatto che egli, pochi mesi prima, alla vista dei poliziotti, si fosse dato alla fuga. Obietta, tuttavia, la difesa per un verso, che la mancata professione d’ignoranza della lingua non è sufficiente per desumerne la conoscenza, non sussistendo un onere di rappresentazione in tal senso da parte dell’interessato, ma gravando sul giudice l’obbligo di accertarsi di tale conoscenza, a norma dell’art. 143 c.p.p., comma 4 e, per l’altro, che l’episodio della fuga non è univocamente sintomatico della consapevolezza dell’esistenza di un procedimento giudiziario in atto a proprio carico. 2.3. Con il terzo motivo, infine, il ricorso denuncia la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, per avere la sentenza impugnata mantenuto ferma la pena, pur a seguito della riduzione del minimo edittale, intervenuta, nella more del giudizio, per effetto della sentenza n. 40 del 2019 della Corte costituzionale, in tal modo violando il principio di proporzione tra sanzione e condotta richiamato da tale pronuncia. 3. Con motivi aggiunti e due memorie, i difensori hanno ribadito le anzidette doglianze. Considerato in diritto 1. I motivi di ricorso sono fondati. 2. Nel caso in cui l’imputato alloglotta abbia eletto domicilio presso il difensore di ufficio, sussiste l’obbligo di traduzione degli atti a lui diretti, pena la nullità di cui all’art. 178 c.p.p., lett. c , poiché sul difensore grava soltanto l’obbligo di ricevere gli atti destinati al proprio assistito, ma non anche quello di procedere alla loro traduzione Sez. 5, n. 48916 del 28/09/2016, Rv. 268371 . 2.1. Detta ipotesi, infatti, è diversa da quella in cui le notifiche siano state effettuate al difensore a norma dell’art. 159 c.p.p., comma 2 o art. 296 c.p.p., per essersi l’imputato reso irreperibile o latitante, poiché questi, con tale suo contegno, ha mostrato di disinteressarsi al processo. Ma è diversa, pure, sebbene per un motivo del tutto differente, da quella in cui domiciliatario sia il difensore di fiducia dall’imputato. La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 136 del 16 aprile 2008, nel dichiarare infondata la questione di legittimità dell’art. 157 c.p.p., comma 8-bis, ha precisato che la nomina fiduciaria implica l’insorgere di un rapporto di continua e doverosa informazione da parte del difensore nei confronti del suo cliente, che riguarda, in primo luogo, la comunicazione degli atti e delle fasi del procedimento, allo scopo di approntare una piena ed efficace difesa . E, proprio sul presupposto di tale volontario rapporto fiduciario, la giurisprudenza di legittimità - salve isolate posizioni più rigorose, che non ammettono deroghe alla necessità della traduzione Sez. 1, n. 23347 del 23/03/2017, Ebrima, Rv. 270274 - è orientata nel senso di escludere l’obbligo di tradurre gli atti, laddove questi vengano ritualmente notificati all’imputato alloglotta presso il proprio difensore domiciliatario, soltanto quando si tratti di difensore di fiducia tra le altre Sez. 5, n. 57740 del 06/11/2017, Ramadan, Rv. 271860 Sez. 2, n. 31643 del 16/03/2017, Afadama, Rv. 270605 Sez. 1, n. 37955 del 18/07/2013, Wagne, Rv. 256767 . 2.2. Ma, al di là della ritualità o meno della notifica, e quindi delle questioni sulla conoscenza legale del processo, nello specifico si pone, a monte, un problema di conoscenza effettiva dello stesso da parte dell’imputato. Sotto questo profilo, l’introduzione, con la riforma del giugno 2017, dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, secondo cui l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non spiega gli effetti che la legge processuale vi ricollega, a meno che non sia assentita dal difensore medesimo, costituisce un chiaro segnale, inviato dal legislatore e volto ad emendare alcune prassi distorte di elezioni di domicilio sollecitate all’indagato o, comunque, non del tutto consapevoli da parte sua, funzionali ad aggirare le spesso defatiganti incombenze informative, anche per vicende oggettivamente bagatellari. Questa norma, dunque, onerando il difensore di ufficio dell’accettazione dell’elezione di domicilio dell’imputato presso di lui, in tal modo facendosi carico anzitutto, pur in assenza di un mandato fiduciario, degli obblighi informativi verso il proprio assistito, rappresenta un’ulteriore presa di distanza - dopo quella segnata nel 2014 dalla riforma del processo in absentia - da ipotesi di conoscenza soltanto formale e fittizia del processo da parte dell’imputato, secondo una direttrice che deve perciò guidare anche l’attività dell’interprete nella risoluzione dei casi non specificamente disciplinati dalla legge, qual è, appunto, quello in scrutinio. 2.3. Nello specifico, ritiene perciò il Collegio che la notifica degli atti d’impulso processuale privi di traduzione, effettuata al difensore d’ufficio domiciliatario, in difetto di qualsiasi assenso di questi alla domiciliazione non esistendo ancora, all’epoca, il citato art. 162 c.p.p., comma 4 bis e della dimostrazione di un effettivo rapporto professionale instauratosi tra lui e l’imputato, non rassicuri dell’effettiva conoscenza del processo da parte di quest’ultimo nè, in tali condizioni, l’eventuale sua ignoranza sul punto può reputarsi addebitabile a sua colpa vds., in termini, per un’ipotesi del tutto analoga a quella in rassegna, sebbene in tema di rescissione del giudicato, Sez. 2, n. 36166 del 03/05/2017, Othmani Rv. 270688 . Non sono concludenti, in senso contrario, gli elementi di fatto valorizzati dalla Corte distrettuale. Tanto dicasi, anzitutto, per la mancata indicazione, da parte del ricorrente, della non conoscenza della lingua italiana, in occasione della notifica dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. è agevole osservare, infatti, che la causa di detta mancanza di rappresentazione possa risiedere ragionevolmente proprio nell’assenza di comprensione del testo e, dunque, del significato e della funzione dell’atto ricevuto. Ed ancor meno significativa deve ritenersi la circostanza per cui, qualche mese prima, all’atto - parrebbe di capire - della commissione del reato, quegli sarebbe fuggito alla vista degli operatori di polizia, non potendosi da ciò inferire che, per l’effetto, egli avrebbe dovuto sapere che ne sarebbe sorto un processo a suo carico ipotesi, quest’ultima, soltanto eventuale e che, comunque, laddove si verifichi, presuppone una precisa imputazione ed una puntuale vocatio in iudicium. Ma, ancor prima, una fuga al cospetto di agenti polizia può essere determinata da una variegata molteplicità di ragioni, che non necessariamente comportano nemmeno la consapevolezza di essere oggetto di investigazioni e, men che mai, di doversi difendere in un processo e da uno specifico addebito. La motivazione resa dalla Corte di appello, dunque, non è conforme a logica. Per converso, dalla lettura della stessa sentenza impugnata, emergono altri elementi istruttori suscettibili di approfondimento, in prospettiva della verifica della conoscenza della lingua italiana da parte del ricorrente un suo foto-segnalamento in Italia già quattro anni prima le testimonianze del portiere e della padrona di casa, che ben potrebbero riferire in merito, poiché portatori di specifiche conoscenze, in ragione dei verosimili rapporti personali non occasionali con costui. Giova rammentare, a tal fine, che tale conoscenza non necessita di una prova formale, potendo essere desunta anche da fatti concludenti in questo senso, per tutte, Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239693 . 2.4. Per tutte le ragioni sin qui esposte, la sentenza impugnata dev’essere annullata sul punto, con rinvio alla Corte emittente, perché, alla luce dei principi enunciati, verifichi se l’imputato abbia avuto effettiva notizia o meno del processo a suo carico, in tempo utile per comparire in giudizio. 3. Analoga disposizione dev’essere adottata con riferimento all’altro punto della decisione attinto dal ricorso in esame, con il terzo motivo. Con sentenza n. 40 del 23 gennaio 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, nella parte in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei. A tale pronuncia, però, la Corte di appello non ha operato alcun cenno, nè, a maggior ragione, ha specificamente motivato sulla perdurante adeguatezza, pur dopo di essa, della pena inflitta dal primo giudice. Necessariamente, dunque, detta pena, ormai illegale, dev’essere rideterminata sulla base dei nuovi parametri edittali. Mancando in sentenza, sotto questo profilo, riferimenti che rendano possibile un’operazione di tipo sostanzialmente aritmetico, a tale nuova determinazione non può provvedere questa Corte, bensì deve attendervi il giudice di merito nella sua discrezionalità. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal Consigliere Dr. Rosati Martino, viene sottoscritto dal solo Presidente del Collegio, per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a .