‘Made in Italy’, etichetta smentita dalla documentazione commerciale doganale: imprenditore condannato

Fatale la contraddizione tra le etichette dei capi di abbigliamento e la loro provenienza, attestata in ambito doganale. Evidente, secondo i giudici, l’obiettivo di trarre in inganno i consumatori sull’effettiva origine della merce.

Capi d’abbigliamento fabbricati in Bulgaria, ma accompagnati da riferimenti all’origine italiana del tessuto, da etichette riconducibili a ditte italiane e dai colori del ‘tricolore’. Evidente l’obiettivo ingenerare nel consumatore la convinzione che il prodotto sia interamente ‘made in Italy’. Logica, quindi, la condanna per la titolare dell’azienda Cassazione, sentenza n. 10912/20, sez. III Penale, depositata il 1° aprile . Dogana. Riflettori puntati su un’azienda italiana che produce abbigliamento. A finire sotto accusa è il legale rappresentante della società. Decisiva la documentazione commerciale doganale” che attesta la provenienza dalla Bulgaria di centinaia di capi che, però, sono caratterizzati da etichette” mirate a convincere i consumatori che si tratti di prodotti interamente realizzati in Italia”. Per l’imprenditore arriva allora la condanna, prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello. Nessun dubbio per i giudici di merito sulla consapevolezza della condotta messa in atto dai vertici della società e sul chiaro obiettivo di riuscire a raggirare i consumatori. Made in Col ricorso in Cassazione però l’imprenditore prova a respingere ogni addebito, puntando sul fatto che per parlare di condotta punibile la norma esige che l’indicazione del tipo ‘full made in Italy’ o ‘100% made in Italy’ o altre espressioni similari abbiano ad oggetto merce non interamente disegnata, progettata, lavorata e confezionata nel nostro Paese, mentre non trova applicazione qualora la stampigliatura faccia riferimento al semplice ‘made in Italy’ . In aggiunta, poi, l’imprenditore osserva che in questo caso la tipologia di etichetta indicante un prodotto 100% italiano compariva solo in uno dei quattro stock di capi di abbigliamento elencati” e solo per questo poteva porsi un problema di fallace indicazione . A sostegno della correttezza della propria condotta, peraltro, il titolare dell’azienda precisa che i capi di abbigliamento erano stati solo confezionati in Bulgaria, circostanza inidonea a radicare l’origine territoriale ed evidenzia che comunque i capi d’abbigliamento recavano una doppia etichetta, una, sulla manica, relativa al tessuto italiano, e l’altra, all’interno, relativa alle ditte distributrici , mentre la collocazione del simbolo della bandiera italiana non poteva essere ritenuto un elemento sufficiente ad indurre in inganno il consumatore circa il Paese d’origine del prodotto, a fronte di un’etichetta esplicita, non oscurata da altri simboli che richiamavano l’originalità italiana . A sua ulteriore discolpa, infine, l’imprenditore lamenta il proliferare delle modifiche legislative, di circolari europee e ministeriali, interpretative del ‘made in Italy’ con conseguente oggettiva difficoltà di comprensione per gli addetti ai lavori di ciò che era lecito e di ciò che non lo era, soprattutto nel caso in esame in cui sia l’azienda che il luogo di produzione erano collocati in UE . La linea difensiva dell’imprenditore viene però respinta dalla Cassazione. Confermata, quindi, la condanna pronunciata in Appello, poiché è ritenuto chiaro l’intento dell’azienda di piazzare come ‘made in Italy’ capi d’abbigliamento realizzati in Bulgaria. A questo proposito viene annotato che dalle fatture delle aziende italiane di tessuti poteva inferirsi che l’azienda avesse comprato la materia prima in Italia, ma, mancando le ulteriori fatture o documenti di consegna della merce alla società bulgara che si era occupata del confezionamento, non poteva ritenersi che fossero stati trasferiti i tessuti e non solo le etichette . Complessivamente sono stati adoperati degli accorgimenti volti a far apparire i capi come interamente prodotti in Italia , e la stessa indicazione ‘made in UE’ assolveva a tale scopo, siccome l’Italia appartiene all’Unione Europea . Logica quindi la condanna per l’imprenditore, poiché la norma sanziona chiunque fa uso di un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale ‘100% made in Italy’, ‘100% Italia’, tutto italiano”, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione , cioè che il prodotto, confezionato fuori dall’Italia, sia stato realizzato interamente in Italia. E in questa ottica i giudici annotano che in questo caso oltre all’indicazione del tessuto, anche le ulteriori etichette riconducibili a ditte italiane, i colori della bandiera italiana e le grucce contribuiscono ad ingenerare la convinzione nel consumatore che il prodotto sia interamente italiano . Privo di logica, infine, il richiamo difensivo alla complessità della materia sotto il profilo normativo poiché, osservano i giudici, ci si trova di fronte a un operatore professionale del settore, tenuto ad un costante aggiornamento anche sui profili normativi .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 marzo – 1 aprile 2020, n. 10912 Presidente Di Nicola – Relatore Macrì Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 16.11.2017 la Corte d'appello di Ancona ha confermato la sentenza di condanna in data 22.7.2015 del Tribunale di Ancona, previa riqualificazione del fatto, ai sensi dell'art. 16, comma 4, D.L. n. 25 settembre 2009 n. 135, conv. con modifiche dalla L. 20 novembre 2009, n. 166, perché Fi. To., in qualità di legale rappresentante della To. Industrie S.r.l., aveva fatto uso di etichette sui capi d'abbigliamento idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione che il prodotto fosse interamente realizzato in Italia invece che in Bulgaria come indicato nella documentazione commerciale doganale, in Ancona il 27.6.2013. 2. Con il primo motivo l'imputata deduce la violazione di norme processuali ed il vizio di motivazione con riferimento al principio di correlazione tra accusa e sentenza, siccome in origine era stata contestata la violazione del citato art. 16, in primo grado era stata pronunciata la condanna per il reato dell'art. 517 cod. pen., in secondo grado era stata pronunciata la condanna per la violazione del predetto art. 16, sebbene nelle motivazioni si fosse disquisito dell'art. 4, comma 49, L. n. 350/2003. Con il secondo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine all'accertamento di responsabilità. Ricorda che la condotta punibile ai sensi dell'art. 16 esigeva che l'indicazione del tipo full made in Italy o 100% made in Italy o altre espressioni similari avesse ad oggetto merce non interamente disegnata, progettata, lavorata e confezionata nel nostro Paese, mentre non trovava applicazione, qualora la stampigliatura avesse fatto riferimento al semplice made in Italy , poiché in questo caso il fatto era qualificabile ai sensi dell'art. 4, comma 49, L. n. 350/2003. Precisa che, nel caso in esame, la tipologia di etichetta indicante un prodotto 100% italiano compariva solo in uno dei quattro stock di capi di abbigliamento elencati. Solo per questo poteva porsi un problema di fallace indicazione ai sensi dell'art. 16, mentre, al contrario, per gli altri tre oggetto di valutazione era corretto il richiamo a diversa fattispecie. Aggiunge che, nell'ottica dell'art. 4, non sussisteva il reato, poiché i capi di abbigliamento erano stati solo confezionati in Bulgaria, circostanza inidonea a radicare l'origine territoriale ai sensi dell'art. 38 Reg. CE. Osserva che la Corte territoriale aveva mal interpretato i fatti. Ed invero, i capi d'abbigliamento recavano una doppia etichetta, una, sulla manica, relativa al tessuto italiano e l'altra, all'interno, relativa alle ditte distributrici. Aggiunge che tale argomento valeva anche per il caso delle giacche con marchio Gutteridge, che presentavano solo l'etichetta con l'indicazione Distribuito da Capri S.r.l. - Napoli - Made in UE , accompagnate da una spilla posta su un cartoncino, raffigurante i colori della bandiera italiana, ed appese alle grucce con l'indicazione Gutteridge Italia . La collocazione del simbolo della bandiera italiana non poteva essere ritenuto un elemento sufficiente ad indurre in inganno il consumatore circa il paese d'origine del prodotto, a fronte di un'etichetta esplicita, non oscurata da altri simboli che richiamavano l'originalità italiana. Aggiunge che le etichette apposte, che riportavano la generica produzione in UE, erano veritiere. Censura la motivazione nella parte in cui aveva sostenuto l'adozione di accorgimenti per far apparire i capi come interamente prodotti in Italia. Precisa che, mentre per le manifatture extra UE era necessaria l'indicazione specifica, non così per quelle all'interno dell'UE. Le spille, al momento del sequestro in dogana, non erano apposte sulle giacche, bensì solo fissate sul cartoncino, il che escludeva il reato contestato. Aggiunge che fabric significava tessuto e che l'uso di tale termine era giustificato dal pubblico di consumatori internazionali. Osserva conclusivamente che, applicando al fatto oggetto d'imputazione l'art. 16, i Giudici avevano compiuto un errore giuridico, estendendo la portata della norma oltre il suo obbiettivo significato. Con il terzo motivo eccepisce la violazione di legge ed il vizio di motivazione sotto il profilo dell'elemento soggettivo. La precedente condanna riguardava un fatto commesso cinque anni prima della L. n. 55/2010. Inoltre, le etichette erano idonee a rappresentare i prodotti. Lamenta che la Corte territoriale non aveva considerato che il proliferare delle modifiche legislative, di circolari Europee e ministeriali, interpretative del made in Italy aveva comportato un'oggettiva difficoltà di comprensione per gli addetti ai lavori di ciò che era lecito e di ciò che non lo era, soprattutto nel caso in esame in cui sia l'azienda che il luogo di produzione erano collocati in UE. Considerato in diritto 3. Il ricorso è manifestamente infondato. La Corte territoriale ha ricostruito nel dettaglio i fatti ed ha offerto una motivazione accurata, solida e razionale della disciplina giuridica applicabile. 3.1. Innanzi tutto, non si è verificato l'invocato difetto di correlazione tra accusa e sentenza, perché il fatto è stato adeguatamente rappresentato nel capo d'imputazione. Si discute quindi solo della qualificazione giuridica del fatto, che, peraltro, la Corte territoriale ha riportato all'originaria contestazione del Pubblico ministero. 3.2. E' stato accertato nella sentenza impugnata che i capi di abbigliamento, pacificamente confezionati da una società bulgara, erano così caratterizzati n. 148 cappotti da uomo recavano sulla manica l'etichetta Fabric Made in Italy by Ing. Lo. Pi. & amp C. superfine Wool ed all'interno presentavano un'etichetta dello stesso tipo ed un'ulteriore etichetta con la dicitura distribuito da Colella Group S.r.l. - Roma - Made in UE n. 173 giacche da uomo a marchio Gutteridge nelle cui tasche interne vi era l'etichetta Distribuito da Capri S.r.l. - Napoli Made in U.E. , oltre ad una spilla, raffigurante i colori della bandiera italiana, fissata ad un cartoncino, e sulle grucce la scritta Gutteridge Italia n. 113 giacche da uomo con marchio Desiree, nelle cui tasche interne vi era l'etichetta Distribuito da Desiree Retail S.r.l. - Arzano Napoli - Made in U.E. , e sulla manica all'esterno l'etichetta Angelico 100% Made in Biella , mentre sulle grucce l'indicazione Desiree Napoli n. 643 giacche da uomo con marchio Desiree nelle cui tasche interne vi era l'etichetta Distribuito da desiree Retail S.r.l. -Arzano Napoli - Made in UE , oltre a due etichette, di cui una sulla manica apposta all'esterno e ben visibile e l'altra all'interno del capo con la dicitura Leomaster Fine Fabric Tessuto italiano - Made in Italy , nonché le grucce recanti l'indicazione Desiree Napoli . 3.3. La Corte territoriale ha tratto le seguenti considerazioni a dalle fatture delle aziende italiane di tessuti alla To. poteva inferirsi che questa avesse comprato la materia prima in Italia, ma, mancando le ulteriori fatture o documenti di consegna della merce dalla To. alla Dimitrov Ltd, cioè la società bulgare che si era occupata del confezionamento, non poteva ritenersi che fossero stati trasferiti i tessuti e non solo le etichette b le diciture usate nelle etichette non facevano sempre ed univocamente riferimento al Made in Italy , ed infatti, per Angelico 100% Made in Biella la relazione con il tessuto era inesistente, per Leomaster Tessuto italiano - Made in Italy non era di facile intuizione, per Fabric Made in Italy by ing. Lo. Pi. e C. Superfine Wool era difficile pensare al termine fabric nella sua accezione di tessuto , piuttosto che di fabbricazione . Ha concluso quindi che erano stati adoperati degli accorgimenti volti a far apparire i capi come interamente prodotti in Italia. Del resto la stessa indicazione Made in UE assolveva a tale scopo, siccome l'Italia apparteneva all'UE. Di qui la qualificazione della condotta contestata ai sensi dell'art. 16, comma 4, D.L. n. 25 settembre 2009 n. 135, conv. con modifiche dalla L. 20 novembre 2009, n. 166. Tale decisione non è manifestamente illogica o contraddittoria, perché effettivamente il complesso di tutti gli elementi descritti porta a ritenere integrata la violazione dell'art. 16, comma 4, che così recita Chiunque fa uso di un'indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale 100% made in Italy , 100% Italia , tutto italiano , in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione, al di fuori dei presupposti previsti nei commi 1 e 2, è punito, ferme restando le diverse sanzioni applicabili sulla base della normativa vigente, con le pene previste dall'articolo 517 del codice penale, aumentate di un terzo. La disposizione del comma 4 del dell'art. 16 cit. si riferisce esclusivamente a quelle indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente realizzato in Italia, ossia esplicitamente alle indicazioni del tipo 100% Made in Italy , 100% Italia , tutto italiano o altre analoghe indicazioni idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero anche alla apposizione di segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione di un prodotto realizzato interamente in Italia si veda anche Cass., sez. 3, n. 28220 del 05/04/2011, Fatmir, Rv. 250639 . Il precedente comma 3 stabilisce poi che Ai fini dell'applicazione del comma 4, per uso dell'indicazione di vendita o del marchio si intende la utilizzazione a fini di comunicazione commerciale ovvero l'apposizione degli stessi sul prodotto o sulla confezione di vendita o sulla merce dalla presentazione in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e fino alla vendita al dettaglio. Nella specie, oltre all'indicazione del tessuto, anche le ulteriori etichette riconducibili a ditte italiane, i colori della bandiera italiana e le grucce contribuiscono ad ingenerare la convinzione nel consumatore che il prodotto sia interamente italiano. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato perché i Giudici hanno ravvisato il dolo proprio nella sovrabbondanza di etichette e di segni, artatamente apposti per formare una fallace convinzione nel consumatore. A differenza di quanto dedotto la difesa, la circostanza della precedente risalente condanna per un fatto similare non è stata valorizzata per rappresentare il dolo, bensì come elemento che, unito agli altri, al numero considerevole di capi di abbigliamento ed alle modalità scaltre della condotta, ha portato ad escludere la particolare tenuità del fatto. La ricorrente non può poi invocare a propria discolpa la complessità della materia sotto il profilo normativo, dal momento che si tratta di un'operatrice professionale del settore tenuta ad un costante aggiornamento anche sui profili normativi. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.