Rideterminazione della durata delle pene accessorie da parte del giudice dell’esecuzione

Le pene accessorie inflitte con sentenza passata in giudicato possono essere rideterminate dal giudice dell’esecuzione in seguito a declaratoria di incostituzionalità della norma che le dispone.

È consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall’art. 216, ultimo comma, l. fall., quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni. Così la Cassazione con sentenza n. 3290/20, depositata il 27 gennaio. Il ricorso. Il condannato proponeva ricorso avverso l’ordinanza della Corte di Appello, quale giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza proposta per ottenere la rideterminazione delle pene accessorie inflitte ex art. 216 l.fall. nella misura minima. Con unico motivo di ricorso, si lamentava l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 133 c.p. riguardo alla commisurazione delle pene accessorie, poiché queste non erano state rideterminate tenendo conto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 222 del 2018, con la quale si dichiarava l’illegittimità dell’art. 216 l.fall. nella parte in cui la durata di tali pene accessorie era prevista in misura fissa pari a dieci anni, e non già variabile fino a dieci anni. Nel caso di specie la rideterminazione non era stata effettuata, sebbene l’impugnata sentenza di condanna non riconoscesse una particolare gravità oggettiva del fatto né una particolare pericolosità sociale dell’imputato. Ritenendo fondato il ricorso, la Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata, disponendo il rinvio alla Corte d’Appello. Normativa di riferimento. Art. 216 l.fall. e art. 133 c.p La soluzione offerta dalla Suprema Corte. I Giudici di Piazza Cavour hanno, in primo luogo, posto quale premessa del proprio iter motivo il noto arresto delle Sezioni Unite che risolveva il contrasto giurisprudenziale relativo ai poteri di intervento del giudice dell’esecuzione, affermando come questo sia limitato alle ipotesi in cui la correzione della pronuncia del giudice della cognizione sulla pena accessoria non implichi valutazioni discrezionali sulla loro specie e durata. Tuttavia, tale soluzione non è stata ritenuta appagante, di tal guisa la Corte ha ritenuto di risolvere il quesito posto alla sua attenzione dal ricorso richiamando l’interpretazione di legittimità fornita in materia di sostanze stupefacenti – ed in particolare in relazione all’impatto sul giudicato delle sentenze che hanno dichiarato l’incostituzionalità del trattamento sanzionatorio – laddove è stata riconosciuta la possibilità di un intervento adeguatore, anche con valutazioni discrezionali, del giudice dell’esecuzione. Pertanto, opina la Suprema Corte, si deve ritenere possibile la rideterminazione delle pene accessorie nell’ambito dell’incidente di esecuzione, anche qualora su di esse si sia formato il giudicato. Il provvedimento impugnato, dunque, è stato annullato giacché la sua motivazione è apparsa incongrua e scissa dalle valutazioni già espresse nella sentenza di condanna, mentre, viceversa, la rideterminazione avrebbe dovuto essere stabilita caso per caso, tenendo conto dei criteri indicati dalla disposizione di cui all’art. 133 c.p Il principio affermato. In tema di poteri del giudice dell’esecuzione, la formazione del giudicato sulle pene accessorie inflitte con la sentenza di condanna non può precludere un intervento volto alla rideterminazione delle stesse qualora sia intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale che incida sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio. Ciò deriva dalla necessità, relativa tanto alle pene principali quanto a quelle accessorie, di un costante controllo sulla legalità del trattamento punitivo per questa ragione il mutamento del criterio di commisurazione della pena – ad opera del Legislatore o del Giudice costituzionale – qualora comporti il venir meno della proporzione tra disposizione normativa e pena concretamente inflitta, rende necessaria una rideterminazione della pena stessa ad opera del giudice dell’esecuzione, anche in presenza di giudicato e purché il rapporto esecutivo non si sia già esaurito. La possibilità di rideterminazione trova il suo fondamento nel dettato dell’art. 676 c.p.p., che non pone limitazioni ai poteri del giudice di esecuzione in materia di pene accessorie, soprattutto allorché l’adeguamento produca effetti favorevoli per il condannato.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 3 dicembre 2019 – 27 gennaio 2020, n. 3290 Presidente Mazzei – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 27 maggio 2019 la Corte di appello di Milano, pronunciando quale giudice dell’esecuzione, respingeva l’istanza, proposta nell’interesse di D.L.A. , volta ad ottenere la rideterminazione della durata delle pene accessorie, inflittegli ai sensi della L. Fall., art. 216 con sentenza emessa dalla stessa Corte distrettuale in data 24/06/2013, irrevocabile il 19/03/2015, nella misura minima e comunque non superiore ad anni due e la declaratoria di estinzione delle stesse sanzioni per avvenuta espiazione. 2. Ricorre per cassazione il D.L. a mezzo del difensore, avv.to Zanconi Maria Chiara, che articola il seguente unico motivo, chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 133 c.p. in relazione alla commisurazione delle pene accessorie. Secondo la difesa, l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualunque impresa avrebbero dovuto essere dichiarate estinte in forza di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216 nella parte in cui prevedeva la durata di tali pene in misura fissa e pari a dieci anni, anziché quella variabile fino a dieci anni. In tal modo si è introdotta una modifica che rende più favorevole il trattamento sanzionatorio ed illegali le pene inflitte nella sentenza di condanna in misura pari a dieci anni in contrasto con l’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che, chiamate a stabilire quale fosse la disciplina da applicare per la commisurazione delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, indica la necessità che le stesse, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, siano determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p Nel caso di specie la Corte d’appello, pur aderendo a tale soluzione, ha errato nel ritenere che la durata delle pene inflitte al ricorrente dovesse essere pari a dieci anni, posto che egli era stato condannato alla pena principale di due anni di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche in ragione del corretto comportamento processuale, volto alla semplificazione della materia oggetto dell’imputazione, e del risarcimento del danno in favore della curatela fallimentare. L’ordinanza, invece, riporta la descrizione dei fatti esposta nell’imputazione ed è priva di un’effettiva valutazione della gravità dei fatti non considera che il ricorrente aveva svolto la funzione di sindaco della società fallita, ruolo che è privo di connotazioni particolarmente negative, mentre i citati precedenti penali riportati dallo stesso non sono specifici e non sono indicativi di una personalità criminale, tanto più che il comportamento successivo ai fatti denota il contrario, avendo egli provveduto a risarcire il danno alla curatela fallimentare. 3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, Dott. Romano Giulio, ha chiesto il rigetto del ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è fondato e merita dunque accoglimento. 1. La vicenda processuale all’odierno esame riguarda il contestato esercizio dei poteri cognitivi da parte del giudice dell’esecuzione, chiamato a delibare il tema della commisurazione temporale di sanzioni accessorie inflitte con sentenza di condanna irrevocabile. La questione di diritto, che il provvedimento impugnato non affronta, ma che per implicito ritiene risolvibile positivamente, attiene alla proponibilità con il rimedio dell’incidente di esecuzione della richiesta di rinnovata determinazione del profilo temporale relativo all’applicazione delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualunque impresa, già imposta all’imputato per la durata di anni dieci all’esito del giudizio di cognizione con statuizione irrevocabile. 1.1. La peculiarità del caso si coglie nell’intervento, successivamente alla formazione del giudicato, della pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 5/12/2018, che ha dichiarato l’illegittimità del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa , anziché che la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni . Sul presupposto di tale diversa parametrazione legale del profilo temporale delle pene accessorie, il condannato aveva chiesto al giudice dell’esecuzione di procedere ad una diversa e più favorevole commisurazione della loro durata, da parificare a quella della sanzione principale di due anni di reclusione e di dichiararla estinta, istanza che è stata respinta. 1.2. Va premesso che, ai sensi dell’art. 136 Cost., la norma dichiarata illegittima cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione secondo quanto previsto dalla Legge Costituzionale 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, commi 3 e 4, per il quale Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali . Nell’interpretazione tradizionale che ne hanno offerto le Sezioni Unite di questa Corte Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, P.C. in proc. Lista, rv. 236535 la disposizione, che attribuisce efficacia retroattiva alle declaratorie di incostituzionalità delle norme penali e fonda la competenza del giudice dell’esecuzione a considerarne l’incidenza sulla fase attuativa del giudicato, riguarda le sole disposizioni sostanziali, che incriminano il fatto, oppure che stabiliscono il trattamento punitivo e comporta la verifica in sede esecutiva della sopravvenuta illegalità della pena, che, se riscontrata e se riguardante rapporto esecutivo ancora in atto, ne comporta la cessazione. 1.3. Con specifico riferimento ai poteri di intervento del giudice dell’esecuzione sulle pene accessorie il dibattito giudiziario ha visto contrapporsi orientamenti differenti a fronte dell’indirizzo che sostiene non essere consentito lamentare in sede esecutiva l’errore compiuto dal giudice di cognizione nell’applicazione di pene accessorie, trattandosi di modifica sostanziale del dictum della sentenza, possibile solo nel giudizio di cognizione attraverso i rimedi impugnatori sez. 1, n. 14007 del 20/03/2007, Fragnito, rv. 236213 sez. 1, n. 14827 del 19/02/2009, Blasi Nevone, rv. 243740 sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonucci, rv. 250672 , la linea interpretativa maggioritaria assume che il principio di legalità della pena, stabilito dall’art. 1 c.p. e dall’art. 25 Cost., è riferibile a tutto il sistema penale e non se ne può limitare la valenza al solo giudizio di cognizione, vietando esso, non soltanto l’inflizione di sanzione che non è prevista da norma di legge o che si discosta per specie o quantità dal parametro legale, ma anche la sua esecuzione perché estranea alla pretesa punitiva dello Stato sez. 5, n. 809 del 29/04/1985, Lattanzio, rv. 169333 sez. 1, n. 4869 del 6/07/2000, P.m. in proc. Colucci, rv. 216746 sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, rv. 230928 sez. 1, n. 12453 del 3/09/2009, P.g. in proc. Alfieri, rv. 243742 sez. 1, n. 38245 del 13/10/2010, Di Marco, rv. 248300 sez. 1, n. 1800 del 30/11/2012, Zito, rv. 254288 sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Catapano, rv. 254551 sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, rv. 256879 . Il divario interpretativo tra le opposte posizioni ha trovato componimento tramite l’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., rv. 262327, hanno affermato due principi. Hanno premesso il riconoscimento che il principio di legalità della pena permea tutto l’ordinamento giuridico, dal che la necessità che la sanzione inflitta extra o contra legem sia eliminata attraverso i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche dal giudice dell’esecuzione che provvede dopo il passaggio in giudicato della sentenza e che i principi elaborati in relazione alla pena principale non possono che valere anche con riguardo alle pene accessorie, non essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena sia essa principale o accessoria non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali . Hanno quindi sostenuto che, da un lato va esclusa la correzione in sede esecutiva dell’erronea pronuncia da parte del giudice della cognizione sulla pena accessoria, applicata in termini tali da renderla illegale, poiché l’errore di calcolo o di altra natura deve essere fatto valere con gli ordinari mezzi di impugnazione dall’altro, hanno riconosciuto uno spazio d’intervento del giudice dell’esecuzione sulle pene accessorie quando non implichi valutazioni discrezionali in ordine alla loro specie e durata, secondo quanto ricavabile dall’art. 183 disp. att. c.p.p., per concludere testualmente che non sono consentiti, invece, interventi manipolatori del giudicato che comportino, da parte del giudice dell’esecuzione, l’esercizio di poteri discrezionali, con il ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p., per la determinazione della durata della pena accessoria . 1.4. Tale soluzione, ad avviso del Collegio, non è appagante e merita di essere oggetto di rivisitazione. Esiti ermeneutici d’interesse anche per la soluzione del quesito posto dal presente procedimento sono deducibili dagli arresti della giurisprudenza di legittimità circa l’impatto sui giudicati di condanna per illeciti riguardanti sostanze stupefacenti delle sentenze che hanno dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni di legge sul trattamento sanzionatorio. In particolare, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affrontato il tema in riferimento agli effetti della pronuncia n. 32 del 2014, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità del regime sanzionatorio di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 272 del 2005, art. 4-bis, comma 1, lett. b , convertito con modificazioni dalla L. n. 49 del 2016, che anche per le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle 2 e 4 dell’art. 14 prevedeva la pena minima di anni otto di reclusione, con il ripristino della previsione antecedente la modifica dichiarata contraria alla Costituzione. In ordine alle conseguenze prodotte sui giudicati di condanna dalla predetta declaratoria d’incostituzionalità, incidente sul solo aspetto sanzionatorio principale della norma penale scrutinata, le Sezioni Unite hanno affermato che l’intervento demolitore del giudice delle leggi non impedisce il successivo adeguamento della pena già inflitta da parte del giudice dell’esecuzione, da esercitarsi in via discrezionale, per riportarla a legalità in base al diverso quadro edittale, come risultante dalla declaratoria d’incostituzionalità, con gli unici limiti dell’obbligo di conformazione agli accertamenti effettuati in fase di cognizione e del mancato esaurimento del rapporto esecutivo Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260700 Sez. U., n. 47766 del 276/06/2015, Butera, rv. 265108 . In particolare, nella sentenza Gatto è stato posto in luce - che l’efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di conseguire certezza e stabilità giuridica e, a presidio dei diritti di libertà individuale, di porre un limite all’intervento punitivo dello Stato, che si realizza mediante la previsione del divieto di bis in idem, senza che ciò comporti un vincolo di assoluta immodificabilità del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna quando la pena debba adattarsi a fattori sopravvenuti - che se dopo la formazione del giudicato di condanna intervenga la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e il rapporto esecutivo non si è esaurito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato anche se la nuova decisione da assumere non sia a contenuto predeterminato, dovendo farsi riferimento a penetranti poteri di accertamento e di valutazione - che, in attuazione dei medesimi principi, la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-bis, con la sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010 impedisce che sia eseguita la porzione di pena ascrivibile alla circostanza stessa, dovendo il giudice dell’esecuzione stabilirne l’entità ai fini della sua eliminazione - che analogamente il giudice dell’esecuzione, in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69 c.p., comma 4, nella parte in cui vietava di dichiarare prevalente la circostanza attenuante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, sulla recidiva di cui all’art. 99 c.p., comma 4, può diversamente risolvere il giudizio di bilanciamento e ritenere la prevalenza dell’attenuante anche compiendo attività di accertamento, purché siffatto giudizio non sia stato già escluso in fase di cognizione. La soluzione così delineata è stata giustificata in ragione dei penetranti poteri del giudice dell’esecuzione, - compresivi della possibilità di rivalutare la fattispecie come accertata nel giudizio di cognizione -, incidenti sul giudicato, riconosciuti anche dal giudice costituzionale con la sentenza n. 210 del 2013, che ha richiamato come in fase esecutiva possa esercitarsi il sindacato sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo, ma anche la sua modifica o il suo superamento secondo le previsioni dettate dagli artt. 669, 670, 671, 672 e 673 c.p.p I medesimi principi sono stati in seguito ulteriormente sviluppati e precisati con rilevanti osservazioni in tema di illegalità della pena, allorché le Sezioni Unite con la pronuncia n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, rv. 264205, hanno affermato che È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette leggere , sui limiti edittali del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come modificato dalla L. n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità . Richiamandosi al principio di proporzione tra violazione e sanzione, si è affermato che il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di riconsiderare il trattamento sanzionatorio in precedenza basato sui limiti edittali del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, come modificato dalla L. n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma in seguito dichiarata incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, deve procedere alla rideterminazione della pena sulla base dei criteri previsti dall’art. 133 c.p. e ciò, tanto se la pena sia illegale perché eccedente i limiti edittali previsti dalla normativa ripristinata nella sua vigenza, quanto nel caso in cui quella concretamente inflitta rientri nei limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006 nel procedere a tale operazione non è consentito fare ricorso a criteri di adattamento automatico o aritmetico-proporzionale, forieri di una mera riduzione matematica, dovendosi piuttosto fare uso dei poteri discrezionali ed adeguare il trattamento punitivo al disvalore del fatto, dando poi conto con congrua motivazione delle scelte effettuate. In tempi ancora più recenti, intervenuta l’ulteriore pronuncia del giudice costituzionale n. 40 del 23/01/2019, con la quale è stata dichiarata la parziale incostituzionalità del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, limitatamente alla previsione per le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti, incluse nelle tabelle 1 e 3 dell’art. 14, della pena minima di anni otto di reclusione in luogo di quella di anni sei di reclusione, si registra la riconosciuta possibilità di analogo intervento di adeguamento in sede esecutiva del trattamento sanzionatorio già inflitto con sentenze di condanna, pronunciate nel periodo di vigenza della norma dichiarata incostituzionale sez. 1, n. 49104 dell’8/11/2019, Hedfi, n. m. sez. 1, n. 51082 del 20/11/2019, Puccinelli, n. m. . 1.5. Ebbene, la portata additiva della sentenza n. 222 del 2018 sul testo della L. Fall., art. 216, u.c., pur senza avere inciso sul meccanismo di automatica applicazione, ha determinato un sostanziale e rilevante mutamento della previsione circa la durata decennale, unica e fissa, delle pene accessorie fallimentari ivi stabilite, con la trasposizione all’interno dell’art. 216 della medesima formulazione della L. Fall., artt. 217 e 218 sulla determinazione delle sanzioni in esame, operazione da condurre in base ad una valutazione operata caso per caso e disgiunta da quella di commisurazione della pena principale, da ancorare al diverso carico di afflittività ed alla diversa finalità di ciascuna pena. Le Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto emerso tra le sezioni semplici della Corte Suprema in ordine agli effetti ed alle modalità di reazione alla sentenza della Corte costituzionale in riferimento ad un processo di cognizione non ancora definito con sentenza irrevocabile, in merito alle sanzioni complementari di cui alla L. Fall., art. 216 hanno stabilito che La durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci ed altri, rv. 276286 e quindi hanno rimesso al giudice di merito il compito di procedere alla rinnovata commisurazione in base ai criteri di principio così espressi. È rimasta effettivamente insoluta, perché non devoluta al giudizio delle Sezioni Unite, l’ulteriore questione della possibilità di operare tale nuova determinazione, che tenga conto della diversa struttura della pena non prefissata e predeterminata dal legislatore, nell’ambito dell’incidente esecutivo dopo che sulla sua durata, già stabilita in misura fissa ed invariabile di dieci anni, si sia formato il giudicato. Si ritiene di dover offrire al quesito risposta positiva in coerenza con i principi generali che già la giurisprudenza di legittimità ha fornito in precedenza. Se, infatti, si ammette pacificamente la possibilità che il giudice dell’esecuzione intervenga per rimuovere la pena principale, ove la stessa sia stata inflitta in violazione dei parametri normativamente fissati, e se il profilo dell’illegalità del trattamento punitivo quanto alla sanzione principale debba essere oggetto di costante verifica in tutto il corso del procedimento, compreso il suo segmento esecutivo, poiché non sarebbe conforme ai valori costituzionali ammettere che la potestà punitiva dello Stato si esplichi in contrasto con le previsioni di legge Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, rv. 258650 Sez. U., n. 4687 del 20/12/2005, Catanzaro, rv. 232610 , le medesime esigenze di salvaguardia dei diritti individuali e di adeguamento al sopravvenuto mutamento normativo o a declaratorie di incostituzionalità si pongono, quando il rapporto esecutivo non si sia già esaurito, anche in riferimento al profilo temporale delle pene accessorie, la cui applicazione e commisurazione rientra nelle facoltà conferite in via generale dall’art. 676 c.p.p. al giudice dell’esecuzione. La finalità di garantire la proporzione tra previsione normativa e risposta punitiva concreta e l’allineamento tra la sanzione nel suo profilo attinente alla durata e gli estremi edittali, quando modificati per intervento del legislatore o del giudice costituzionale con la sostituzione di un criterio commisurativo ad altro - nel caso in esame da quello che prevedeva un’unica misura fissa alla possibile graduazione sino ad un tetto massimo -, deve trovare realizzazione mediante un’operazione di riqualificazione sanzionatoria da attuare in via postuma rispetto al giudicato già formatosi, ossia nella fase dell’esecuzione e si pone in termini speculari per la pena principale come per quella accessoria quando venga in gioco il profilo della misura e della protrazione temporale ed ancora il rapporto esecutivo sia in atto e produttivo di effetti. A fronte della formulazione ampia dell’art. 676 c.p.p., che testualmente non contiene limitazioni sulle attribuzioni decisorie del giudice dell’esecuzione in materia di pene accessorie e legittima quindi qualsiasi tipo di statuizione anche di eliminazione o di modifica della pronuncia già intervenuta sul punto, non è sufficiente richiamare la previsione dell’art. 183 disp. att. c.p.p. che consente di sanare l’omissione verificatasi nel giudizio di cognizione, ma a condizione che l’applicazione delle pene accessorie non richieda l’esercizio di poteri delibativi discrezionali la norma, infatti, prevede uno spazio d’intervento per il giudice dell’esecuzione, circoscritto ai soli casi di pena predeterminata per specie e durata, a ragione degli effetti peggiorativi del carico sanzionatorio già derivante dalla pronuncia di condanna. Non altrettanto può ritenersi quando l’adeguamento della sanzione già inflitta comporti effetti favorevoli per il condannato. Deve dunque confermarsi l’ammissibilità della domanda di tutela avanzata dal ricorrente, per sollecitare un intervento conformativo da parte del giudice dell’esecuzione delle pene complementari inflittegli alla nuova cornice edittale, con la formulazione del seguente principio di diritto È consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dalla L. Fall., art. 216 u.c., quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni . 2. Tanto premesso e venendo alla disamina del provvedimento impugnato, è fondata la censura che ne critica la motivazione per avere la Corte di appello individuato la nuova misura delle pene accessorie in dieci anni, coincidente con quella stabilita dalla L. Fall., art. 216 nel testo dichiarato parzialmente incostituzionale e pari a quella massima al momento consentita. In primo luogo, non ha fondamento giuridico la pretesa del ricorrente di ottenere una risposta adeguatrice alla pronuncia di incostituzionalità che preveda l’automatica rideterminazione della pena accessoria in replica dell’entità di quella detentiva principale, poiché, secondo l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite nella citata sentenza Suraci, che si ritiene di recepire e ribadire, la nuova misura va stabilita dal giudice in via discrezionale e caso per caso, facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p Nel caso specifico la motivazione del provvedimento in verifica è palesemente incongrua e non tiene conto delle valutazioni già espresse nel giudicato di condanna, laddove, pur a fronte della considerazione della natura fraudolenta delle condotte, compiute in danno dei soci e dei terzi anche mediante la falsificazione dei bilanci societari, nonché del precedente riportato dall’imputato, dotato di competenze ed esperienze specifiche, la pena della reclusione è stata graduata, partendo dal minimo edittale e previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione possibile. Tanto implica un apprezzamento della fattispecie concreta come contraddistinta da non particolare gravità oggettiva e da un giudizio altrettanto modesto di pericolosità sociale dell’imputato, che non trova rispondenza ed è contraddetto dalle considerazioni espresse in fase esecutiva, rimaste però prive di un supporto giustificativo che dia conto di una scelta di massimo rigore punitivo, del tutto sperequata rispetto al trattamento inflitto quanto a pena principale. In definitiva, pur dovendosi riconoscere al giudice dell’esecuzione la libertà cognitiva di stabilire in via autonoma la durata delle pene accessorie fallimentari, senza dover rispettare la perfetta simmetria di decisione rispetto a quanto statuito per la pena della reclusione, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio alla Corte di appello di Milano, che procederà al rinnovato esame dell’incidente esecutivo nel rispetto dei principi sopra esposti e sanando le lacune argomentative riscontrate. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Milano.