Il 41-bis va alla Consulta

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f ord. pen. nella parte in cui impedisce ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità di scambiare oggetti tra loro.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con la ordinanza n. 43436/19, depositata il giorno 23 ottobre. Il carcere duro, tra esigenze di sicurezza e diritti fondamentali. Un detenuto sottoposto al regime differenziato del 41- bis aveva proposto un reclamo avverso un ordine di servizio della Casa Circondariale in cui si trovava recluso, col quale si imponeva il divieto ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità” di scambiare tra loro oggetti – in particolare generi alimentari – di qualunque tipologia. Il Magistrato di Sorveglianza aveva dichiarato inammissibile il reclamo, e il detenuto aveva caparbiamente proposto un secondo reclamo avverso il provvedimento di inammissibilità. Questa volta, il Tribunale di Sorveglianza sposava la tesi oppositiva, e accoglieva i reclami rilevando che lo scambio di beni di modico valore tra soggetti ammessi a partecipare al medesimo gruppo di socialità non frustrerebbe affatto le finalità del carcere duro”, e cioè la garanzia che il detenuto sottoposto a questo speciale regime detentivo non mantenga collegamenti con l'associazione criminale di appartenenza. Il Ministero della Giustizia, avuta notizia della sconfitta processuale, proponeva ricorso per Cassazione, non incontrando nemmeno il favore della Procura Generale che, con requisitoria scritta, ne chiedeva il rigetto. L'effetto del ricorso è stato quello di indurre gli Ermellini a sollevare d'ufficio una interessante questione di legittimità costituzionale. Il regime del carcere duro deve comunque conformarsi al principio di uguaglianza e alla necessità che la pena abbia uno scopo rieducativo. Conosciamo bene i motivi che hanno indotto il legislatore a prevedere lo speciale regime detentivo del 41- bis i soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali mafia, camorra, 'ndrangheta, eccetera costituiscono una minaccia per la sicurezza pubblica anche se detenuti in regime ordinario, dato che potrebbero – e la cronaca ce lo ha dimostrato innumerevoli volte – mantenere contatti con esponenti del proprio clan anche restando dietro le sbarre. Una serie di restrizioni particolari, allora, servono proprio ad impedire che chi si trovi ristretto in regime differenziato possa continuare ad esercitare il proprio ruolo criminale regole particolari devono essere seguite per i colloqui con i familiari numero degli incontri, modalità di svolgimento, eccetera ed anche i contatti con il resto della popolazione carceraria viene disciplinato in maniera specifica. Esistono, tuttavia, i c.d. gruppi di socialità” che consentono, con particolari limitazioni, al detenuto in regime di carcere duro di coltivare rapporti interpersonali con un numero ristretto di compagni di detenzione. La funzione rieducativa della pena sarebbe del tutto impedita se il regime del 41- bis impedisse al detenuto qualsiasi tipo di contatto umano. Una regola particolare, però, viene a disciplinare anche questi aspetti, impedendo ai detenuti appartenenti ai diversi gruppi di socialità di comunicare tra di loro, scambiare oggetti e cuocere cibi. L'ultima parte della norma è quella adesso portata al vaglio della Corte Costituzionale. Il divieto deve intendersi operativo tra soggetti appartenenti a gruppi di socialità diversi, ovvero va interpretato nel senso di essere efficace anche tra detenuti dello stesso gruppo? Secondo la Cassazione, quest'ultima interpretazione non avrebbe alcun senso, dato che l'aver creato un gruppo di socialità implica una valutazione di non pericolosità del contatto umano tra i detenuti che vi partecipano. Il 41-bis non sfugge al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Ecco che, a questo punto, soccorre il riferimento a principi generali del nostro ordinamento giuridico e di quello comunitario una restrizione totalmente priva di finalità rieducativa equivale ad una mera afflizione, da ritenersi ingiustificata alla luce dei principi generali che governano l'imposizione e l'esecuzione dei trattamenti penitenziari intramurari. La parola, adesso, va ai guardiani della Costituzione.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 29 maggio – 23 ottobre 2019, n. 43436 Presidente Iasillo – Relatore Renoldi Ritenuto in fatto 1. G.G. , sottoposto nella Casa di reclusione di Spoleto al regime differenziato previsto dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, di seguito indicata come Ord. pen. , aveva proposto reclamo, ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen., davanti al Magistrato di sorveglianza di Spoleto, avverso l’ordine di servizio del 15 marzo 2015 con il quale la Direzione dell’Istituto penitenziario aveva preannunciato che a seguito della entrata in vigore della L. 15 luglio 2009, n. 94, doveva ritenersi vietato, ai sensi dell’art. 2, comma 25, lett. f , n. 3, che aveva modificato l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f , Ord. pen., lo scambio di oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità . Secondo il reclamante, infatti, dallo scambio di oggetti, e in particolare dai generi alimentari provenienti dai consueti canali pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario in base al cd. mod. 72 , non poteva configurarsi alcun rischio per le finalità previste dall’art. 41-bis Ord. pen., considerato che i detenuti interessati dallo scambio, appartenendo al medesimo gruppo, erano già stati ammessi a fruire in comune la cd. socialità. 2. Con ordinanza n. 546/2018 in data 26 febbraio 2018, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dichiarò inammissibile il reclamo, rilevando che l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f , Ord. pen., nella formulazione successiva alla novella introdotta dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, stabiliva il divieto di scambiare oggetti , compresi i generi alimentari , anche tra i detenuti dello stesso gruppo di socialità, secondo quanto riconosciuto dalla Corte di cassazione in plurime pronunce e conformemente a quanto previsto dall’art. 4, comma 1, della Circolare n. 3676/6126 del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria datata 1 ottobre 2017 e non potendo riconoscersi, in capo al detenuto, la sussistenza di alcun diritto soggettivo avente ad oggetto il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti. 3. Avverso il provvedimento di inammissibilità aveva personalmente proposto reclamo, ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen., lo stesso G. e, con separato atto, analoga impugnazione era stata presentata dal difensore di fiducia del detenuto. Secondo quanto dedotto dai reclamanti, il divieto in questione, ove applicato nei confronti degli appartenenti al medesimo gruppo di socialità, doveva ritenersi distonico rispetto alle finalità del regime differenziato e, dunque, inutilmente vessatorio, comprimendo ingiustificatamente il diritto fondamentale alla socialità in genere , che il detenuto -avrebbe inteso esercitare attraverso lo scambio di generi alimentari con gli altri reclusi. 3.1. Con ordinanza n. 1115/2018 in data 19 settembre 2018, il Tribunale di sorveglianza di Perugia accolse i reclami proposti nell’interesse di G. . Sotto un primo profilo, il Collegio affermò che la materia dello scambio di oggetti e di generi alimentari in particolare, provenienti dai pacchi famiglia, dal sopravitto, dal cibo somministrato dalla stessa amministrazione penitenziaria , riceve tutela in base al combinato disposto della L. n. 354 del 1975, art. 35-bis e art. 69, comma 6, lett. b , essendo configurabile, quale estrinsecazione del più generale principio ex art. 1 Ord. pen. sul trattamento rieducativo, il diritto soggettivo del detenuto a fruire di momenti di socialità tra persone ristrette. Diritto che deve essere riconosciuto anche ai detenuti sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis Ord. pen., i quali, infatti, possono condividere la cd. socialità all’interno del relativo gruppo , quest’ultimo previsto dalla stessa lett. t del comma 2-quater del medesimo articolo, oltre che dall’art. 3.1. della Circolare del D.A.P. in data 2 ottobre 2017. Secondo il Tribunale di sorveglianza di Perugia, inoltre, essendo lo scambio di oggetti comunque limitato, in base alla previsione generale del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 15 cd. regolamento di esecuzione all’ordinamento penitenziario , a quelli di modico valore , con conseguente impossibilità di configurare alcuna posizione di supremazia tra i detenuti, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non poteva essere giustificato da ragioni di sicurezza, non rilevandosi alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza. Infatti, dal momento che i detenuti riferibili al medesimo gruppo di socialità possono incontrarsi liberamente, doveva escludersi che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di modico valore e finanche di generi alimentari , potesse essere neutralizzato il pericolo per l’ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente. Su tali premesse, il Collegio ritenne, dunque, che il divieto in discussione si palesasse come meramente vessatorio , tale da determinare una irragionevole disparità di trattamento tra detenuti ordinari e detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis Ord. pen., con conseguente violazione del principiò affermato dall’art. 3 Cost., coerentemente agli arresti della giurisprudenza costituzionale. Per l’effetto, il Tribunale di sorveglianza dispose la disapplicazione dell’art. 4, comma 1, della Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria in data 2 ottobre 2017 e dell’Ordine di servizio della Direzione della Casa di reclusione di Spoleto del 16 marzo 2015 e ordinò, altresì, alla Direzione della stessa Casa di reclusione di emettere un ordine di servizio volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità cui G. era stato assegnato. 4. Avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo dell’Avvocatura dello Stato, il Ministero della giustizia, che ha dedotto, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 35-bis e 41-bis Ord. pen In particolare, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , che i Giudici di merito abbiano fornito una interpretazione contraria all’inequivoco tenore letterale della citata art. 41-bis ord. pen., comma 2-quater, lett. t . Tale disposizione, secondo quanto confermato dalla giurisprudenza di legittimità, non consentirebbe di superare il divieto di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, avuto riguardo alla formulazione letterale della disposizione, chiarissima nello statuire che solo il divieto di comunicazione ammette deroga all’interno del medesimo gruppo di socialità . Una diversità di regime che si giustificherebbe in quanto, mentre da un lato sarebbe contraddittorio comporre dei gruppi di socialità e poi impedire ai loro componenti di comunicare , dall’altro lato lo scambio di oggetti non sarebbe così essenziale alla socializzazione come il comunicare , rendendo il divieto di scambio di oggetti . congruo e plausibile nell’ambito del bilanciamento tra l’interesse alla socializzazione del detenuto e l’interesse fondante il regime del 41-bis ad arginare flussi informativi tra detenuti in regime speciale . Secondo il ricorrente, inoltre, l’inequivoco tenore letterale della legge e la sua solida ragione giustificativa escluderebbero la necessità dell’interpretazione secundum constitutionem operata dai Giudici di merito, i quali avrebbero coniato una disposizione sostanzialmente contraria alla volontà espressa dal legislatore. Nè alcuna censura potrebbe essere operata sul piano della legittimità costituzionale del divieto in questione, non essendo stati valicati i limiti posti dalla Corte costituzionale all’applicabilità del regime di cui all’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., individuati, in primo luogo, nella congruità della misura rispetto allo scopo , ovvero nella corrispondenza funzionale tra la sospensione di regole e istituti previsti dall’ordinamento penitenziario e le esigenze di ordine e sicurezza e, in secondo luogo, nella funzione rieducativa della pena e nel divieto di pene contrarie al senso di umanità ai sensi dell’art. 27 Cost Infatti, con riferimento alle restrizioni tipizzate dallo stesso legislatore, quali quelle contenute nelle lettere da b a f del comma 2 dell’art. 41-bis, il legislatore avrebbe effettuato, a monte, la relativa valutazione, mediante il bilanciamento tra le esigenze di prevenzione e la tutela dei diritti fondamentali. 5. In data 9/5/2019, è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stato chiesto il rigetto del ricorso. Secondo il Procuratore generale, invero, l’ordinanza impugnata rappresenterebbe una condivisibile opzione interpretativa volta a proporre una lettura della norma restrittiva rispettosa dei fondamentali principi costituzionali, così come ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale avrebbe affermato, in più occasioni, la ingiustificata disparità di trattamento tra detenuti ordinari e detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato in tutti i casi in cui le limitazioni imposte a questi ultimi non siano funzionali all’obiettivo primario del regime di cui all’art. 41-bis, Ord. pen., costituito dall’escludere i contatti tra il detenuto e il gruppo criminale di riferimento. Impostazione che sarebbe stata ribadita, da ultimo, dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 settembre 2018, n. 186, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen., comma 2-quater, lett. t , nella parte in cui dispone il divieto per i detenuti sottoposti al regime differenziato di cuocere cibi all’interno della propria cella detentiva sentenza con la quale sarebbe stato affermato che la negazione dell’accesso a tale modalità di espressione della socialità finisce per configurarsi come una lesione dell’art. 27 Cost., comma 3, presentandosi come una indebita ed ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità , in quanto incongrua e inutile alla luce degli obiettivi cui tende la norma restrittiva, configurandosi come una ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario dotata di valore meramente e ulteriormente afflittivo. Nel caso di specie, infatti, il divieto di scambio di oggetti di modico valore, ivi compresi i generi alimentari, tra detenuti che, in virtù della appartenenza al medesimo gruppo di socialità, sono liberi di incontrarsi per due ore al giorno. condividendo l’uscita all’aperto e la apposita sala di ritrovo, non sarebbe idonea a configurare alcun reale pericolo per l’ordine e per la sicurezza, finendo per costituire una limitazione priva di alcuna attinenza con le ragioni del regime differenziato. Pertanto, la lettura offerta dai due provvedimenti di merito si porrebbe nel solco di una lettura costituzionalmente conforme della cennata disposizione penitenziaria. Considerato in diritto 1. Rileva il Collegio che deve essere sollevata d’ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., della L. n. 354 del 1975, art. 41-bis, comma 2-quater, lett. t . 2. L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera t , Ord. pen., prevede l’adozione di tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi . Secondo l’interpretazione di tale disposizione che è stata offerta dalla giurisprudenza di legittimità, tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo , deve ritenersi, soprattutto in considerazione dell’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole socialità e scambiare , . che, nel periodo sintattico in esame, le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la assoluta impossibilità di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi . Diversamente, infatti, la disposizione avrebbe contemplato la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e di cuocere cibi . Pertanto, il perseguimento della assoluta impossibilità deve ritenersi riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l’ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale le comunicazioni fra i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità mentre la necessità di assicurare la assoluta impossibilità dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità così Sez. 1, n. 5977 del 13 luglio 2016, dep. 2017, Guarino, Rv. 269185 . 4. L’orientamento interpretativo testè riassunto, ribadito in diverse pronunce della Corte di legittimità Sez. 1, n. 29301 del 18/4/2019, Cammarata, non massimata Sez. 1, n. 29300 del 18/4/2019, Riina, non massimata Sez. 1, n. 4993 del 20/7/2017, dep. 2018, Attanasio, non massimata , parrebbe coerente con il dato testuale e, in tesi, sintonico rispetto a una ratio legis ispirata a istanze di particolare rigore, connesse alla notevole caratura criminale dei detenuti che sono sottoposti al regime differenziato. E a fronte di una formulazione dell’enunciato normativo che sembrerebbe chiara nel suo significato precettivo, l’interprete non potrebbe pervenire, come osservato dal Ministero ricorrente, a un epilogo esegetico di significato opposto a quello fatto palese dal significato delle parole che quell’enunciato compongono. Nondimeno, compito dell’interprete è anche quello di verificare la compatibilità costituzionale delle disposizioni di legge non suscettibili, senza forzature ermeneutiche, di assumere un differente significato normativo e, se del caso, di investire l’unico Organo che, nel sistema vigente, è chiamato a vagliarne la legittimità costituzionale. Una verifica che, nel caso di specie, impone di ritenere non manifestamente infondata, oltre che indiscutibilmente rilevante, la questione di costituzionalità della norma in questione, quantomeno nella specifica ipotesi, qui in rilievo, del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità. 5. Giova ricordare, in premessa, che la funzione della sospensione del regime penitenziario ordinario prevista dall’art. 41-bis Ord. pen., deve essere individuata, secondo quanto più volte sottolineato dalla Corte costituzionale, nella necessità di rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà. Tale obiettivo è perseguito mediante la previsione di una serie di significative restrizioni a quegli istituti dell’ordinamento penitenziario i quali, ordinariamente rivolti a favorire il reinserimento sociale dei detenuti, sono tuttavia suscettibili di favorire il mantenimento dei contatti con l’ambiente esterno v. Corte costituzionale, sentenza 26 novembre 1997, n. 376 ordinanze 17 novembre 2004, n. 417 e 7 aprile 1998, n. 192 e, in tale ambito, con la consorteria criminale di appartenenza, consentendo ai reclusi di continuare a impartire direttive all’esterno o di mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività criminose dell’associazione cfr. Corte costituzionale, sentenza 17 giugno 2013, n. 143, in tema di colloqui con il difensore . In particolare, il comma 2-quater dell’art. 41-bis Ord. pen., nel testo introdotto dalla L. n. 94 del 2009, volto a incidere drasticamente sulle possibilità di relazione dei detenuti, elenca una serie di misure specifiche di elevata sicurezza interna ed esterna finalizzate a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento del detenuto o dell’internato, oltre che contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate , le quali costituiscono il contenuto tipico e necessario del regime stesso così Corte costituzionale, sentenza 8 febbraio 2017, n. 122 . Nel dettaglio, la citata disposizione prevede, con riferimento ai rapporti tra il detenuto e l’esterno alla lettera b , limitazioni nel numero e nelle modalità di svolgimento dei colloqui e delle telefonate alla lettera c , limitazioni nelle somme e nella quantità e tipologia dei beni che possono essere ricevuti dall’esterno alla lettera e , limitazioni della corrispondenza. Lo stesso comma 2-quater prevede, altresì, per quanto attiene ai rapporti tra i detenuti alla lettera d l’esclusione dalla partecipazione alle rappresentanze dei detenuti alla lettera f , significative limitazioni sia nella permanenza all’aria aperta, sia nella cd. socialità, atteso che i c.d. gruppi di socialità non possono essere composti da più di quattro persone e che, come si è già osservato, devono essere adottate le necessarie misure per garantire l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e per scambiare oggetti , essendo ormai venuta meno la possibilità di cuocere cibi per effetto della sentenza 26 settembre 2018, n. 186 della Corte costituzionale sulla quale infra . 6. Nondimeno, come la Corte costituzionale ha più volte ricordato, il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis Ord. pen., soggiace a due limiti essenziali, aventi entrambi fondamento costituzionale. 6.1. Il primo di essi attiene alla congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue. La Corte costituzionale ha affermato che non possono disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento. Mancando tale congruità, infatti, le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale. Nè tale funzione potrebbe essere alterata o forzata attribuendo alle misure disposte uno scopo dimostrativo , volto cioè a privare una categoria di detenuti di quelle che vengono considerate o manifestazioni di potere reale e occasioni per aggregare intorno ad essi consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali. Se è vero infatti che va combattuto in ogni modo il manifestarsi all’interno del carcere di forme di potere dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, è anche vero che ciò deve perseguirsi attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario . . Non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti v. Corte costituzionale, sentenza 14 ottobre 1996, n. 351 . E nella stessa prospettiva, si è affermata la legittimità del regime detentivo speciale nella misura in cui esso implichi quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo per la sicurezza pubblica v. Corte costituzionale, sentenza 5 dicembre 1997, n. 376 . Anche successivamente alla introduzione della L. 15 luglio 2009, n. 94, la Corte costituzionale ha ribadito il principio secondo cui non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango cfr. Corte costituzionale, sentenza 17 giugno 2013, n. 143, in tema di colloqui difensivi . Una esigenza, quella della congruità tra misura e scopo, che costituisce una declinazione del principio di proporzione, rispetto al quale la stessa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo richiede che le misure incidenti sulle libertà riconosciute dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo debbano, per poter essere considerate legittime, perseguire un fine legittimo essere idonee rispetto all’obiettivo di tutela risultare necessarie, non potendo essere disposte misure meno restrittive e parimenti idonee al conseguimento dello scopo non realizzare un sacrificio eccessivo del diritto compresso. E del resto non va dimenticato che lo stesso art. 41-bis Ord. pen., nel prevedere, al comma 2, che la sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione , si omologa, espressamente, alla medesima prospettiva, considerando legittime, appunto, solo le limitazioni necessarie , ovvero congrue rispetto allo scopo e, in ogni caso, proporzionate. 6.2. Il secondo limite attiene alla funzione rieducativa della pena e al divieto di pene contrarie al senso di umanità, sanciti dall’art. 27 Cost Da tali principi, infatti, consegue che le restrizioni disposte ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. non devono essere tali da vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità v. Corte costituzionale, sentenze 14 ottobre 1996, n. 351, 24 giugno 1993, n. 349 e 21 giugno 2018, n. 149 , verifica quest’ultima tanto più delicata trattandosi di misure che derogano al trattamento carcerario ordinario così, ancora, la citata sentenza n. 351 del 1996 . 7. Se, come sopra argomentato, la disciplina dettata dall’art. 41-bis Ord. pen. rinviene specifici limiti costituzionali in ordine alla possibilità di disporre misure che non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza o che siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento, deve conseguentemente ritenersi non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f , Ord. pen. in relazione agli artt. 3 e 27 Cost 7.1. Con riferimento al solo primo parametro, infatti, mentre la previsione secondo cui l’Amministrazione penitenziaria deve assicurare il divieto assoluto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità appare effettivamente funzionale a garantire gli obiettivi di prevenzione della misura v. Sez. 7, n. 378 del 29/5/2014, dep. 2015, Piromalli, Rv. 261890, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame, in quanto finalizzata a evitare dinamiche relazionali, tra detenuti per delitti di criminalità organizzata, che potrebbero agevolare logiche associative aggreganti tra esponenti dello stesso sodalizio o, all’opposto, contrapposizioni conflittuali nei confronti di gruppi avversi , l’ulteriore disposizione, concernente il divieto di scambio di oggetti, che il ricordato enunciato normativo riferisce, indifferentemente, a tutti gli altri ristretti, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non può, invece, ritenersi funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo una portata meramente afflittiva . Mentre nel primo caso, infatti, lo scambio di oggetti potrebbe consentire di veicolare informazioni tra soggetti che, in quanto assegnati a differenti gruppi di socialità, l’Amministrazione ha ritenuto, sulla base di una valutazione in concreto, non debbano essere ammessi a comunicare proprio per interrompere ogni forma di relazione e per ovviare al pericolo della circolazione di determinate conoscenze, nella seconda ipotesi tale essenziale esigenza è, per definizione, inesistente, dal momento che proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo consentirebbe, a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti. Nè potrebbe ritenersi che il divieto di scambio di oggetti possa giustificarsi in rapporto alla necessità di impedire che taluno dei soggetti del sinallagma possa, attraverso tale operazione, acquisire una posizione di supremazia nel contesto penitenziario. Come puntualmente argomentato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 186 del 2018, infatti, il manifestarsi, all’interno del carcere, di forme di potere dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario . e non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti così già la sentenza n. 351 del 1996 . Inoltre, il riferimento alla necessità di contrastare attraverso regole dal sapore dimostrativo forme di potere reale dei detenuti rivela ulteriormente la propria palese incongruità, se concretamente riferito al particolare divieto in esame, in rapporto al fatto che già la regola generale, posta dal D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 15 Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà , consente la cessione o la scambio unicamente di beni di modico valore . Beni che, nel caso di specie, consistevano in generi alimentari zucchero, caffè et simila o, comunque, di prima necessità per l’igiene personale o la pulizia della cella inviati dall’esterno, e quindi ulteriormente limitati ex art. 41-bis, comma 2-quater, lett. c , o acquistati al cd. sopravvitto, sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo improprio di scambio doveva ritenersi esclusa in radice e risultando del tutto improbabile, in ogni caso, che il perpetuarsi delle gerarchie criminali all’interno del carcere possa realizzarsi attraverso lo scambio di caffè o sapone, peraltro nei contenuti limiti quantitativi già previsti dai vigenti regolamenti cfr., ancora, quanto osservato da Corte costituzionale, sentenza n. 186 del 2018 in relazione al consumo di cibi di lusso . Pertanto, già sotto tale primo aspetto, non può ritenersi manifestamente infondato il dubbio che il divieto di scambiare oggetti tra detenuti sottoposti al regime differenziato, ma appartenenti al medesimo gruppo di socialità, configuri una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai ristretti in regime ordinario e una irragionevole limitazione dal significato inutilmente vessatorio. 7.2. Quanto, poi, all’art. 27, anche in relazione all’art. 3 Cost., dal momento che, come ricordato, il principio del finalismo rieducativo non può essere obliterato e che le limitazioni al regime penitenziario ordinario non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, il divieto di cedere e/o scambiare oggetti di modico valore tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità configura un vulnus ai principi affermati dal richiamato parametro costituzionale e al divieto di un trattamento irragionevolmente differenziato. Infatti, proprio la previsione secondo cui l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità comporta, a contrariis, che anche ai detenuti e agli internati sottoposti al regime differenziato deve essere riconosciuto, così come ai detenuti e agli internati comuni , un diritto alla socialità, il quale costituisce, a sua volta, esplicazione del diritto al trattamento rieducativo. E una volta stabilito che il diritto alla socialità debba essere esercitato nell’ambito di un gruppo di ristretti, selezionato dall’Amministrazione penitenziaria in ragione della ricordata necessità di impedire il mantenimento dei legami con il gruppo criminale di provenienza, la ulteriore limitazione conseguente all’applicazione del divieto di cui si discute, che impedisca anche quelle forme minime di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano senza filtri ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali, finisce per realizzare una non consentita limitazione ai principi del finalismo rieducativo e del divieto di trattamenti degradanti. Degradazione che si ha ogni volta che il detenuto/internato, sottoposto a misure ingiustificatamente afflittive, vede strumentalizzata la propria umanità per finalità di politica criminale del tutto distoniche rispetto alle specifiche finalità di sicurezza perseguite dal regime differenziato, con una ingiustificata differenziazione della relativa disciplina penitenziaria. 8. Osserva, poi, il Collegio che la prospetta questione di legittimità costituzionale deve ritenersi rilevante in ragione degli evidenti effetti che l’eventuale declaratoria di incostituzionalità, sia pure in parte qua, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. t , Ord. pen., produrrebbe sul procedimento in corso. Ciò in quanto l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata farebbe venire meno la base legale degli atti dell’Amministrazione penitenziaria in relazione ai quali è stato proposto il reclamo e segnatamente dell’ordine di servizio 15 marzo 2015, ma anche della Circolare n. 3676/6126 del D.A.P. in data 1 ottobre 2017, successivamente intervenuta, che ha costituito un ulteriore determinazione amministrativa incidente sulla posizione soggettiva del detenuto reclamante , sicché tali atti diventerebbero illegittimi, con ovvie conseguenze sul merito della questione devoluta con l’impugnazione presentata dal Ministero ricorrente. Infatti, il venir meno della limitazione prevista dalla disposizione in esame per i detenuti sottoposti al regime differenziato determinerebbe il riespandersi, anche per tale categoria di reclusi, delle previsioni generali legate al diritto alla socialità quale momento essenziale del trattamento penitenziario artt. 1 Ord. pen. e alla facoltà di cedere oggetti di modico valore accordata a detenuti e internati dall’art. 15, comma 2, del Regolamento di esecuzione sicché anche per i reclusi sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis Ord. pen. diventerebbe esperibile il reclamo previsto, per il caso della lesione di diritti soggettivi, dal combinato disposto dell’art. 35-bis, comma 3, e art. 69, comma 6, lett. b e art. 69 Ord. pen., nella versione risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 3, comma 1, lett. b e lett. i , n. 2 , Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria , convertito, con modificazioni, in L. 21 febbraio 2014, n. 10 - in virtù dei quali il magistrato di sorveglianza, se accerta la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’Amministrazione penitenziaria di porvi rimedio entro un determinato termine. Va, infatti, ribadito che sebbene il comma 2-sexies dell’art. 41-bis Ord. pen. abbia limitato il sindacato giurisdizionale sul regime detentivo speciale alla verifica della sussistenza dei presupposti applicativi, deve comunque ritenersi esperibile un controllo giudiziale sul contenuto dell’atto così Corte costituzionale, sentenza 28 maggio 2010, n. 190 , oggi esercitabile attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 35-bis Ord. pen 9. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f , Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà , come modificato dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 2, comma 25, lett. t , n. 3 , Disposizioni in materia di sicurezza pubblica , nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità. P.Q.M. visto la L. n. 87 del 1953, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale della L. n. 354 del 1975, art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f , nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità. Dispone la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Ministero ricorrente, a G.G. , al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.