L’automatismo delle sanzioni accessorie esclude la violazione del principio della reformatio in pejus

Non sussiste violazione del principio della reformatio in pejus nel caso in cui il giudice dell’appello, a fronte dell’impugnazione del solo imputato, abbia applicato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici erroneamente non disposta in primo grado, qualora, poste le caratteristiche del reato, essa sia prevista come conseguenza necessaria della condanna.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 27965/19, depositata il 26 giugno. La vicenda. La Corte d’Appello di Milano ha confermato in parte la decisione di prime cure di condanna di due imputati, titolari di un esercizio commerciale, per il reato di cui all’art. 171- ter , comma 2, lett. b , l. n. 633/1941 per aver detenuto ai fini della loro riproduzione e vendita copie informatiche di quasi 500 libri universitari ed alcune dispense. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso in Cassazione la difesa. Sanzioni accessorie automatiche. Tra le diverse censure proposte, i ricorrenti lamentano la reformatio in pejus per il fatto che, nonostante l’assenza di impugnazione da parte della pubblica accusa, la Corte d’Appello ha irrogato motu proprio la sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici di cui agli artt. 30 e 32- bis c.p., non applicata invece dal giudice di prime cure. Il Collegio ribadisce il principio per cui non viola il principio della reformatio in pejus la sentenza d’appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici erroneamente non disposta in primo grado, qualora, poste le caratteristiche del reato, essa sia prevista come conseguenza necessaria della condanna per quella fattispecie. Sulla base di tale presupposto, la Corte analizza la disposizione di cui all’art. 171- ter l. n. 633/1941 giungendo ad affermare che anche alla condanna la pena di cui al comma 2 consegue, salva la qualifica soggettiva dell’agente di imprenditore nell’esercizio della sua attività, consegue alla commissione di una delle condotte di cui al comma 1. In virtù del successivo comma 4 consegue inoltre l’automatica applicazione delle sanzioni accessorie interdittive indicate. In conclusione l’automatismo di tale applicazione esclude la violazione del principio del divieto di reformatio in pejus anche nel caso in cui esso sia il frutto della autonoma decisione del giudice del gravame che, in assenza di sollecitazione impugnatoria della pubblica accusa, abbia in tal modo posto riparo alla omissione in cui era incorso il giudice di primo grado . Per questi motivi, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 28 marzo – 26 giugno 2019, n. 27965 Presidente Aceto – Relatore Gentile Ritenuto in fatto La Corte di appello di Milano, con sentenza del 18 giugno 2018, ha solo in parte confermato la decisione con la quale, il precedente 24 giugno 2016, il Tribunale di Milano aveva giudicato P.M. e B.L.G. responsabili di reato loro ascritto in concorso e consistente nelle violazione della L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 2, lett. b , per avere, in qualità di titolari di un esercizio commerciale, e quindi nell’esercizio di un’impresa denominata Tutto Copy di B. e P. snc, detenuto ai fini della loro riproduzione e della loro vendita, le copie informatiche di 480 libri universitari, nonché due dispense universitarie su supporto cartaceo illegittimamente riprodotte, e li aveva, pertanto, condannati alla pena ritenuta di giustizia. La Corte distrettuale, accogliendo il ricorso del P. , aveva mandato assolto quest’ultimo dalla imputazione a lui ascritta, non essendo risultato il suo concorso nella condotta delittuosa, mentre, confermata a carico del B. la sentenza di primo grado, aveva applicato nei confronti di quest’ultimo le sanzioni accessorie della interdizione di cui agli artt. 30 e 32-bis c.p. per tutta la durata della pena, nonché la pubblicazione della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 36 c.p., sanzioni queste la cui disposizione era stata omessa in sede di sentenza di primo grado. Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il B. , lamentando la illegittimità della stessa in quanto essa sarebbe stata fondata su presunzioni legate ad un giudizio di mera probabilità, senza tenere conto che non vi erano elementi per ritenere che il prevenuto non si fosse attenuto alla previsione legislativa che consente la duplicazione per uso personale di volumi entro il limite del 15% delle loro pagine. Ad avviso del ricorrente sarebbe stata viziata la motivazione della sentenza di primo grado anche con riferimento alla mancata qualificazione del fatto come di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis c.p Ulteriore motivo di censura riguarda il fatto che il giudice del merito avrebbe argomentato sulla base di quanto riferito da un teste, tale G. , il quale, per essere dipendente di una delle case editrici che hanno pubblicato i libri oggetto di memorizzazione su supporto digitale, sarebbe portatore di un interesse in ordine all’esito del giudizio. Infine il ricorrente ha lamentato il fatto che la Corte di appello abbia applicato ex officio la sanzione accessoria della interdizione dall’esercizio di una professione o di un’arte ovvero dagli uffici direttivi di un’impresa, sanzione omessa in primo grado, sebbene la sentenza non fosse stata impugnata sul punto dal Pm e sebbene la legge preveda tale sanzione accessoria come automatica per la sola violazione dell’art. 171-ter, comma 1, e non nel caso, quale è quello a lui contestato, di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 2. Considerato in diritto Il ricorso, complessivamente inteso, deve essere rigettato, posto che taluni motivi di impugnazione presentati avverso di esso sono risultati infondati mentre altri sono risultati immediatamente inammissibili. Con riferimento al primo di essi, ne rileva il Collegio l’evidente inammissibilità. I giudici del merito, con valutazione che è suscettibile di essere riconsiderata in questa sede solo nel caso in cui la stessa presentasse degli evidenti vizi di logicità nella ricostruzione del fatto, hanno ritenuto che l’attività svolta dal B. non fosse limitata alla occasionale riproduzione di poche pagine dei volumi da lui detenuti su supporto digitale ciò essi hanno accertato, in termini di assoluta plausibilità logica, sulla base della obbiettiva risultanza che il medesimo non solo era detentore della copia digitale di ben 480 volumi diversi, ciascuna riproducente un volume in uso nelle Università, nonché delle copie, già riprodotte, di altre pubblicazioni in uso nelle Università, ma aveva anche un listino prezzi, riferito ai prezzi di vendita di tali opere, nel quale il valore di ognuna di esse era indicato come pari a circa la metà del costo dell’opera originale elemento quest’ultimo che, logicamente, ha fatto ritenere che esso fosse riferito non al costo della possibile riproduzione di un numero di pagine non superiore al 15% dell’intero volume, ma al prezzo di vendita della abusiva duplicazione dell’intero volume. Tale inferenza logica è del tutto condivisibile non foss’altro perché, se così non fosse, il listino prezzi doveva essere espresso non in termini di costo complessivo ma, data la possibile multiforme varietà della domanda del numero delle pagine da riprodurre, esso doveva essere rapportato ad ogni singola pagina, salva la successiva moltiplicazione per il numero delle pagine di volta in volta richiesto. La Corte territoriale, nell’affermare la responsabilità del B. , non si è pertanto basata, come preteso dal ricorrente, SU incerti elementi indiziari, ma ha, invece, fondato il proprio giudizio su sicuri ed incontroversi fattori logici basati su dati della relatà. Infondato è, anche il secondo motivo di impugnazione, con il quale è contestata, sotto il profilo della illogicità o carenza della motivazione, la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. premessa, infatti, le natura sicuramente penale dell’illecito commesso dal prevenuto, osserva la Corte che le modalità sostanzialmente imprenditoriali con le quale il B. svolgeva la condotta costituente reato presupponendo, peraltro, esse una sistematica ripetitività della violazione della norma indicata nel capo di imputazione - rendono la fattispecie evidentemente esulante rispetto a quelle caratteristiche di minima offensività che la avrebbero dovuta segnalare laddove la stessa fosse stata qualificabile ai sensi dell’art. 131-bis c.p Il terzo motivo di ricorso è palesemente inammissibile. Esso è, infatti, per più ragioni del tutto generico il ricorrente, infatti, non solo omette del tutto di fornire una qualche indicazione sulla rilevanza che, ai fini del decidere, avrebbe avuto la testimonianza del teste indicato dalla sua difesa come teste inattendibile, ma fonda, senza alcuna concreta critica di contenuto ma in termini di indimostrato determinismo, la inattendibilità del teste in questione sulla esclusiva base del fatto che egli sia un dipendente di una delle case editrici che hanno pubblicato i testi riprodotti dal prevenuto. Sul punto non può non osservarsi altresì - al di là di ogni altra più specifica valutazione sulla astratta piena capacità a testimoniare nel processo penale della stessa parte offesa dal reato per cui, nei singoli giudizi, di volta in volta si procede, e ciò anche laddove la stessa si sia costituita parte civile che nel caso in esame il teste dichiarante è un mero dipendente della casa editrice in questione, quindi egli non è neppure portatore di un qualche interesse diretto all’esito del giudizio unica situazione che, in linea di principio, avrebbe potuto giustificare una più approfondita valutazione in ordine alla attendibilità di quanto dallo stesso riferito. Infondato è, infine, anche l’ultimo motivo di ricorso, riguardante la lamentata reformatio in pejus derivante dal fatto che, sebbene non vi fosse stata alcuna impugnazione da parte della pubblica accusa, la Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha irrogato, motu proprio, la sanzione accessoria della interdizione del B. dagli uffici di cui agli artt. 30 e 32-bis c.p., sebbene la stessa non fosse stata applicata dal giudice di primo grado con la sentenza di appello, come già dianzi rilevato, è stata anche disposta la pubblicazione della decisione a carico dell’imputato, ai sensi dell’art. 36 c.p., ma di tale forma, aggiuntiva quanto le altre, di sanzione accessoria il ricorrente non ha, comunque, inteso lamentarsi . Ha osservato, infatti, il ricorrente che neppure può ritenersi che la misura da lui censurata sia un effetto automatico della sentenza di condanna, e come tale legittimamente adottata dalla Corte pur in assenza di impugnazione pubblica, in quanto la sanzione in questione è riferita, in termini di puro automatismo, alla sola condanna per il reato di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 1 laddove nella specie la contestazione mossa al B. aveva ad oggetto la violazione del comma 2 della disposizione in questione. La censura non ha pregio. Deve, sotto il profilo della priorità logica dell’argomentare, essere ribadito il principio che non vi è violazione del divieto di reformatio in pejus laddove in grado di appello sia stata applicata, in aggiunta alla conferma della sentenza di condanna, una pena accessoria immediatamente derivante dalla legge, omessa dal giudice di primo grado, sebbene la sentenza non fosse stata sul punto oggetto di impugnazione da parte della pubblica accusa. Come, infatti, è stato precisato dalla Corte, non viola il principio della reformatio in pejus la sentenza del giudice di appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, erroneamente non disposta in primo grado, qualora, attesi i caratteri del reato attribuito all’imputato, essa sia prevista espressamente quale conseguenza necessaria della condanna per quel reato Corte di cassazione, Sezione II penale, 29 marzo 2017, n. 15806 idem Sezione VI penale, 20 dicembre 2012, n. 49759 . Sciolto questo primo dilemma, si tratta, pertanto, di verificare se, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la condanna per la violazione imputata al B. comporti ex necessitate l’applicazione quali sanzioni accessoria delle interdizioni sancite dalla Corte ambrosiana. È, a tale riguardo, opportuno compiere una breve analisi testuale della normativa rilevante. Infatti, prevede la L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 4, che, testualmente, la condanna per uno dei reati previsti nel comma 1 comporta a l’applicazione delle pene accessorie di cui agli artt. 30 e 32-bis c.p. b la pubblicazione della sentenza ai sensi dell’art. 36 c.p. . A sua volta l’art. 171-ter, comma 1, della legge citata, nell’elencare le numerose modalità naturalistiche in cui si può realizzare il reato da detta norma previsto, punisce, fra l’altro, la condotta di chi abusivamente riproduce, trasmette o diffonde in pubblico, con qualsiasi procedimento, opere o parti di opere letterarie, drammatiche, scientifiche o didattiche, musicali o drammatico-musicali, ovvero multimediali, anche se inserite in opere collettive o composite o banche dati . Sostiene il ricorrente che, tuttavia, a lui non è stata contestata una siffatta violazione ma quella prevista e punita dal comma 2 della medesima disposizione, in particolare alla lett. b , sicché sarebbe stata ingiustificata la applicazione automatica della sanzione accessoria interdittiva, atteso che questa è prevista per la violazione delle sole disposizioni di cui al comma 1. La L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 2, prevede, infatti, che è punito con una sanzione detentiva e pecuniaria più grave di quella ordinariamente prevista per la violazione delle condotte indicate nel precedente comma 1, chi esercitando in forma imprenditoriale attività di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi, si rende colpevole dei fatti previsti dal comma 1 . È, pertanto, evidente che il legislatore, alla L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 2 ha inteso richiamare la colpevolezza, aggravandone gli effetti, per una delle condotte già sanzionate dal comma 1 della medesima disposizione, facendo derivare la condanna, maggiormente afflittiva, dal fatto che siffatte condotte siano state poste in essere nell’esercizio di una impresa. Interpretando, pertanto, sistematicamente il complessivo blocco normativo or ora descritto, risulta evidente che anche la condanna alla pena prevista dall’art. 171-ter citato, comma 2 consegue, salva la qualifica soggettiva dell’agente, che deve essere un imprenditore nell’esercizio della sua attività, alla commissione di una delle condotte previste dal comma 1 della disposizione in questione ad essa, pertanto, conformemente alla previsione dettata dal medesimo art. 171-ter, comma 4 consegue la automatica applicazione delle sanzioni accessorie interdittive indicate da detta ultima disposizione. L’automatismo di tale applicazione, per come già dianzi rilevato, esclude la violazione del principio del divieto di reformatio in pejus anche nel caso in cui esso sia il frutto della autonoma decisione del giudice del gravame che, in assenza di sollecitazione impugnatoria della pubblica accusa, abbia in tal modo posto riparo alla omissione in cui era incorso il giudice di primo grado. Il ricorso proposto deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente, visto l’art. 616 c.p.p., va condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.