La mancanza di interesse pubblico alla divulgazione della notizia comporta la sussistenza della diffamazione

Deve essere risarcita l’amante costituitasi parte civile nel procedimento penale aperto a carico della moglie tradita per le dichiarazioni offensive da quest’ultima pronunciate davanti a diverse persone in un supermercato. Tale condotta deve infatti essere inquadrata come diffamazione non sussistendo un interesse pubblico alla divulgazione della notizia, seppur veritiera.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 27616/19, depositata il 20 giugno. La vicenda. Il Tribunale di Lecce, in riforma della sentenza di prime cure del Giudice di Pace, assolveva l’imputata dai reati di diffamazione e minaccia, rispettivamente, perché il fatto non costituisce reato e perché il fatto non sussiste. Avverso tale pronuncia, propone ricorso per cassazione ai soli effetti civili la parte civile deducendo. Diffamazione. Escludendo ogni dubbio sull’insussistenza della minaccia, anche in virtù delle argomentazioni meramente fattuali su cui si basa il relativo motivo di ricorso, la Corte ritiene fondata la seconda censura attinente alla configurabilità del reato di diffamazione consistito nell’aver offeso pubblicamente la parte civile, amante del marito dell’imputata, alla presenza di più persone all’interno di un supermercato. Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di diffamazione, deve essere ritenuta lesiva della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito perché vietato da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione , ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio . Ed infatti se la tutela dell’onore trova radice nella dignità sociale che la Costituzione riconosce a ciascuno art. 2 Cost. con pari forza art. 3 Cost. tanto da costituire limite alla stessa iniziativa economica art. 41, comma 2 , non v’è dubbio che il diritto alla riservatezza, intesa quale limite alla curiosità sociale, deve essere letto ponendo al centro della riflessione l’art. 15 Cost., nonché gli artt. 2, 3, 13, 14 e 29 Cost. . In conclusione, anche a voler ritenere che la notizia della relazione extraconiugale della persone offesa fosse stata vera, non per questo poteva essere divulgata non sussistendo alcun interesse pubblico in tal senso. Accogliendo dunque il ricorso, la Corte cristallizza il principio di diritto secondo cui in tema di diffamazione, i valori della riservatezza e della dignità possono essere in qualche modo parzialmente compromessi” nel bilanciamento con il diritto all’informazione espresso dal pubblico interesse della notizia, ma non possono essere compromessi oltre la soglia imposta dalla destinazione della notizia a soddisfare un bisogno sociale, in particolar modo quando non vi sia alcun interesse pubblico alla divulgazione dell’informazione .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 11 febbraio – 20 giugno 2019, n. 27616 Presidente De Gregorio – Relatore Brancaccio Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento impugnato, datato 6.9.2017, il Tribunale di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Giudice di Pace di Otranto, ha assolto C.M. dai reati di diffamazione e minaccia nei confronti di R.A.G. , rispettivamente perché il fatto non costituisce reato e perché il fatto non sussiste. 2. Avverso tale provvedimento propone ricorso per cassazione, ai soli effetti civili, la parte civile R.A.G. tramite il proprio difensore e procuratore speciale, avv. Costantini, deducendo due motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo si argomenta violazione di legge con riguardo alla ritenuta insussistenza del reato di cui all’art. 612 c.p. e manifesta illogicità della motivazione della sentenza di assoluzione. Attraverso una diversa ricostruzione dei fatti analizzati nel provvedimento impugnato, si propone una chiave di lettura opposta di essi, nel senso della sussistenza della minaccia da parte dell’imputata nei confronti della ricorrente, essendo tale la prospettazione di rivelare la relazione di costei con il proprio coniuge ai genitori della R. ed al suo datore di lavoro. 2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce erronea applicazione dell’art. 595 c.p. e mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ritiene che la condotta posta in essere dall’imputata non costituisca il reato di diffamazione. Non vi sarebbe prova certa, secondo il Tribunale di Lecce, del fatto che la condotta di rivelazione della relazione sentimentale tra la persona offesa ed il marito dell’imputata sia avvenuta in presenza di più persone. Tuttavia, tale argomentazione è infondata perché invece molti sono stati i testimoni a riferire delle dichiarazioni diffamatorie rese contro la persona offesa dall’imputata D.D.M.D. , R.G. , M.V. e B.V. , i quali tutti hanno riferito che le offese rivolte a R.M.G. erano state pronunciate ad alta voce, in un luogo pubblico un supermercato , mentre dialogava con altre persone per attirare volutamente l’attenzione di tutte le persone presenti. Nessun dubbio anche che la divulgazione di notizie attinenti alla sfera personale e percepite come riprovevoli alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati configuri il reato di diffamazione, secondo anche gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Considerato in diritto 1. Il ricorso è parzialmente fondato. 2. Il primo motivo è inammissibile poiché formulato completamente in fatto e volto a richiedere una diversa lettura della ricostruzione probatoria prospettata dal provvedimento impugnato, non consentita in sede di legittimità. Pur adducendosi un difetto della struttura ricostruttiva in fatto e processuale della sentenza, si propongono, piuttosto, diversi approdi delle risultanze processuali e di prova e si chiede a questa Corte di legittimità, in ultima analisi, non già di pronunciarsi sulla bontà e correttezza del percorso motivazionale adottato dal provvedimento impugnato, bensì di valutarne l’esattezza degli snodi decisionali rispetto ad una alternativa ricostruzione della piattaforma fattuale utilizzata. Un’operazione siffatta non è consentita al giudice di legittimità che, come noto, vede l’orizzonte della sua verifica circoscritto alla ricerca di vizi logici ed argomentativi della sentenza, direttamente da essa desumibili nel confronto con i principi dettati dal diritto vivente per l’interpretazione delle norme applicate cfr. ex multis Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559 Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074 Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 . Inoltre, la sentenza applica correttamente i dettami interpretativi della Corte di legittimità in tema di configurabilità del reato di minaccia, che - si rammenta - nel caso di specie è stata contestata come prospettazione di un male ingiusto costituito dalla rivelazione della relazione extraconiugale tra la persona offesa e il marito dell’imputata e non ha riguardato affatto, come invece in qualche modo veicolato nel ricorso, una diversa condotta di minaccia di un male fisico. Per tale ragione, l’insussistenza del reato di minaccia ritenuta dal provvedimento impugnato per la mancata, reale prospettazione di un male effettivamente ingiusto ai danni della vittima appare esatta l’avvertimento di divulgare la relazione extraconiugale, in assenza di altre e diverse circostanze che imprimano una tangibile manifestazione di conseguenze negative e dannose che possano derivare alla persona offesa dalla condotta dell’autore di un tale avvertimento, non configura l’elemento della prospettazione di quel male ingiusto necessario ad integrare il reato di cui all’art. 612 c.p 2. Il secondo motivo di ricorso è fondato. Anzitutto deve premettersi che, secondo un condivisibile orientamento di questa Corte di legittimità, in tema di diffamazione, integra la lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio Sez. 5, n. 8348 del 25/10/2012, dep. 2013, Sez. 5, n. 40539 del 23/09/2008, Cibelli, Rv. 241739 . Al riguardo, si è rilevato che, se la tutela dell’onore trova radice nella dignità sociale che la Costituzione riconosce a ciascuno art. 2 Cost. con pari forza art. 3 Cost. tanto da costituire limite alla stessa iniziativa economica art. 41 Cost., comma 2 , non v’è dubbio che il diritto alla riservatezza, intesa quale limite alla curiosità sociale, deve essere letto ponendo al centro della riflessione l’art. 15 Cost., nonché gli artt. 2, 3, 13, 14 e 29 Cost Anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’art. 8, prevede, per quanto qui interessa, il diritto di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare , sicché si impone la necessità d’una interpretazione del sistema interno di garanzia dei diritti fondamentali conforme alle norme della Convenzione Europea, nel senso di privilegiare, anche con riferimento ai precetti costituzionali, una lettura che ne faccia emergere al meglio i valori considerati nella Convenzione stessa. Per tali ragioni, i valori della riservatezza e della dignità possono essere in qualche modo parzialmente compressi nel bilanciamento con il diritto all’informazione espresso dal pubblico interesse della notizia, ma non possono essere compromessi oltre la soglia imposta dalla destinazione della notizia a soddisfare un bisogno sociale Sez. 5, n. 46295 del 04/10/2007, Gambescia, Rv. 238290 . Nel caso di specie, dunque, anche se in ipotesi la notizia della relazione extraconiugale fosse stata corrispondente al vero, non per questo poteva essere divulgata, non essendovi alcun interesse pubblico e dovendo prevalere il rispetto della riservatezza della vita personale della persona offesa. Deve, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto in tema di diffamazione, i valori della riservatezza e della dignità possono essere in qualche modo parzialmente compressi nel bilanciamento con il diritto all’informazione espresso dal pubblico interesse della notizia, ma non possono essere compromessi oltre la soglia imposta dalla destinazione della notizia a soddisfare un bisogno sociale, in particolar modo quando non vi sia alcun interesse pubblico alla divulgazione dell’informazione. Tanto ribadito, il Tribunale ha ribaltato una sentenza di condanna con una motivazione insufficiente a dimostrare il proprio opposto convincimento. Pur ammettendo implicitamente la possibilità astratta del reato, il provvedimento impugnato, tuttavia, ha escluso, in pochissime battute, la sussistenza della prova certa che le frasi diffamatorie fossero intervenute alla presenza di più persone, senza aggiungere altro particolare al riguardo, con ciò contravvenendo all’obbligo di motivazione rafforzata che incombe sul giudice della riforma in appello, secondo la più condivisibile e recente giurisprudenza di legittimità. Tentando una sintesi degli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, costituisce affermazione condivisa quella secondo cui, mentre la condanna presuppone la certezza della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera certezza della non colpevolezza, non dovendosi superare alcun dubbio, in caso di assoluzione, essendo, invece, proprio il dubbio processualmente plausibile il canone logico alla base della pronuncia assolutoria cfr. Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066 Sez. 3, n. 46455 del 17/2/2017, M., Rv. 271110 e, da ultimo, autorevolmente, Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430, in motivazione . Le Sezioni Unite, nella citata e recente pronuncia n. 14800 del 2018, hanno da un lato evidenziato la insussistenza dell’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa decisiva in caso di overturning assolutorio, dall’altro, il dovere del giudice d’appello di offrire, in tal caso, comunque una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata principio applicabile in generale al ribaltamento della sentenza di condanna in primo grado, anche qualora non vi sia questione di valutazione di prove dichiarative . L’obbligo di motivazione puntuale ed adeguata in cui riecheggia, pur con sfumature in parte differenti, quello della motivazione rafforzata declinato da una parte delle pronunce sul tema cfr. Sez. 5, n. 6880 del 26/10/2016, dep. 2017, D L, Rv. 269523 Sez. 3, n. 29253 del 5/5/2017, C., Rv. 270149 diviene, dunque, imprescindibile canone ricostruttivo della sentenza di overturning assolutorio. Ciò avvalora definitivamente la tesi, già presente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice d’appello, che intenda ribaltare la sentenza di condanna in assoluzione, è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera puntuale e compiuta, dando ragione delle difformi conclusioni assunte, nonostante in tal caso non vi sia questione relativa al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio Sez. 3, n. 29253 del 5/5/2017, C., Rv. 270149 Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016, Mangano, Rv. 268948 Sez. 6, n. 46742 del 8/10/2013, Hamdi Ridha, Rv. 257332 . Anche quando si deve riformare, dunque, una sentenza di condanna in pronuncia assolutoria è necessario mettere in luce le carenze o le aporie della decisione di primo grado, che ne giustificano l’integrale riforma Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327 . Ciò risponde, peraltro, all’insegnamento di Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679 che, con affermazione pacificamente poi ribadita, avvertiva il giudice di appello, il quale riformi totalmente la decisione di primo grado, dell’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato. Nel caso di specie, il fatto che il giudice d’appello - al fine di motivare la propria pronuncia di assoluzione - abbia argomentato sulla possibilità di una ricostruzione alternativa, non confrontandosi specificamente con molti dei punti motivazionali principali della prima sentenza e, ciò che più conta, non offrendo una idonea, appagante differente motivazione, in grado di mettere in luce aporie o contraddizioni della prima pronuncia, confligge con gli orientamenti di legittimità sopradetti. La sentenza, pertanto, limitatamente a tale reato, va annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello, trattandosi di impugnazione della sola parte civile. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili limitatamente al delitto di diffamazione e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.