Le difficoltà economiche non escludono la punibilità, se…

In tema di peculato relativo ad imposta di soggiorno, non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo, ove questi non sia in grado di fornire la prova che per lui non sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni relative a detta imposta, dovendo dimostrare di aver posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli al suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare le somme indispensabili per assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.

Lo ha ribadito la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19925/19, depositata il 9 maggio. Peculato ed imposta di soggiorno La tassa di soggiorno è un’imposta di carattere locale – disciplinata all’art. 4 d.lgs. n. 23/2011 – che viene applicata a carico di soggetti che alloggiano nelle strutture ricettive, in territori classificati come località turistica” o città d’arte”. La tassa di soggiorno viene considerata quale imposta di scopo, essendo le risorse derivanti dai flussi turistici territoriali destinate per sostenere l’attività turistica in detto territorio. Orbene, secondo la Cassazione, l’albergatore che non versa all’Erario l’imposta di soggiorno è colpevole di peculato. In particolare, l'imprenditore del settore turistico-alberghiero va ritenuto come un incaricato di pubblico servizio, nel momento in cui riceve la tassa di soggiorno di competenza del Comune. Tuttavia, l'albergatore può sostenere di aver commesso l'errore in buona fede, specie in caso di mancata comunicazione trimestrale degli importi agli uffici comunali, e senza aver trattenuto il denaro. e la scriminante dello stato di bisogno economico. La sentenza in commento si pone nel solco della recente giurisprudenza di legittimità formatasi nelle analoghe fattispecie di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed in quella di omesso versamento dell’IVA, secondo cui l’irrilevanza penale dello stato di illiquidità finanziaria del contribuente trova il proprio limite nella forza maggiore, e segnatamente nella prova, a carico dell’imputato, della situazione di oggettiva impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili. Inoltre, l'esimente dello stato di necessità postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l'atto penalmente illecito, e non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora ad esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti. Ad esempio, con riguardo a fattispecie di furto, la Suprema Corte ha stabilito che la situazione di indigenza non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale. Ed ancora, in tema di usura, lo stato di bisogno viene inteso non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie, non assumendo alcuna rilevanza né la causa di esso, né l'utilizzazione del prestito usurario.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 7 febbraio – 9 maggio 2019, n. 19925 Presidente Petruzzellis – Relatore Rosati Ritenuto in fatto 1. G.T.V.G. , per il tramite del suo difensore di fiducia, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 3 luglio 2018, che ha confermato la condanna inflittale dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, all’esito di giudizio abbreviato, il 22 ottobre 2015, per il delitto di peculato art. 314 c.p. , per aver ella omesso di riversare al Comune di quella città, nella sua qualità di legale rappresentante di una società esercente attività alberghiera, le somme riscosse dai clienti a titolo di imposta di soggiorno , da gennaio a giugno del 2013. 2. La difesa ricorrente articola due motivi di doglianza, entrambi sotto il profilo della violazione di legge. 2.1. Con il primo, lamenta l’errata interpretazione dell’art. 54 c.p., da parte del giudice del gravame, il quale non ha ritenuto integrata tale fattispecie scriminante, pur in presenza di una situazione di grave crisi di liquidità finanziaria, quale quella in cui versava la società rappresentata dall’imputata, reputando altresì sfornita di adeguata dimostrazione la relativa allegazione, benché suffragata da ampia documentazione. 2.2. Con il secondo, contesta l’attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio all’esercente attività alberghiera, in relazione alla riscossione della c.d. imposta di soggiorno . Considerato in diritto 1. Entrambi i motivi di ricorso, per un verso, sono generici, poiché replicano le doglianze rassegnate al giudice d’appello, senza confrontarsi con le ragioni poste da quest’ultimo a fondamento del rigetto di esse e, per l’altro, sono privi di giuridico fondamento. 2. Tanto dicasi, anzitutto, per l’invocato riconoscimento della scriminante dello stato di necessità, di cui all’art. 54 c.p 2.1. Correttamente, infatti, la Corte d’appello ha ritenuto che tale esimente postuli il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l’atto penalmente illecito, così che essa non può applicarsi ai reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora a questo possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti Sez. 3, n. 35590 del 11/05/2016, Rv. 267640 in termini, pure Sez. 5, n. 3967 del 13/07/2015, Rv. 265888, che ha escluso detta causa di giustificazione finanche in presenza di una situazione di indigenza, sul presupposto che alle esigenze delle persone che versino in tale stato sia possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale, con conseguente difetto degli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo . 2.2. Del resto, siffatta lettura normativa trae ulteriore conferma dalla giurisprudenza di legittimità formatasi nelle materie degli obblighi previdenziali e dell’imposizione tributaria diretta, che disciplinano condotte del tutto analoghe, sotto il profilo in esame, a quella oggetto di giudizio. È indiscusso, infatti, che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali sia integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere il versamento delle ritenute all’erario, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare Sez. 3, n. 43811 del 10/04/2017, Rv. 271189 Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007, Rv. 237827 . Così, pure, nell’ipotesi di omesso versamento di ritenute certificate D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis , la colpevolezza del sostituto d’imposta non si ritiene esclusa dalla crisi di liquidità intervenuta al momento della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale relativa all’esercizio precedente, a meno che l’imputato non dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Rv. 258055 . E può essere altresì utile rammentare - in una visione sistematica dell’ordinamento penale - come, nel tracciare la linea di demarcazione tra stato di necessità , inteso come quello tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta , e stato di bisogno , rilevante in tema di usura e rappresentato da un impellente assillo, che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie , questa Corte abbia ricondotto a tal ultima situazione, e non alla prima, le difficoltà economiche connesse alla attività professionale o imprenditoriale Sez. 2, n. 10795 del 16/12/2015, Rv. 266162 . 2.3. Nella fattispecie in rassegna, la ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui la situazione di grave difficoltà economica sia stata prospettata in termini generici e sfornita di adeguata allegazione pag. 3, sent. , assumendo di aver prodotto le sentenze di fallimento e corposa documentazione attestante le difficoltà aziendali . Tuttavia, essa non allega né indica specificamente in ricorso tale documentazione, e neppure specifica natura e consistenza delle rappresentate difficoltà . Ma, soprattutto, non v’è il benché minimo cenno alla obiettiva impossibilità di ovviare altrimenti alla carenza di liquidità, mediante, ad esempio, il ricorso al prestito bancario o la alienazione di eventuali cespiti patrimoniali di proprietà. 2.4. Non v’è spazio alcuno, pertanto, per ipotizzare la fattispecie scriminante di cui al citato art. 54 la decisione impugnata, sul punto, dev’essere perciò confermata. 3. Egualmente dicasi con riferimento alla qualifica di incaricato di pubblico servizio della ricorrente. 3.1. La relativa quaestio iuris è stata già esaminata da questa Corte, che, all’esito di una compiuta ricostruzione della relativa disciplina, anche di tipo regolamentare, ha ritenuto sussistente la qualità di incaricato di pubblico servizio del gestore di struttura ricettiva residenziale, che, anche in assenza di un preventivo specifico incarico da parte della pubblica amministrazione, procede alla riscossione dell’imposta di soggiorno per conto dell’ente comunale, trattandosi di agente contabile, e non di un sostituto di imposta, il quale svolge un’attività ausiliaria nei confronti dell’ente impositore ed oggettivamente strumentale all’esecuzione dell’obbligazione tributaria intercorrente esclusivamente tra il Comune ed il soggetto che alloggia nella struttura ricettiva. Il denaro - ha spiegato la Corte - entra nella disponibilità della pubblica amministrazione nel momento stesso dell’incasso dell’imposta di soggiorno, cosicché ogni imputazione delle somme riscosse dai contribuenti alla copertura di voci di altra natura, esulanti dal fine pubblico per il quale sono state versate e ricevute, integra la condotta appropriativa di cui all’art. 314 c.p. Sez. 6, n. 32058 del 17/05/2018, Rv. 273446 recentemente ribadita da Sez. 6, 13/11/2018, Fiorio, non massimata . 3.2. Peraltro, lungo il medesimo crinale interpretativo, e sulla base di analoghi argomenti, si sono collocate anche la giurisdizione civile e quella contabile, nei rispettivi massimi consessi. Le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, con ordinanza n. 19654 del 24/07/2018, Rv. 649978, hanno, infatti, statuito che, tra il gestore della struttura ricettiva ed il Comune, s’instaura un rapporto di servizio pubblico con compiti eminentemente contabili, che implicano il maneggio di denaro pubblico per cui ogni controversia intercorrente con l’ente impositore, avente ad oggetto la verifica dei rapporti di dare e avere, e il risultato finale di tali rapporti, dà luogo ad un giudizio di conto, sul quale sussiste, pertanto, la giurisdizione della Corte dei Conti. Ed anche quest’ultima Sezioni riunite in sede giurisdizionale, sent. n. 22 del 22/09/2016 ha avuto modo di precisare che, nella struttura dell’imposta di soggiorno, il rapporto tributario intercorre esclusivamente tra il comune soggetto attivo e colui che alloggia nella struttura ricettiva soggetto passivo , mentre il gestore di quest’ultima ha il solo obbligo di incassare l’imposta per versarla al comune e, pertanto, assume la funzione di agente contabile del comune ed è tenuto alla resa del conto giudiziale. 3.3. Tanto premesso, il ricorso non offre spunti per discostarsi da tali autorevoli precedenti, né si rinvengono altrove elementi che possano giustificare una diversa lettura normativa. Alla quale, dunque, anche questo Collegio ritiene di conformarsi. 4. Sulla scorta di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile. Da tanto consegue - ai sensi dell’art. 616 c.p.p. - la condanna della proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000 . Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.