Pena estinta e ordine di scarcerazione: per l’equa riparazione ci sono termini decadenziali

L’esecuzione di un ordine di carcerazione originariamente legittimo ma relativo ad una pena risultante estintasi, in ragione del lungo arco temporale intercorso tra l’emissione del titolo e la sua esecuzione, determina l’ingiustizia della detenzione sofferta e, dunque, la configurabilità del diritto all’equa riparazione, da azionare – senza deroghe – entro i termini decadenziali di legge rectius della Consulta sentenza Corte Cost. n. 310/1996 .

Lo ha stabilito la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5917, depositata in cancelleria il 7 febbraio 2019. Pena estinta, detenzione ingiusta. Nel caso di specie, un uomo ha visto rigettare il proprio ricorso volto ad ottenere equa riparazione, da parte dello Stato italiano, per l’ingiusta detenzione patita segnatamente, detenzione scontata nonostante l’intervenuta prescrizione della pena . Secondo la Corte d’Appello, infatti, il ricorso sarebbe risultato inammissibile, per tardività, in ragione dell’eccessivo tempo trascorso tra il provvedimento di scarcerazione e la data di effettivo deposito del riscorso 4 anni circa . La difesa ha reiterato la propria richiesta dinanzi ai Giudici di legittimità. Alla Suprema Corte è stato domandato di annullare la decisione emessa dai Giudici del merito siccome – in maniera del tutto immotivata – essi avrebbero data per assodata la piena consapevolezza del ricorrente circa l’ingiusta detenzione in occasione del giorno della scarcerazione. In altri termini, secondo la difesa, non vi era prova che all’atto della scarcerazione il ricorrente fosse consapevole delle ragioni giuridiche sottostanti al suo fine pena” e, in particolare, della natura ingiusta della detenzione sino a quel momento patita. Né - si è aggiunto - pareva ammissibile immaginare che il ricorrente - persona peraltro anziana settantasettenne in epoca della scarcerazione - potesse conoscere il proprio diritto, ai sensi dell’art. 314, c.p.p., a rivolgersi alla Corte d’Appello, entro il termine di 2 anni, per l’ottenimento del ristoro. Ricordo tardivo, senza sconti. I Giudici capitolini - nel dirimere la vicenda - hanno seccamente rigettato il ricorso, confermando l’esito raggiunto dai giudici della Corte d’appello. Le motivazioni della Suprema Corte sono immediate, e si riassumono in un noto brocardo ignorantia legis non excusat ” i.e. la legge non ammette ignoranza . Insomma, nessuno sconto – nemmeno per un settantasettenne, ingiustamente sottoposto a detenzione carceraria – a fronte della pur totale inconsapevolezza di quanto previsto dall’ordinamento nel caso di specie, i termini decadenziali per l’esercizio di un diritto . Anche quando tale termine decadenziale - di fatto - non è scritto nel codice di procedura penale , ma in una sentenza della Consulta, giusta Corte Cost. n. 310/1996. In effetti, la pronuncia in epigrafe tiene a rimarcare la piena spettanza – proprio in forza della storica sentenza appena citata - del ristoro statale per colui che sia stato ingiustamente detenuto in forza di un provvedimento di esecuzione illegittimo, al pari di chi come espressamente previsto all’art. 314, c.p.p. abbia subito una custodia cautelare illegittima. Sotto tale versante la Corte ribadisce un importante principio, vale a dire che l’esecuzione di un ordine di carcerazione originariamente legittimo ma relativo ad una pena risultante estintasi, in ragione del lungo arco temporale intercorso tra l’emissione del titolo e la sua esecuzione, determina l’ingiustizia della detenzione sofferta e, dunque, la configurabilità del diritto all’equa riparazione che - si ripete - va tuttavia azionato entro il termine decadenziale di cui all’art. 314, cit Ciò - beninteso - a prescindere da quanto espressamente previsto dall’art. 314, cit. giusto l’effetto integrativo del suo disposto ad opera della decisione della Consulta.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 ottobre 2018 – 7 febbraio 2019, n. 5917 Presidente Izzo – Relatore Cenci Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 13-14 febbraio 2018 la Corte di appello di Roma ha dichiarato inammissibile la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione che era stata avanzata con atto depositato il 19 gennaio 2016 nell’interesse di S.G. , il quale era stato ristretto in esecuzione pena dall’8 marzo 2011 all’11 maggio 2012, malgrado la pena fosse estinta per prescrizione, come accertato con provvedimento - ordine di scarcerazione - adottato dalla Procura generale della Corte di appello di Roma il 10 maggio 2012, appunto, per estinzione della pena ai sensi dell’art. 172 cod. pen., eseguito il giorno seguente. 2. La ragione della inammissibilità dichiarata dalla Corte di appello sta nella ritenuta tardività dell’istanza del 19 gennaio 2016 rispetto alla data della conoscenza da parte di S. della ingiustizia della detenzione, conoscenza che si è ritenuto essersi verificata l’11 maggio 2012, quando cioè venne data esecuzione al provvedimento di scarcerazione, per avvenuta prescrizione della pena in espiazione, emesso il giorno precedente dalla Procura generale. 3. Ricorre per la cassazione dell’ordinanza S.G. , tramite difensore, che denunzia difetto motivazionale, sotto i profili della mancanza e della manifesta illogicità della stessa. In particolare, censura la collocazione l’11 maggio 2012, coincidente con la data della scarcerazione, della conoscenza da parte del ricorrente della ingiustizia della detenzione patita, alla stregua dei seguenti argomenti la conoscenza della possibilità da parte di S. di adire la Corte di appello per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione non sarebbe dimostrata in alcun modo ci si troverebbe in presenza di un caso del tutto particolare, quale l’ingiustizia subita in sede di esecuzione la Corte costituzionale ha, in effetti, ampliato l’originaria previsione dell’art. 314 cod. proc. pen., che in origine non prevedeva il diritto all’equa riparazione in caso di erroneo ordine di esecuzione ma - osserva il ricorrente - a tutt’ora la norma non riporta la possibilità di adire la Corte di Appello in caso di pena illegittimamente sofferta in executivis, infatti la sentenza del Giudice delle leggi viene riportata soltanto in calce a tale articolo così alle pp. 2-3 del ricorso inoltre, Nel momento in cui S. venne scarcerato non sapeva minimamente della possibilità di ricorrere per riparare alla ingiustizia subita , non è stato informato da alcuno di poter esercitare il suo diritto nel termine di due anni e la data certa in cui S. viene a conoscenza della possibilità di ricorso ex art. 314 c.p.p. è la data della nomina del difensore che è del 19/09/2014 così alla p. 3 del ricorso la decisione non tiene neanche conto del fatto che il ricorrente quando venne scarcerato era persona anziana è nato nel 1945 per cui vi può essere una presunzione di non conoscenza stante anche la particolarità della vicenda p. 3 del ricorso l’ordinanza, infine, prenderebbe atto della singolarità del caso, compensando le spese. Si invoca, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. 3. Il Procuratore generale della S.C., nella requisitoria scritta ex art. 611 cod. proc. pen. del 27-30 luglio 2018 ha chiesto il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. 1.1.Le ragioni della pretesa illegittimità delle decisione, infatti, sono prive di fondamento. Esse consisterebbero o nella mancanza di adeguamento da parte del legislatore della formulazione testuale dell’art. 314 cod. proc. pen. alla sentenza della Corte costituzionale n. 310 del 25 luglio 1996, decisione che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione o nella mancata conoscenza soggettiva da parte dell’imputato, peraltro non informato da alcuno, del diritto di attivare, entro il termine biennale, l’istituto previsto dagli artt. 314-315 cod. proc. pen. o nella asserita peculiarità della situazione, essendo, tra l’altro, l’imputato sessantasettenne al momento della scarcerazione. Ne conseguirebbe, in tesi di parte ricorrente, la necessità di fissare la conoscenza della possibilità di avanzare ricorso ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen. alla data della nomina del difensore, avvenuta il 19 settembre 2014. 1.2.Osserva il Collegio che, secondo elementare nozione di teoria generale, la pubblicazione delle sentenze della Corte costituzionale nel caso di specie, di illegittimità parziale produce i suoi effetti ex se, a prescindere dalla circostanza che il legislatore modifichi, adeguandosi alle stesse, il testo originario della norma ed anche a prescindere dalla circostanza, invero del tutto irrilevante, che le raccolte private denominate codici richiamino o meno in nota gli interventi della Consulta nel caso di specie, peraltro, la sentenza additiva, la n. 310 del 1996, è di gran lunga antecedente ai fatti. Nessun rilievo ha la effettiva conoscenza soggettiva delle norme di diritto da parte dell’imputato, secondo la fondamentale regola posta dall’art. 5 cod. pen. compendiata nel tradizionale brocardo ignorantia legis non excusat . Peraltro l’età, definita anziana del ricorrente al momento della scarcerazione, non è, di per sé, elemento di possibile significatività nel senso della ipotetica emersione di una ipotetica ragione di ignoranza inevitabile, ergo scusabile cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 364 del 24 marzo 1988 , tema, peraltro, nemmeno introdotto dal ricorrente. 1.3. In definitiva, essendo erronea, non solo in fatto ma anche in diritto, la premessa del ragionamento del ricorrente, erronea è anche la conclusione che si pretende di trarne, in quanto, in realtà, a seguito dell’intervento additivo della Consulta con la richiamata sentenza n. 310 del 25 luglio 1996, l’art. 314 cod. proc. pen. include il diritto all’equa riparazione non soltanto per la custodia cautelare, come recita testualmente la norma, che costituisce un assoluto novum, non essendo l’istituto, a differenza della riparazione dell’errore giudiziario artt. 643 c.p.p. e ss. , previsto dal previgente codice di rito, ma anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di illegittimo ordine di esecuzione. Infatti, nella motivazione della richiamata decisione della Corte costituzionale al punto n. 4 del considerato in diritto si legge che L’art. 314 cod. proc. pen. stabilisce che chi e stato prosciolto con sentenza irrevocabile perche il fatto non sussiste, per non avere commesso il fatto, perche il fatto non costituisce reato o non e previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura e stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilita previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen Le disposizioni citate si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere. Nulla è detto dell’ipotesi in cui la detenzione sia stata causata da un ordine di esecuzione illegittimo. E la diversita della situazione di chi abbia subito la detenzione a causa di una misura cautelare, che in prosieguo sia risultata iniqua, rispetto a quella di chi sia rimasto vittima di un ordine di esecuzione arbitrario non e tale da giustificare un trattamento cosi discriminatorio, al punto che la prima situazione venga qualificata ingiusta e meritevole di equa riparazione e la seconda venga invece dal legislatore completamente ignorata. La disparita di trattamento tra le due situazioni appare ancor piu manifesta, se si considera che la detenzione conseguente ad ordine di esecuzione illegittimo offende la liberta della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta. La scelta legislativa risulta oltretutto ingiustificata anche alla luce della L. 16 febbraio 1987, n. 81 Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale , dove, al punto 100 dell’art. 2, comma 1, e prefigurata, accanto alla riparazione dell’errore giudiziario, vale a dire del giudicato erroneo gia oggetto della disciplina del codice previgente , anche la riparazione per la ingiusta detenzione cio che lascia trasparire l’intento del legislatore delegante di non introdurre, su questo piano, ingiustificate differenziazioni tra custodia cautelare ed esecuzione di pena detentiva. Lo stesso art. 2 della citata legge di delegazione, nel prevedere che il nuovo codice si debba adeguare alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale, depone nel senso della non discriminazione tra le due situazioni, giacche proprio la convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta fondamentali, ratificata dall’Italia con la L. 4 agosto 1955, n. 848, prevede espressamente, all’art. 5, il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta. L’obliterazione della ingiusta detenzione patita in seguito a ordine di esecuzione illegittimo costituisce una autonoma ed arbitraria scelta del legislatore delegato - contrastante con gli artt. 3 e 24 Cost. - alla quale questa Corte deve ovviare con la dichiarazione della illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen., nella parte in cui non include questa fattispecie fra le situazioni che fanno sorgere il diritto alla equa riparazione. Non fornisce argomenti in senso contrario all’accoglimento della questione la L. 13 aprile 1988, n. 117 Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilita civile dei magistrati . In questa legge, infatti, è espressamente previsto, all’art. 14, che le disposizioni in essa contenute non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione. L’autonomia, positivamente stabilita, tra azione risarcitoria e azione riparatoria per l’ingiusta detenzione rende evidente che privare di quest’ultima azione la persona colpita da un ordine di esecuzione erroneamente emesso significa introdurre una discriminazione, che i principii costituzionali invocati dal giudice a quo non possono tollerare . 1.4. Deve, quindi, in definitiva, affermarsi, come si desume anche da recente giurisprudenza di legittimità che si è pronunciata in relazione a fattispecie non sovrapponibile ma regolata dalla stessa ratio Sez. 4, n. 45247 del 20/10/2015, P.G. in proc. Myteveli, secondo cui L’esecuzione di un ordine di carcerazione originariamente legittimo ma relativo ad una pena risultante estintasi, in ragione del lungo arco temporale intercorso tra l’emissione del titolo e la sua esecuzione, determina l’ingiustizia della detenzione sofferta e, dunque, la configurabilità del diritto all’equa riparazione , che non vi è dubbio che possa costituire titolo legittimante il diritto alla equa riparazione ex art. 314 cod. proc. pen. la detenzione ingiustamente patita a causa di ordine di esecuzione illegittimo, essendo la pena estinta per decorso del tempo ai sensi dell’art. 172 cod. pen 1.5. In conseguenza, corretta è la presa d’atto da parte della Corte di appello della tardività della richiesta, avanzata il 19 gennaio 2016 a fronte di una conoscenza che deve temporalmente collocarsi l’11 maggio 2012, data della notificazione del provvedimento della Procura generale. 2. Discende dalle considerazioni svolte la decisione in dispositivo, con condanna del ricorrente, per legge art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.