Ricorso per cassazione: quali i limiti del giudizio di legittimità?

Inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciando un errore logico o giuridico determinato, si manifestano in realtà quali prive dell’imprescindibile requisito della specificità.

Il caso. La Corte di Appello di Milano confermava la sentenza con cui il Giudice di prime cure aveva affermato la penale responsabilità di V.P.C. per il reato di cui all’art. 186, commi 1 e 2, lett. c , c.d.s. e lo aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia. Avverso la decisione de qua ricorreva pe cassazione l’imputato deducendo, attraverso plurimi motivi di gravame, violazione di legge e vizio motivazionale della sentenza impugnata. La Suprema Corte di Cassazione, nel dichiarare la inammissibilità di tutti i motivi di ricorso, ha avuto modo di riprendere ed ulteriormente precisare quelli che sono i limiti al sindacato di legittimità e, per l’effetto, quelli che sono i rigidi parametri impugnativi a cui il ricorrente deve sottostare nel ricorrere per Cassazione pena la declaratoria di inammissibilità del relativo ricorso. La mancanza di specificità del motivo. In via preliminare, chiariscono i Supremi Giudici, le censure in fatto già avanzate in sede di appello non sono, sic et simpliciter , riproponibili in sede di legittimità, specie nel caso in cui le stesse siano state disattese con motivazione del tutto coerente, logica ed adeguata. Infatti, è principio di diritto assolutamente consolidato quello secondo cui debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, ex art. 591, comma 1, lett. c , c.p.p., alla inammissibilità dell’impugnazione. Il riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p Il riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto non è di per se stesso precluso dalla esistenza di precedenti penali gravanti sull’imputato, pur quando, sulla base di essi, si sia applicata una pena superiore al minimo edittale, atteso che i parametri di valutazione di cui all’art. 131- bis c.p. hanno natura e struttura oggettiva, ed operano su un piano diverso da quelli sulla personalità del reo. Donde, anche la presenza di un unico precedente specifico non pare giustificare il richiamo all’abitualità del reato, quale condizione ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità de qua. Tuttavia, la Corte di merito, ha dato atto di avere adeguatamente valutato il fatto in sé e, in particolare, l’elevato tasso alcolemico riscontrato pertanto, la sentenza di merito, ha fatto buon governo del principio giurisprudenziale secondo cui il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133 comma I c.p., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo. La concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il diniego di tale invocata concessione è stato, dai Giudici di merito, motivato sul presupposto argomentativo afferente la negativa valutazione dei precedenti penali gravanti sull’imputato. Ergo, una simile motivazione si manifesta quale esente da vizi e pienamente rientrante nell’alveo dei principi giurisprudenziali inerenti la concessione o meno delle circostanze ex art. 62- bis c.p. in particolare, è orientamento consolidato della Corte di legittimità quello per il quale ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione in ordine al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione. Infatti, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione dello stesso può essere sufficiente in tal senso.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 gennaio – 7 febbraio 2019, numero 5895 Presidente Piccialli – Relatore Pezzella Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente V.P.C. , con sentenza del 15/5/2018 confermava la sentenza emessa in data 28/9/2017 dal GUP del Tribunale di Milano che, in sede di giudizio abbreviato che aveva fatto seguito all’opposizione a decreto penale di condanna lo aveva condannato alla pena di mesi tre di arresto ed Euro 750 di ammenda, con la sospensione della patente per anni due, per il reato di cui all’art. 186, commi 1 e 2, lett. c tasso alcolemico riscontrato 1,72 g/l e 1,74 g/l , fatto commesso in omissis . 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, il V. , deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1. Con un primo motivo di ricorso, viene denunciata mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e violazione ed erronea applicazione dell’art. 42 c.p., con riferimento al capo e punto della sentenza in cui è stata confermata la responsabilità dell’imputato, ritenuta l’infondatezza del primo motivo di appello relativo all’insussistenza dell’elemento psicologico. Il ricorrente ricorda che in sede di gravame del merito aveva lamentato come il GUP avesse operato una ricostruzione degli accadimenti non conforme alle emergenze, che inficiava la validità delle conclusioni tratte, quanto alla sussistenza del reato. Aveva lamentato, in particolare, che il primo giudice avesse ignorato che il V. si fosse posto alla guida dell’auto avendo percepito che gli operanti gli richiedessero di spostarla o quanto meno che lo avesse fatto con il loro avallo e, per ciò stesso, nel convincimento, indotto proprio dall’operato degli agenti, di essere legittimato a guidare l’auto fino al vicino parcheggio. Ed invece, ove opportunamente considerato, ciò avrebbe condotto a ritenere doverosa l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, profilandosi un’evidente ipotesi di buona fede dell’agente, idonea ad escludere la sussistenza dell’elemento psicologico della fattispecie contravvenzionale contestata. Ebbene, ci si duole che la doglianza risulti, invero, presa in esame dal giudice di secondo grado solo apparentemente e che la valutazione di infondatezza rimanga affidata ad affermazioni di mero stile, contraddittorie ed incongrue. La contraddittorietà della motivazione si mostrerebbe laddove la corte d’appello assume essere esente da censure la ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza di primo grado, ma, poi, in concreto smentisce in toto tale assunto nel successivo passaggio della motivazione, ove tratteggia i termini dell’accaduto proprio nel senso prospettato dalla difesa, piuttosto che nei termini errati e parziali indicati dal Giudice di primo grado. Ciò in quanto è la stessa Corte di Appello a dare testualmente atto, con riferimento al punto di nodale interesse, che, secondo le emergenze probatorie, mentre uno degli agenti stava per redigere il verbale, il V. chiese ed ottenne dagli operanti di potere spostare l’auto. Proprio l’evidenziazione di tale dato di fatto, avrebbe dovuto condurre la Corte a completare la disamina nella direzione sollecitata dall’appellante sul tema della insussistenza dell’elemento psicologico. In proposito il motivo di impugnazione evidenziava come fosse provato agli atti che gli operanti avessero consentito che il V. si mettesse alla guida, benché - per loro stessa ammissione contenuta nella comunicazione di notizia di reato in quel frangente avessero già constatato le sue alterate condizioni. Su tali basi la difesa del ricorrente evidenzia che già in sede di gravame del merito aveva sostenuto la sussistenza dell’erroneo convincimento del V. di essere legittimato a porsi alla guida dell’auto, nella specie ingenerato dalla condotta degli operanti, integrasse una chiara ipotesi di buona fede dell’agente idonea ad escludere la colpevolezza. La lettura della sentenza impugnata - prosegue il ricorso - confermerebbe che la Corte territoriale abbia del tutto ignorato la questione e per tal verso rimarrebbero confermati, sia il difetto di motivazione in ordine alla specifica doglianza difensiva, sia la violazione dell’art. 42 c.p., per essere stata confermata la responsabilità dell’imputato nonostante l’assenza dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata. Con un secondo motivo, si deduce assenza di motivazione nonché violazione ed erronea applicazione dell’art. 131 bis c.p., laddove la corte di appello ha valutato non configurabile l’ipotesi di non punibilità ivi prevista. Anche con riferimento alla doglianza relativa al mancato riconoscimento dell’ipotesi di non punibilità del fatto da ritenersi di particolare tenuità, il ricorrente lamenta carenza della motivazione. La lettura della sentenza attesterebbe la completa assenza di argomenti correlati alle doglianze formulate e idonei a dare riscontro che le ragioni dell’appellante siano state concretamente valutate. Le parole spese dalla Corte territoriale confermerebbe, invero, come gli argomenti utilizzati in motivazione non abbiano pertinenza alcuna con il contenuto del correlato motivo di impugnazione. Nell’atto di appello era stato lamentato come il GUP avesse ritenuto non applicabile l’istituto previsto dall’art. 131 bis c.p., nell’erroneo convincimento che operasse la causa ostativa di cui al comma 3 della norma medesima. Ed all’uopo era stato espressamente evidenziato come a carico del V. , in realtà, non risultassero le plurime condanne per fatti della medesima indole, avendo il V. riportato una sola condanna, peraltro, in epoca assai risalente. Il difensore del V. ricorda anche che aveva altresì evidenziato come la vicenda, per la sua peculiarità, fosse da reputarsi in concreto meritevole della declaratoria di non punibilità. Ciò, in special modo, avuto riguardo alla circostanza che il V. si fosse messo alla guida dell’auto e avesse guidato sino al vicino parcheggio, scortato dagli agenti di Polizia Locale, dai quali aveva ottenuto di potere spostare l’auto e che lo avevano seguito a ruota per sottoporlo agli accertamenti alcolimetrici. Riguardo a tali rilievi dell’impugnante la sentenza impugnata non esprimerebbe il benché minimo cenno argomentativo, rimanendo per tal verso confermato, da un canto, il difetto di motivazione in ordine alla specifica doglianza formulata, dall’altro, la violazione ed erronea applicazione del disposto di cui all’art. 131 bis c.p Con un terzo motivo si deduce difetto di motivazione, nonché violazione ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 c.p., e art. 442 c.p.p., avverso il capo e punto della sentenza in cui sono state dichiarate infondate le doglianze dell’appellante in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche e all’eccessività della pena. La sentenza impugnata - ci si duole - definisce infondate le doglianze dell’appellante in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche e all’eccessività della misura della pena, ma la motivazione sul punto sarebbe da considerarsi solo apparente. L’assunto di infondatezza si risolverebbe in mera affermazione di stile, non pertinente, né al fatto, né al contenuto delle censure di cui all’atto di appello. Basti in proposito rilevare, si sostiene in ricorso, che l’appellante aveva, in particolare, evidenziato come la valutazione della congruità della sanzione fosse stata erroneamente riferita dal GUP, non, come dovuto, alla misura della pena base, bensì all’ammontare della pena finale risultante dall’operazione di riduzione premiale per il rito. Ed ancora, era stato evidenziato come il giudice di prime cure, nel valutare la misura della sanzione congrua, solo apparentemente avesse avuto come riferimento i parametri di cui all’art. 133 c.p., e, piuttosto, in concreto, avesse fatto riferimento ad elementi valutativi del tutto impropri, come ad esempio al fatto che la pena finale applicata fosse identica a quella del decreto penale di condanna opposto. Nessuna di tali specifiche e motivate censure risulterebbe presa in alcun modo in esame dal Giudice dell’appello ed in tal senso i meri apodittici asserti in cui si risolve la motivazione rendono indubbio il difetto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e , nonché quello di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , risultando erroneamente applicati gli artt. 133 e 62 bis c.p., e l’art. 442 c.p.p Con un quarto motivo di ricorso si lamenta difetto di motivazione, nonché violazione ed erronea applicazione dell’art. 53, L. 68911981, laddove è stata dichiarata infondata la doglianza dell’appellante in ordine alla mancata concessione della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria. Per il ricorrente anche la specifica doglianza formulata dall’appellante a tal proposito risulterebbe in concreto del tutto ignorata, rimanendo la giustificazione del rigetto del relativo motivo di appello affidata ad un mero apodittico asserto, complessivamente e genericamente riferito a diversi motivi di impugnazione. Sul tema la difesa del V. ricorda di avere censurato con articolati argomenti il convincimento espresso dal GUP che la sostituzione non fosse applicabile a fronte della dichiarazione dell’imputato di non essere titolare di redditi propri. E che, a sostegno del motivo di impugnazione, all’udienza di trattazione dell’appello era stata, poi, messa a disposizione della Corte territoriale anche la documentazione confermativa della circostanza, già rassegnata dinanzi al GUP, che il nucleo familiare del V. potesse contare sul reddito della moglie convivente. All’uopo nel motivo di appello si evidenziava 1. che la solvibilità non è requisito indicato dalla L. numero 689 del 1981, art. 53, quale presupposto per la concedibilità del beneficio 2. che, piuttosto, nell’impianto normativo la solvibilità è elemento di valutazione rilevante in fase esecutiva, per l’ipotesi di effettiva sottrazione del condannato all’obbligo del pagamento della sanzione pecuniaria divenuto esecutivo 3. che, anzi, l’ordinamento all’art. 660 c.p.p., contempla anche appositi strumenti per porre rimedio alla verificata impossibilità di esazione delle somme la rateizzazione, il differimento ed in extremis la conversione della pena pecuniaria. Ciò considerato, l’evidenza sarebbe che la sentenza impugnata non offra alcuna argomentazione idonea a dare contezza che la specifica censura sia stata oggetto di effettiva disamina, conferma in re ipsa il difetto di motivazione, che ne inficia la validità. E, peraltro, si profilerebbe evidente anche la violazione ed erronea applicazione della L. numero 689 del 1981, art. 53. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. Ritiene il Collegio che i motivi siano tutti inammissibili in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c , alla inammissibilità della impugnazione in tal senso Sez. 2, numero 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass. conf. Sez. 5, numero 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568 Sez. 4, numero 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849 Sez. 2, numero 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109 Sez. 4, numero 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945 sez. 1, numero 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634 Sez. 4, numero 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693 . Ancora, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato Sez. 3, numero 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608 . 2. In ogni caso, i motivi in questione sono manifestamente infondati, in quanto tesi ad ottenere una rilettura degli elementi di prova che non è consentita in questa sede, e pertanto il proposto ricorso v. dichiarato inammissibile. Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono, infatti, proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata. Il ricorso, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità. La Corte territoriale aveva già chiaramente confutato, nel provvedimento impugnato la tesi oggi riproposta, ivi compresa quella dell’asserita autorizzazione da parte degli agenti della Polizia Locale al V. di mettersi alla guida, benché si fossero resi conto del suo stato di ebbrezza. Come rileva la Corte milanese, non risulta affatto, se non dalle dichiarazioni rese da V.P.C. nel corso dell’udienza preliminare che gli agenti della Polizia Locale del Comune di omissis lo abbiano quasi spinto a salire sulla sua autovettura per spostarla dal luogo dov’era malamente parcheggiata. Al contrario, anche dalla sentenza di primo grado che, trattandosi di doppia conforme affermazione di responsabilità va letta in un tutt’uno con quella oggi impugnata si evince che gli agenti stavano per irrogare la contravvenzione all’autovettura perché irregolarmente parcheggiata, quando il V. , che usciva dal bar, si offrì di spostarla, evidentemente per evitare la sanzione per la sosta irregolare. Ed effettivamente gli agenti glielo consentirono, ma solo dopo notarono il suo stato di ebbrezza e, perciò, lo fermarono dopo poche e centinaia di metri. In altri termini, fu il V. , coscientemente, a porsi alla guida della propria autovettura, ancorché in stato di ebbrezza, al fine di evitare la contravvenzione al codice della strada. E solo dopo gli agenti ne ebbero a notare il comportamento alterato, l’alito alcolico e l’eloquio non fluido. Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia di secondo grado, il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto. 3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso. La Corte territoriale rispondendo alla specifica richiesta sul punto ha argomentatamente e logicamente motivato il diniego dell’invocata causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p È pur vero, infatti, che il riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto non è precluso dall’esistenza di precedenti penali gravanti sull’imputato, pur quando, sulla base di essi, si sia applicata una pena superiore al minimo edittale, atteso che i parametri di valutazione di cui all’art. 131 bis c.p., hanno natura e struttura oggettiva, ed operano su un piano diverso da quelli sulla personalità del reo Sez. 3, numero 35757 del 23/11/2016 dep. il 2017, Sacco, Rv. 270948 . Ed anche che la presenza di un unico precedente specifico non pare giustificare il richiamo all’abitualità del reato, ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità. Tuttavia, la Corte territoriale dà atto nel provvedimento oggi impugnato di avere valutato il fatto in sé, ed in particolare l’elevato tasso alcolemico riscontrato. La sentenza, dunque, si colloca nell’alveo del dictum delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133 c.p., comma 1, delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo Sez. Unumero numero 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266590 . 4. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso. I giudici del gravame del merito, hanno dato infatti conto del loro diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche valutando, negativamente per l’odierno ricorrente, i precedenti penali da cui è gravato uno specifico, ancorché risalente nel tempo, nonché due condanne per ricettazione, un’altra per detenzione illegale di armi e munizioni continuata, in concorso . Il provvedimento impugnato appare collocarsi nell’alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione così Sez. 3, numero 23055 del 23/4/2013, Banic e altro, Rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell’imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale . Quanto alla pena, la stessa appare contenuta nei minimi edittali. 5. Va ricordato che questa Corte di legittimità ha anche chiarito che, con un indirizzo assolutamente prevalente, che è legittima in tali casi la doppia valutazione dello stesso elemento ad esempio i precedenti penali ovvero la gravità della condotta purché operata a fini diversi, come possono essere il riconoscimento del fatto di lieve entità, la determinazione della pena base, o la concessione ed il diniego delle circostanze attenuanti generiche cfr. ex multis Sez. 2, numero 24995 del 14/5/2015, Rv. 264378 Sez. 2, numero 933 dell’11/10/2013 dep. il 2014, Rv. 258011 Sez. 4, numero 35930 del 27/6/2002, Rv. 222351 . In caso di diniego, soprattutto dopo la specifica modifica dell’art. 62 bis c.p., operata con il D.L. 23 maggio 2008, numero 2002, convertito con modif. dalla L. 24 luglio 2008, numero 125, che ha sancito essere l’incensuratezza dell’imputato non più idonea da sola a giustificarne la concessione va ribadito che sarebbe stato assolutamente sufficiente che il giudice si fosse limitato a dar conto, di avere ritenuto l’assenza di elementi o circostanze positive a tale fine. E in ogni caso è pacifico il dictum di questa Corte secondo cui, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso così sez. 2, numero 3609 del 18.1.2011, Sermone ed altri, rv. 249163 conf., ex plurimis, sez. 6, numero 7707 del 4.12.2003 dep. il 23.2.2004, Anaclerio ed altri, rv. 229768 . In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza univoca di questa Corte Suprema, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda così, ex plurimis, Sez. 1, numero 29679 del 13/6/2011, Chiofalo ed altri, Rv. 219891 Sez. 1, numero 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381 Sez. 1 numero 12496 del 21/9/1999, Guglielmi ed altri, Rv. 214570 Sez. 6, numero 13048 del 20/6/2000, Occhipinti ed altri, Rv. 217882 . 6. Manifestamente infondato, infine è anche il quarto motivo di ricorso di cui in premessa, in quanto dalla lettura del provvedimento impugnato emerge l’avvenuto esame dell’istanza di conversione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria avanzata con l’atto di appello, esclusa dai giudici del gravame del merito in ragione della pluralità di precedenti penali da cui è gravato il V. cfr. pag. 3 della sentenza impugnata . In tal senso già la Corte territoriale aveva rettificato l’affermazione del giudice di primo grado, non corretta in punto di diritto, che aveva negato la conversione valorizzando negativamente per l’odierno ricorrente la circostanza che egli non fosse titolare di redditi propri. Occorre, in proposito, tenere conto del fatto che le misure sostitutive tendono al reinserimento sociale del condannato, per cui i criteri di cui all’art. 133 c.p., per cui devono essere utilizzati nell’ottica di valutare se sia prevedibile che non vi sarà una ricaduta nel reato. Pertanto, un giudizio prognostico favorevole sulla concedibilità della misura sostitutiva può essere formulato anche nei confronti di un soggetto che, in relazione alla entità del fatto criminoso commesso, non sia ritenuto meritevole delle attenuanti generiche Sez. 3, numero 37814 del 06/06/2013, Zicaro Romenelli, Rv. 25697901 Sez. 5, numero 3643 del 21/01/1999, Capitano, Rv. 21353601 Sez. 4, numero 3882 del 19/02/1990, Noce, Rv. 18375501 . 4.2. Giova, sul tema, ricordare la pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Sez. U, numero 24476 del 22/04/2010, Gagliardi, Rv. 247274 in tale pronuncia, la Corte ha chiaramente affermato che la ratio delle pene sostitutive ha natura premiale e che il giudice, nell’esercitare il suo potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, con la semidetenzione o con la libertà controllata, deve tenere conto dei criteri indicati nell’art. 133 c.p., tra i quali è compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato. Se dev’essere dunque, ribadito il principio per cui la valutazione discrezionale rimessa al giudice di merito ai sensi della L. numero 689 del 1981, art. 58, comma 1, deve essere sorretta da congrua ed adeguata motivazione, che dovrà tenere in particolare considerazione, tra gli altri criteri, le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e la personalità del condannato, nell’ottica di valutare se sia prevedibile che non vi sia in futuro una ricaduta nel reato, va detto che tale valutazione risulta essere stata operata, dando valore preminente, in senso sfavorevole all’imputato, alla negativa personalità desumibile dai suoi precedenti., La Corte milanese non è incorsa in vizio di motivazione, in quanto, come detto, la L. numero 689 del 1981, art. 58, regola il potere discrezionale del giudice nella sostituzione della pena detentiva, imponendogli di attenersi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., e la Corte ha fornito una motivazione che esplicita le ragioni dell’omessa conversione. 7. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. numero 186 del 13.6.2000 , alla condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.