Vita da incubo tra le mura domestiche: marito condannato

Prima malmena la moglie, poi la obbliga ad un rapporto sessuale. Inequivocabile il significato del gravissimo comportamento tenuto dall’imputato la mancanza di reazioni della moglie non esclude la consapevolezza del marito sul fatto che il rapporto sessuale sia forzato e da lei non voluto.

Vita da incubo tra le mura domestiche. La moglie deve sopportare non solo le angherie del marito, ma anche i maltrattamenti fisici e, infine, è obbligata con la forza a subire un rapporto sessuale. E quest’ultimo episodio è decisivo per ritenere colpevole l’uomo e punirlo con due anni e otto mesi di reclusione per violenza sessuale. Cassazione, sentenza n. 56117/18, sez. III Penale, depositata oggi Consapevolezza. La gravità delle azioni dell’imputato, già evidenziata prima in Tribunale e poi in appello, viene ora ribadita dalla Cassazione, che sigilla quindi la condanna per la violenza sessuale ai danni della moglie. Elemento decisivo sono i racconti fatti dalla donna, la cui piena attendibilità è stata riconosciuta con severo e rigoroso vaglio critico , sanciscono i Giudici del Palazzaccio. A corredo, poi, anche l’inequivocabile documentazione medica. Significative anche le parole dei figli della coppia, i quali hanno sottolineato il consueto atteggiamento violento del padre e il clima da lui creato a casa. Per quanto concerne, infine, la violenza sessuale, i magistrati condividono la valutazione compiuta in appello, laddove si è sancito che pretendere un rapporto sessuale dopo aver malmenato e gettato nel terrore la moglie, senza appurarne la disponibilità ma accontentandosi della mancanza di reazioni , certifica la consapevolezza del marito del dissenso della partner Peraltro, in questa vicenda si è appurato che comunque la donna aveva espressamente manifestato la propria contrarietà all’atto sessuale, supplicando il marito di lasciarla stare perché non stava bene e ottenendo come risposta di essere afferrata per i capelli e per la nuca ed essere quindi obbligata al rapporto sessuale.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 14 novembre – 13 dicembre 2018, n. 56117 Presidente Rossi – Relatore Mengoni Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 13/9/2017, la Corte di appello di Bologna, pronunciandosi in sede di rinvio, riformava parzialmente la decisione emessa il 19/12/2009 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena nei confronti di Vi. Lo., così dichiarando non doversi procedere con riguardo al delitto di lesioni personali, perché estinto per prescrizione al contempo, rideterminava la pena quanto al reato di cui all'art. 609-bis cod. pen. nella misura di due anni ed otto mesi di reclusione. 2. Propone ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi - inosservanza degli artt. 157, 161, 179, 184, 601 cod. proc. pen. La notifica al ricorrente del decreto di citazione a giudizio in appello - avvenuta mediante deposito nella casa comunale - sarebbe stata effettuata in modo irregolare, sotto plurimi profili a malgrado il domicilio eletto ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., sarebbe stata impiegata la diversa procedura di cui all'art. 157 cod. proc. pen. b nell'ambito di questa, peraltro, non sarebbe stato rispettato il relativo comma 7, che impone - a date circostanze - di procedere nuovamente alla ricerca dell'imputato, tornando nei luoghi indicati nei commi 1 e 2 c ancora con riguardo all'art. 157 cod. proc. pen., la raccomandata di cui al comma 6 -necessaria in caso di consegna dell'atto al convivente - non sarebbe stata ricevuta dal ricorrente. Ne conseguirebbe che la citazione di questi sarebbe avvenuta con modalità irregolari, tali da non consentire l'effettiva conoscenza dell'atto dal che, la nullità anche di tutti quelli successivi. Quel che, peraltro, non sarebbe stato ritenuto dalla Corte di appello, con ordinanza definita non corretta da un punto di vista giuridico - mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. La sentenza avrebbe confermato la condanna pur a fronte di compendio dichiarativo - quello della persona offeso - tutt'altro che affidabile e, anzi, connotato da plurime e differenti versioni offerte, anche su elementi essenziali della vicenda che l'atto richiama alle pagg. 12-14 , in particolare la presunta violenza sessuale. A tale riguardo, peraltro, la Corte di appello avrebbe inteso desumere la prova del reato da quella relativa ad altra fattispecie le lesioni personali , senza approfondire gli eventi e senza valutare eventuali ipotesi alternative. Palesi, ancora, risulterebbero le contraddizioni insite nel racconto della donna, specie quanto allo strangolamento subito del quale non sarebbe residuata alcuna traccia ed all'uso di un coltello ad opera del ricorrente. Il ricorrente ha depositato memoria, ribadendo i propri argomenti. Considerato in diritto Preliminarmente si osserva che la presente motivazione è redatta in forma semplificata, ai sensi del decreto n. 68 del 28/4/2016 del Primo Presidente di questa Corte. 3. Il ricorso deve esser dichiarato inammissibile. Con riguardo alla prima censura, rileva la Corte che l'esame degli atti -legittimamente compiuto - ne evidenzia l'assoluta infondatezza. Ed invero, all'udienza del 26/4/2017, in esito all'annullamento con rinvio disposto da questo Giudice di legittimità, la Corte di merito riscontrava che il decreto di citazione in appello era stato notificato all'imputato ai sensi dell'art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen. modalità già dichiarata non valida dalla Corte di Cassazione , e ne disponeva nuova notifica presso il domicilio dichiarato, in Modena, via Nonantola n. 131, così rinviando all'udienza del 13/9/2017 a quella data - riscontrata la consegna dell'atto alla compagna convivente del ricorrente, in data 4/7/2014, e la spedizione della comunicazione di avvenuta notifica, in pari data - la Corte di merito dichiarava quindi regolare la citazione dell'imputato in appello. Conclusione rituale e corretta, che questo Collegio non può dunque sindacare, non emergendo la violazione di legge qui contestata. 4. Palesemente infondata, di seguito, risulta anche la seconda doglianza, in punto di responsabilità. Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247 . In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili ed invero, dietro la parvenza di un triplice vizio motivazionale, lo stesso di fatto tende ad ottenere in questa sede una nuova e diversa valutazione di plurimi elementi istruttori soprattutto le dichiarazioni della persona offesa, ma anche quelle della figlia, il referto di pronto soccorso , invocandone una lettura alternativa e più favorevole. Quel che, peraltro, lo stesso ricorrente ammette, affermando che la Corte di appello -quanto alla violenza sessuale - non avrebbe valutato eventuali ipotesi alternative . 5. La stessa censura, inoltre, non considera che la sentenza impugnata ha confermato la responsabilità dell'imputato con un più che solido e congruo percorso argomentativo, privo di ogni illogicità manifesta e di qualsivoglia contraddizione come tale, dunque, non censurabile. In particolare, in uno con la pronuncia di primo grado, espressamente richiamata e condivisa, la Corte di merito ha innanzitutto sottolineato la piena credibilità della donna, che non solo aveva reso dichiarazioni del tutto logiche e coerenti, peraltro in diverse occasioni, ma non aveva affatto evidenziato alcuna motivazione ad eventuali atteggiamenti menzogneri come, peraltro, non ipotizzato neppure dalla difesa . Ancora, si è sottolineato che una lettura alternativa dei fatti compresa la residua violenza sessuale non poteva logicamente esser proposta, anche alla luce delle certificazioni mediche prodotte in atti dalle quali, in particolare, risultavano gli ematomi agli arti superiori e al seno sinistro, perfettamente compatibili con le lesioni di cui al capo a , in uno con pacifiche tracce del rapporto sessuale subito ad opera dell'imputato. 6. Piena attendibilità della persona offesa, dunque, riconosciuta con severo e rigoroso vaglio critico. Ciò, in adesione al costante e condiviso indirizzo in forza del quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, si che non operano le regole dettate dall'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni che confermino l'attendibilità delle parole medesime tutto ciò, però, impone la verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell'Arte, Rv. 253214 successivamente, tra le altre, Sez. 2, n. 43278 del 24/9/2015, Manzini, Rv. 265104 . 7. Ancora sul punto, poi, la sentenza ha congruamente richiamato significativi elementi a conferma delle parole della donna, quali le deposizioni dei figli non presenti in casa al momento dei fatti , invero assai significative quanto al consueto atteggiamento violento del ricorrente, loro padre, e del clima da questi creato in famiglia. Figli la cui attendibilità - ha evidenziato la Corte - non è stata mai eccepita dal ricorrente. Con riguardo alla specifica vicenda, poi, mentre il figlio aveva riferito di aver notato, l'indomani, un livido sul braccio della madre, la figlia aveva riferito addirittura che il padre a in esito alla querela, aveva giurato morte a tutti b le aveva mostrato mimato quanto accaduto, spingendola verso l'armadio e - al tentativo di fuga - mettendole le mani al collo per strangolarla. Di certo una simulazione, ma che rispettava in toto, confermandola, la descrizione dell'accaduto operata dalla persona offesa dal che - ha congruamente concluso sul punto la sentenza - l'irrilevanza del dato richiamato ancora nel ricorso, quale l'assenza di segni visibili sul collo della donna, come tali non refertati. E con l'ulteriore precisazione - ancora indicata in sentenza - che è ben possibile che la persona offesa abbia recepito quel porre le mani sul collo e sulla bocca come diretto a soffocarla e ne sia rimasta talmente terrorizzata da perdere addirittura i sensi, enfatizzando, nel ricorso, durata e senso di soffocamento . 8. Con riguardo, infine, al dolo della violenza sessuale, sul quale il ricorso lamenta ancora carenza motivazionale, ritiene la Corte che l'argomento speso in sentenza sia del tutto adeguato, sostenuto da piena struttura logica e non censurabile un argomento, peraltro, che supera del tutto la doglianza difensiva, che vorrebbe la prova della violenza sessuale tratta esclusivamente dalla prova delle lesioni personali. In particolare, il Collegio di appello ha in primo luogo evidenziato che pretendere un rapporto sessuale dopo aver malmenato e gettato nel terrore il soggetto passivo, senza sostanziale soluzione di continuità, senza appurare la disponibilità del partner, accontentandosi della mancanza di reazioni, è condotta integrante di per sé la consapevolezza, quantomeno sotto il profilo del dolo eventuale, del dissenso della partner di seguito, la stessa pronuncia ha sottolineato che la donna, in ogni caso, aveva espressamente manifestato la propria contrarietà all'atto sessuale, supplicando il marito di lasciarla stare perché non stava bene e ottenendo, come risposta, di essere afferrata per i capelli e per la nuca e quindi obbligata agli atti di cui alla rubrica. 9. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.