Giudice indotto in errore, truffa insussistente

Non sussiste il reato di truffa laddove il soggetto indotto in errore sia un giudice che, per effetto di artifizi o raggiri, abbia adottato un provvedimento - pure indebitamente - favorevole al soggetto agente.

Lo ha stabilito la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 55430, depositata in cancelleria il 12 dicembre 2018. Truffa processuale” la condanna dei giudici di merito. Nel caso di specie, due parenti hanno chiesto ed ottenuto una serie di decreti ingiuntivi che, tuttavia, sono risultati essere illegittimi in regione alla capziosa rappresentazione dei presupposti sottesi ai provvedimenti monitori svolta dai due in occasione delle varie domande giudiziali. Ne è scaturito un procedimento penale per tentata truffa commessa in concorso artt. 640, 110 e 56, c.p. , culminato in una prima sentenza di condanna, poi confermata in sede di appello. La vicenda è infine pervenuta all’attenzione dei Giudici della Suprema Corte ai quali è stato chiesto di annullare la decisione emessa dalla Corte territoriale – tra vari motivi di censura – poiché, nell’opinione dei ricorrenti, le condotte incriminate non sarebbero riconducibili allo schema del reato di truffa propriamente inteso i.e. il richiamato art. 640, c.p. bensì a quello – penalmente irrilevante – della c.d. truffa processuale”. Giudice indotto in errore. La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul ricorso, è tornata ad occuparsi della configurabilità del reato di truffa in vicende come quella sopra sintetizzata confermando un orientamento già patrocinato in passato, pure a seguito della sentenza delle Sezioni Unite, 29 novembre 2011, n. 155. Gli Ermellini, nel caso di specie, escludono la configurabilità del delitto in esame. In sentenza si spiega che in tema di truffa, sebbene non sia necessaria l’identità tra chi è indotto in errore e chi - per effetto della induzione - patisce un danno patrimoniale, va esclusa la configurabilità del reato nel caso in cui il soggetto in errore sia un giudice che, magari sulla base di una testimonianza falsa, abbia adottato un provvedimento giudiziale contenente una disposizione favorevole all’imputato. Tale ultimo provvedimento, infatti, non può essere considerato un libero atto di gestione d’interessi altrui” né esplicitazione di una libertà negoziale. Si tratta, invero, dell’esplicitazione del potere giurisdizionale - di natura pubblicistica - finalizzato all’attuazione delle norme giuridiche e alla risoluzione dei conflitti di interessi tra le parti in causa. Sicché, come già affermato in altri precedenti, gli artifizi e i raggiri caratteristici del reato di truffa possono rilevare, quando la vittima è un giudice, nei soli casi tassativamente previsti dalla legge e, in particolare, dall’art. 379, c.p. , giusto l’immanente principio del divieto di analogia in malam partem . Annullamento della sentenza senza rinvio. In definitiva, l’esercizio della funzione giurisdizionale, ancorché compulsato da artifizi e raggiri, non è risultato pratico da attrarre allo schema criminoso della truffa, perciò – di fatto – non penalmente rilevante. La sentenza del Palazzaccio, nel fare applicazione del principio sopra tratteggiato, ha dunque accolto il ricorso presentato dagli imputati per l’effetto manlevandoli da condanna, con annullamento della sentenza gravata senza rinvio con la formula perché il fatto non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 28 novembre – 12 dicembre 2018, n. 55430 Presidente Gallo – Relatore Di Paola Ritenuto in fatto 1. La Corte d’appello di Brescia, con sentenza in data 7/2/2017, confermava la condanna alle pene ritenute di giustizia pronunciata dal Tribunale di Bergamo, in data 21/9/2016, nei confronti di D.S.T. e Di.Sa.Ma. in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 640 cod. pen. 2.1. Propongono ricorso per cassazione le difese degli imputati, con unico atto d’impugnazione, deducendo con il primo motivo di ricorso la violazione della legge penale, in relazione all’art. 640 cod. pen. la sentenza impugnata, al pari di quella di primo grado, aveva ritenuto configurabile il contestato delitto di tentata truffa aggravata in ipotesi pacificamente riconducibile alla figura della c.d. truffa processuale, risultando l’induzione in errore dei magistrati che avevano emesso i decreti ingiuntivi in favore degli imputati. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione della legge penale in riferimento agli artt. 124 e 640 cod. pen., nonché la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’omessa pronuncia d’improcedibilità dell’azione penale, per tardività della querela. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in riferimento agli artt. 8 e ss. cod. proc. pen. e agli artt. 56 e 640 c.p. la Corte d’appello aveva erroneamente rigettato l’eccezione d’incompetenza territoriale, essendo pacifico dagli atti che le condotte contestate erano state commesse in , a nulla rilevando l’emissione dei decreti ingiunti in Treviglio. 2.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione, in relazione agli artt. 192 e 533 cod. proc. pen., nonché in relazione all’art. 129 cod. proc. pen., per avere la sentenza affermato la responsabilità degli imputati fondando la decisione sulle affermazioni delle persone offese, senza valutarne l’attendibilità erronea era altresì la pronuncia di assoluzione con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, in relazione agli addebiti ex art. 486 cod. pen., sussistendo in atti la prova evidente dell’insussistenza dei fatti contestati. 2.5. Con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in riferimento agli artt. 133, 56 e 640 cod. pen., in relazione al trattamento sanzionatorio la Corte d’appello aveva immotivatamente rigettato la richiesta di riduzione della pena, senza peraltro tener conto della diminuzione prevista per l’ipotesi tentata. 2.6. Con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in relazione agli artt. 530, 538 e 574 cod. proc. pen. per carenza e manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’omessa revoca delle statuizioni civili e alla determinazione della misura del risarcimento del danno riconosciuto alle parti civili. 2.7. Con il settimo motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in relazione all’art. 540 cod. proc. pen. per avere la corte confermato la provvisoria esecuzione delle statuizioni civili senza adeguata motivazione. 3. In relazione a tale ultimo profilo, la difesa formulava richiesta di sospensione dell’esecuzione della condanna pronunciata in favore delle parti civili ai sensi dell’art. 612 cod. proc. pen., in ragione dell’entità del risarcimento riconosciuto e della pendenza delle azioni esecutive già in atto che avrebbero potuto recare grave danno agli imputati. 4. La difesa delle parti civili ha depositato memoria ai sensi dell’art. 121 cod. proc. pen. eccependo l’inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è fondato. 2. Va premesso, quanto all’ammissibilità del motivo di ricorso, che pur non avendo formato oggetto di devoluzione al giudice d’appello, la questione relativa alla qualificazione giuridica del fatto oggetto di contestazione costituisce questione che può essere rilevata d’ufficio dalla corte di legittimità, alla stregua del disposto dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. 3. La costante e consolidata giurisprudenza di legittimità insegna che in tema di truffa, pur non esigendosi l’identità tra la persona indotta in errore e quella che subisce conseguenze patrimoniali negative per effetto dell’induzione in errore, va esclusa la configurabilità del reato nel caso in cui il soggetto indotto in errore sia un giudice che, sulla base di una testimonianza falsa, abbia adottato un provvedimento giudiziale contenente una disposizione patrimoniale favorevole all’imputato detto provvedimento non è, infatti, equiparabile a un libero atto di gestione d’interessi altrui, costituendo non espressione di libertà negoziale, bensì esplicazione del potere giurisdizionale, di natura pubblicistica, finalizzato all’attuazione delle norme giuridiche e alla risoluzione dei conflitti d’interessi tra le parti in questi chiarissimi termini, già Sez. 2, n. 29929 del 23/05/2007, Bazzana, Rv. 237699, ove si affermava che gli artifici e raggiri di cui sia vittima il giudice rilevano penalmente soltanto nei casi tassativamente descritti dall’art. 374 cod. pen., per il divieto di analogia in malam partem in diritto penale nonché, in precedenza, Sez. 2, n. 3135 del 26/11/2002, dep. 2003, Quattrone, Rv. 223830 . Tale principio di diritto, che la Corte ritiene di condividere e confermare, ha già trovato applicazione in fattispecie del tutto analoghe a quelle oggetto del presente ricorso, avendo in più occasioni statuito la giurisprudenza di legittimità che la condotta di chi, inducendo in errore il giudice in un processo civile o amministrativo mediante artifici o raggiri, ottenga una decisione favorevole non integra il reato di truffa, per difetto dell’elemento costitutivo dell’atto di disposizione patrimoniale, anche quando è riferita all’emissione di un decreto ingiuntivo, poiché quest’ultima attività costituisce esercizio della funzione giurisdizionale Sez. 2, n. 52730 del 09/12/2014, Frattini, Rv. 263993 nello stesso senso Sez. 2, n. 39314 del 09/07/2009, Calabrò, Rv. 245291 nonché più di recente Sez.2, n. 14533 del 27/2/2018, Naso, non massimata . Questa Corte non ignora il contenuto della pronuncia delle Sezioni unite, richiamata nella requisitoria del Procuratore generale, che ha affermato il principio di diritto secondo cui Ai fini della configurabilità del delitto di truffa, l’atto di disposizione patrimoniale, quale elemento costitutivo implicito della fattispecie incriminatrice, consiste in un atto volontario, causativo di un ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall’errore indotto da una condotta artificiosa. Ne consegue che lo stesso non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ovvero di atto giuridico in senso stretto, ma può essere integrato anche da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una traditio , da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno Sez. Unite, n. 155 del 29/09/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251499 , aggiungendo che non può per conseguenza in linea teorica escludersi che tale atto volontario consista nella dazione di denaro effettuata nella erronea convinzione di dovere eseguire un ordine del giudice conforme a legge . Va, però, osservato che il principio, affermato senza che fosse sorto alcun contrasto in ordine al cennato orientamento di cui si è detto in precedenza, è stato enunciato in riferimento al giudizio sottoposto all’esame delle Sezioni unite, che si caratterizzava per la particolarità che, ad essere imputati, erano un esercente la professione legale ed un magistrato, nella qualità di Giudice dell’esecuzione, per avere il primo dato luogo a una fittizia proliferazione dei crediti dei propri assistiti conseguenti a sentenze di condanna al pagamento di crediti di lavoro, cedendoli anche a terzi soggetti, promuovendo distinte procedure esecutive nei confronti di terzi debitori, omettendo di verificare il magistrato la legittimazione degli istanti e la mancata riunione delle procedure, da ciò conseguendo l’emanazione di trentacinque ordinanze di assegnazione, in ognuna delle quali erano liquidate in favore di ciascuna delle parti, a titolo di spese del procedimento, in favore del legale, somme calcolate sul valore complessivo di tutti i crediti azionati, inducendo in errore i terzi pignorati circa l’effettiva entità e spettanza dei crediti , conseguendo un ingiusto profitto con corrispondente danno del debitore e dei terzi. Sicché è evidente che in quella fattispecie l’induzione in errore era avvenuta direttamente ad opera di un appartenente all’ordine giudiziario, in concorso con un avvocato, attraverso l’emanazione di provvedimenti giurisdizionali che erano essi stessi lo strumento fraudolento ipotesi che non ricorre, invece, nel presente procedimento, sicché alcun influenza può avere quel principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni unite. L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento degli altri motivi, logicamente dipendenti da quello. Quanto al motivo di ricorso, nel corpo del quale è stata denunciata la violazione della legge penale, per avere pronunciato sia il Tribunale sia la Corte, l’assoluzione degli imputati dall’imputazione di cui all’art. 486 cod. pen. con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, in luogo della diversa formula affermativa dell’insussistenza del fatto, desumibile dalla sicura compilazione dell’intero foglio, che si assumeva essere stato firmato in bianco , va rilevato che la censura è inammissibile, per evidente carenza d’interesse. Gli imputati, infatti, anche ove dovessero ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, con la statuizione del loro prosciogliemmo con la formula su descritta, non trarrebbero da siffatta pronuncia alcun concreto e immediato utile risultato, neanche sul piano morale , poiché il fatto storico, pur se sussistente, è considerato dall’ordinamento giuridico irrilevante dal punto di vista penale Sez. 5, n. 14718 del 18/11/1999, Simionato, Rv. 215193 Sez. 6, n. 20680 del 11/02/2003, Piacenti, Rv. 225893 né i ricorrenti deducono alcuno specifico interesse che potrebbe esser soddisfatto dall’annullamento per tale ragione della sentenza impugnata. In definitiva, non ricorre alcun interesse, giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. che legittimi la proposizione del ricorso nei termini su ricordati. 3. La sentenza deve dunque esser annullata senza rinvio, ai sensi dell’art. 620, lett. L cod. proc. pen. dall’annullamento, che travolge l’affermazione di penale responsabilità, discende la revoca delle statuizioni civili, anche in relazione all’ipotesi originariamente conetsta quale violazione dell’art. 486 cod. pen., come statuito dalle Sezioni Unite n. 46688 del 29/09/2016, Schirru, Rv. 267884 . P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Revoca le statuizioni civili.