Atti osceni in un parco pubblico di fronte a due minorenni: inutile invocare l’abolitio criminis

Anche dopo la depenalizzazione di cui al d.lgs. n. 8/2016, il compimento di atti osceni in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico continua ad essere punito dal secondo comma dell’art. 527 c.p

Sul tema la Corte di Cassazione con la sentenza n. 39825/18, depositata il 4 settembre. Il fatto. Il Tribunale di Padova condannava un imputato per il reato di atti osceni art. 527 c.p. per aver mostrato i genitali di fronte a due ragazzine minorenni in un giardino pubblico. A seguito del d.lgs. n. 8/2016, l’imputato chiedeva la revoca del decreto penale di condanna per non essere più previsto il fatto come reato. A seguito del rigetto dell’istanza, l’imputato ricorre dinanzi alla Corte di Cassazione. Abolitio criminis. Il Collegio coglie l’occasione per esaminare la struttura della fattispecie di cui all’art. 527 c.p., come risultante a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 8/2016. Dal testo della norma appare evidente che il secondo comma relativo al compimento di atti osceni all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori descrive una fattispecie di natura delittuosa, mentre le ipotesi di cui al primo comma compimento di atti osceni in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico costituiscono violazioni di natura amministrativa. Come sottolinea il Collegio, modifiche legislative di questo tipo impongono un’attenta applicazione dei principi di irretroattività della norma penale incriminatrice o più sfavorevole e di retroattività della norma penale più favorevole. Nel caso dell’ abolitio criminis il legislatore interviene direttamente sulla fattispecie legale astratta individuando i fatti esclusi dalla rilevanza penale e quelli che – eventualmente – continuano a costituire reato. Ai fini dell’accertamento dei confini dell’ abolitio criminis , occorre confrontare la struttura delle due fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo. Nel caso di specie, la condotta del ricorrente è stata correttamente ricondotta alla fattispecie ancora sanzionata penalmente perché commesso in giardini pubblici, rientrante nel concetto di luoghi abitualmente frequentati da minori”. La costante giurisprudenza ha infatti affermato che, secondo il tenore letterale della norma, non è sufficiente che i luoghi siano frequentati dai minori, ma occorre che sia una frequentazione abituale, come ad esempio nel caso di parchi, bar, discoteche, biblioteche. Secondo tale ricostruzione il criterio funzionale del pericolo concreto che i minori possano assistere all’atto osceno, si salda con quello spaziale concorrendo da un lato ad evidenziarne la ratio , dall’altro ad evitare eccessive dilatazione dell’ambito applicativo della norma . Aggiunge il Collegio che il fatto di reato sussiste non perché accidentalmente agli atti osceni abbia assistito un minore, ma perchè nel luogo prescelto dal suo autore per realizzarli è prevedibile, con giudizio prognostico ex ante , che siano presenti persone minori in quanto abituate a frequentarlo . Posto che il giudice ha ravvisato l’elemento concreto dell’avvenuta esibizione oscena dinanzi a due minorenni in luogo abitualmente frequentato sa soggetti di minore età, la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 27 aprile – 4 settembre 2018, n. 39825 Presidente Di Tomassi – Relatore Minchella Ritenuto in fatto 1. Con decreto penale in data 26/09/2001 il GIP del Tribunale di Padova condannava R.G. per il reato di cui all’art. 527 cod.pen. In data 22/04/2016 il condannato depositava istanza volta ad ottenere la revoca del decreto penale di condanna ex art. 673 cod.proc.pen., perché, ai sensi dell’art. 2 del D.Lvo n. 8 del 2016 il fatto non era più previsto dalla legge come reato. Il Tribunale di Padova fissava udienza per l’incidente di esecuzione e in data 07/07/2016 respingeva la richiesta. L’interessato proponeva ricorso per cassazione e la Corte Suprema in data 04/07/2017 qualificava il ricorso come opposizione, disponendo la trasmissione degli atti al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art 667, comma 4, cod.proc.pen. Con ordinanza in data 24/10/2017 il Tribunale di Padova, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’opposizione medesima. Rilevava il giudice dell’esecuzione che occorreva avere riguardo alla condotta così come cristallizzata nel capo di imputazione, nel quale espressamente si precisava che il condannato aveva mostrato i genitali di fronte a due ragazze minorenni e che lo aveva fatto in un giardino pubblico il richiamo al comma 1 dell’art 527 cod.pen. era servito soltanto a distinguere la fattispecie dolosa da quella colposa ancora prevista nell’anno 2001, epoca dei fatti , ma il comportamento posto in essere era ancora considerato reato e come tale punito dal comma 2 dell’art. 527 cod.pen., poiché il reato di atti osceni è un reato di pericolo e, nella fattispecie, il luogo prescelto era abitualmente frequentato da minori e si era verificato anche un danno effettivo, poiché due minorenni avevano assistito agli atti osceni, dolosamente posti in essere nei loro confronti di conseguenza, non vi era stato soltanto un rischio che si verificasse un danno, ma si era verificato concretamente il danno paventato, per cui la condotta aveva mantenuto la sua rilevanza penale, a nulla rilevando che il capo di imputazione non menzionasse la dicitura luogo frequentato da minori infatti, l’imputazione precisava in fatto che la condotta era avvenuta in giardini pubblici, dove notoriamente erano presenti soggetti minorenni come appunto avvenuto nella fattispecie . 2. Avverso detta ordinanza propone ricorso l’interessato a mezzo del difensore Avv. Fabio Dei Rossi. 2.1. Con il primo motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b , cod.proc.pen., erronea applicazione di legge lamenta che il giudice dell’esecuzione aveva ritenuto la condotta del ricorrente come sussumibile nel disposto di cui al comma 2 dell’art 527 cod.pen., che però era stato introdotto solo nell’anno 2009 mentre i fatti de quibus risalivano all’anno 2001, così sostanzialmente rivalutando giuridicamente la condotta ed esorbitando dai poteri di cui all’art 673 cod.proc.pen. con l’applicazione di una norma non esistente all’epoca dei fatti, in violazione del principio di irretroattività della legge penale. 2.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b , cod.proc.pen., erronea applicazione di legge sostiene che il giudice doveva limitarsi a prendere atto dell’avvenuta abrogazione di una fattispecie penale e non anche procedere ad un nuovo accertamento del fatto e sussumere la condotta sotto una diversa fattispecie, poiché ciò violava i principi della corretta contestazione e del contraddittorio, conducendo ad affermare la sussistenza di elementi di fatto mai contestati né valutati, come quello per cui il giardino pubblico luogo dell’azione sarebbe stato abitualmente frequentato da minorenni mentre il capo di imputazione non faceva cenno a detto elemento, poiché non era sufficiente che il luogo fosse astrattamente frequentabile da minori, ma occorreva che fosse abitualmente frequentato da minori . 2.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b ed e , cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione afferma che, in ogni caso, la decisione del giudice dell’esecuzione era priva di adeguata motivazione poiché aveva ritenuto apoditticamente che un giardino pubblico sia luogo frequentato abitualmente da minorenni e che non vi era bisogno di precisarlo nell’imputazione, mentre sarebbe stato necessario dimostrare una scelta costante di frequentatori o la specifica attrezzatura per svaghi dei più piccoli. 2.4. Con il quarto motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b , cod.proc.pen., erronea applicazione di legge sostiene che era stato sostanzialmente applicato il comma 2 dell’art 527 cod.pen. senza che l’imputazione contestasse in modo espresso di aver compiuto il gesto in luogo concretamente frequentato da minori non essendo sufficiente la potenzialità di questa frequentazione o la sola natura pubblica del luogo e senza che ciò fosse stato oggetto di accertamento, pur essendo un elemento costitutivo. 3. Il P.G. conclude per l’inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato. Premesso che le diverse doglianze nelle quali si articola il ricorso si prestano ad una trattazione unitaria, per la stretta interconnessione delle argomentazioni sostenute, va rilevato che, con il ricorso, si insta affinché questa Corte annulli l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che ha respinto la richiesta dell’interessato di revocare ex art. 673 cod.proc.pen. il decreto penale di condanna emesso a carico del medesimo in data 26/09/2001 in particolare, il ricorrente sottolinea come la condotta di atti osceni in luogo pubblico, prevista dal comma 1 dell’art. 527 cod.pen. per la quale egli venne condannato non sia più penalmente rilevante. Ma si tratta di doglianze infondate. 2. Giova precisare che, in esito alle modifiche apportate dall’art., comma 22, della Legge n. 94 del 2009 e successivamente dall’art. 2, comma 1, lett. a e b , del D.L.vo n. 8 del 2016, l’art. 527 cod.pen. che punisce gli atti osceni, recita nel modo seguente 1. Chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 5.000 a Euro 30.000. 2. Si applica la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano. 3. Se il fatto avviene per colpa, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 51 a Euro 309 . In precedenza, la formulazione della norma era la seguente 1. Chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. 2. Se il fatto avviene per colpa, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 51 Euro a 309 Euro . All’evidenza, soltanto la fattispecie descritta al comma secondo della disposizione normativa ha conservato la natura delittuosa, mentre le altre due previsioni sono divenute violazioni di natura amministrativa. Sulla scorta di questa modifica, il ricorrente - sostenendo che la sua condanna era stata decisa in base ad una descrizione della condotta criminosa non più rispondente a quella ancora penalmente rilevante - aveva chiesto la revoca della pronunzia a suo carico, sostenendo l’avvenuta abolitio criminis. In linea generale, ogni modifica legislativa di questo tipo pone il delicato problema della corretta lettura dei canoni successori in materia di norme penali, regolati, secondo quanto dispone l’art. 2 cod.pen., dai principi fondamentali dell’irretroattività della norma penale incriminatrice o più sfavorevole e della retroattività di quella penale di favore, abbia quest’ultima contenuto abrogativo o meramente modificativo della disciplina previgente. L’abolitio criminis, quale effetto del fenomeno di diritto intertemporale, consegue alla corrispondente modifica normativa della fattispecie legale astratta. Soltanto nell’ipotesi della trasformazione dell’illecito penale in illecito amministrativo c.d. depenalizzazione l’abolizione del reato si realizza, per lo più, sostituendo la nuova sanzione amministrativa a quella precedente penale e incidendo, quindi, certamente sulla norma incriminatrice ma non anche sulla struttura della fattispecie. È attraverso la fattispecie legale astratta che il Legislatore individua i fatti ritenuti meritevoli del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea con il giudizio di disvalore astratto espresso dalla legge precedente. Se l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che sopprime un elemento strutturale della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci si trova - di norma - di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis il fatto, cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante per effetto dell’abrogazione di quell’elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore insito nella scelta di politica criminale in questo caso, non può non trovare applicazione la disciplina prevista dal secondo comma dell’art. 2 cod.pen. La ratio della retroattività della legge abolitrice del reato va individuata nell’esigenza di giustizia e di ragionevolezza, non potendosi tollerare di continuare a punire chi in passato ha commesso un fatto che l’ordinamento non ritiene più meritevole o bisognoso di pena. Nel concreto, in caso di modifica della norma incriminatrice, per accertare se ricorra o meno abolitio criminis è sufficiente procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, senza la necessità di ricercare conferme della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa, atteso che tale confronto permette in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando così radicalmente la figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie Sez. U., n. 24468 del 26/02/2009, Rv. 243585 . 3. Nella fattispecie, il giudice dell’esecuzione ha respinto la richiesta del ricorrente rilevando come la condotta che era stata contestata all’epoca continua ad essere sanzionata penalmente, ai sensi del comma secondo dell’art. 527 cod.pen., essendo stata commessa in giardini pubblici, ossia all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori. La conclusione è corretta ed è in linea con gli orientamenti di questa Corte, che ha già affermato che, secondo il chiaro tenore letterale della norma, non è sufficiente che i luoghi siano frequentati da minori, occorre che lo siano abitualmente la fattispecie, dunque, individua l’ambito spaziale all’interno del quale il compimento di atti osceni conserva penale rilevanza affidandosi al dato fattuale dell’esperienza storica, mutabile come solo possono esserle le abitudini dei giovani minori di età, secondo la ricostruzione che di volta in volta è chiamato a compiere il giudice di merito. Al di fuori di tipizzazioni o numeri chiusi di sorta, tali luoghi possono essere costituiti da giardini pubblici, parchi oppure un bar, una discoteca, una biblioteca, una piazza, una strada. Il criterio funzionale del pericolo concreto che i minori possano assistere all’atto osceno, si salda a quello spaziale concorrendo da un lato ad evidenziarne la ratio, dall’altro ad evitare eccessive dilatazioni dell’ambito applicativo della norma Sez. 3, n. 17912 del 2017 . In altri termini, questa Corte ha già precisato che rientrano, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 527, comma secondo, cod.pen., nella nozione di luoghi abitualmente frequentati da minori - al cui interno o nelle cui immediate vicinanze deve essere commesso il fatto - quelli riconoscibili come tali per vocazione strutturale quali le scuole, i recinti ricreativi nei parchi, gli impianti sportivi et similia , quelli per elezione specifica di volta in volta scelti dai minori come punti di aggregazione e socializzazione muretti su pubblica via, cortili condominiali, piazzali di luogo ludico e quelli in cui, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico Sez. 3, n. 56075 del 21/09/2017, Rv. 271811 Sez. 3, n. 29239 del 17/02/2017, Rv 270165 Sez. 3, n. 30798 del 18/10/2016, Rv 270231 . Pertanto, il fatto di reato sussiste non perché accidentalmente agli atti osceni abbia assistito un minore, ma perché nel luogo prescelto dal suo autore per realizzarli è prevedibile, con giudizio prognostico ex ante, che siano presenti persone minori in quanto abituate a frequentarlo. L’accertamento circa la qualificazione del luogo come abitualmente frequentato da minori, che deve essere eseguito con giudizio prognostico ex ante, costituisce giudizio di fatto che, se adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, non è sindacabile in sede di controllo di legittimità. Nel caso in scrutinio, il giudice dell’esecuzione ha sottolineato che la richiesta del ricorrente si fondava essenzialmente sulla mancata dicitura luogo abitualmente frequentato da minori nel capo di imputazione ma correttamente ha ritenuto che questo elemento non mutasse l’area penalmente rilevante della condotta consumata, poiché la rubrica ben precisava che il gesto era stato compiuto all’interno di giardini pubblici e che due minorenni avevano assistito al gesto stesso pertanto, vi erano plasticamente descritti sia l’elemento di un luogo abitualmente frequentato da minori sia quello della esibizione dell’area genitale denudata e mostrata a due minori che erano ivi presenti non occasionalmente ma proprio perché la zona era luogo di ritrovo di minorenni. In definitiva, il giudice dell’esecuzione non ha ravvisato il mero pericolo che il gesto osceno venisse visto, ma ha constatato il fatto concreto dell’avvenuta esibizione oscena a due minorenni in un luogo abitualmente frequentato da soggetti di minore età. Pertanto, la fattispecie esaminata all’epoca comprendeva l’area penalmente rilevante ancora oggi rimasta punita con sanzione penale e l’ordinanza impugnata, lungi dall’essere affetta dai vizi denunziati dal ricorrente, ha spiegato in modo corretto per quale ragione la condotta ascritta al ricorrente non possa ritenersi depenalizzata ai sensi dell’art. 8 del D.L.vo n. 8 del 2016, senza alcuna incidenza del fatto che all’epoca si fosse fatto riferimento al comma 1 dell’art. 527 cod.pen., in quanto allora esso individuava semplicemente l’ipotesi dolosa del gesto, distinguendo al comma secondo quella colposa, che non aveva rilievo ai fini che qui interessano. 4. Il ricorso deve dunque essere rigettato e al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del D.Lgs. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del D.Lgs 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.