Il rilascio della falsa dichiarazione di residenza come falso ideologico

A norma dell’art. 75 d.P.R. n. 445/2000, per rispondere all’esigenza di semplificazione della documentazione amministrativa tra P.A. e privati cittadini, le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono pienamente equiparate, agli effetti penali, agli atti pubblici poiché fatte a pubblico ufficiale.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 29469/18 depositata il 27 giugno. Il caso. La Corte d’Appello di Campobasso, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, applicava la pena di un mese di reclusione all’imputato per aver commesso il reato di cui all’art. 483 c.p., attestando falsamente all’Ufficio Anagrafe del Comune di risiedere abitualmente lì, circostanza non corrispondente al vero, attraverso la presentazione di una dichiarazione di iscrizione all’anagrafe del predetto Comune. Il richiedente ricorre così in Cassazione lamentando che l’Ufficiale dell’Anagrafe non ha proceduto alla registrazione della dichiarazione di residenza da lui resa, con la conseguenza che il delitto di falso ideologico ascrittogli non può considerarsi consumato bensì solo tentato. Falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico. La dichiarazione di residenza rientra nella previsione di cui all’art. 483 c.p., in quanto si configura come un atto destinato a provare la verità di un fatto, con l’obbligo del dichiarante di affermare il vero. Non rileva, pertanto, ai fini della consumazione del reato di falsità ideologica, che tale dichiarazione sia trasfusa in un atto pubblico distinto dalla medesima, posto che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono pienamente equiparate, agli effetti penali, agli atti pubblici poiché fatte a pubblico ufficiale, ex art. 75 del dPR n. 445/2000. La Suprema Corte rigetta quindi il ricorso affermando che, ai fini della consumazione del reato di falso ideologico, è sufficiente il rilascio della falsa dichiarazione di residenza, a prescindere che essa non sia poi mai stata iscritta nell’Anagrafe del Comune.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 maggio – 27 giugno 2018, n. 29469 Presidente Settembre – Relatore Fidanzia Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 20 ottobre 2016 la Corte d’Appello di Campobasso, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto ad un mese di reclusione la pena applicata dal primo giudice a F.F. per il delitto di cui all’art. 483 c.p., per aver attestato falsamente all’Ufficio Anagrafe del Comune di , in una dichiarazione di iscrizione all’anagrafe del predetto comune, di risiedere abitualmente in , circostanza non corrispondente ai vero. 2. Con atto sottoscritto dal proprio difensore ha proposto ricorso per cassazione l’imputato affidandolo ad un unico articolato motivo. È stata dedotta violazione di legge in relazione agli artt. 56 e 483 c.p. nonché vizio di motivazione. Lamenta il ricorrente che l’istruttoria dibattimentale ha escluso che l’Ufficiale dell’Anagrafe abbia dato corso alla registrazione della dichiarazione di residenza resa dal privato, con la conseguenza che il delitto ascritto non può considerarsi consumato bensì solo tentato. In particolare, la mancata registrazione all’Anagrafe della dichiarazione di Residenza incriminata comporta che la stessa dichiarazione non è stata trasfusa nell’atto pubblico, con conseguente mancata consumazione del reato. Considerato in diritto 1. Il ricorso non è fondato e va pertanto rigettato. Va osservato che, come emerge dalla ricostruzione del giudice di primo grado, la cui sentenza è stata confermata da quella impugnata, in data 21 giugno 2013 è stata protocollata al Comune di una dichiarazione di residenza con la quale il ricorrente, nella consapevolezza delle responsabilità penali per le dichiarazioni mendaci ai sensi degli artt. 75 e 76 DPR 445/2000, ha dichiarato di aver trasferito la propria residenza nel predetto comune, circostanza rivelatasi falsa. Il ricorrente contesta che sia stato consumato il delitto di falso ideologico sul rilievo che, non essendo tale dichiarazione stata mai iscritta all’Anagrafe del suddetto comune, la stessa non sarebbe mai stata trasfusa in un atto pubblico, come richiesto dall’art. 483 c.p Questo Collegio non condivide l’impostazione giuridica del prevenuto. Va preliminarmente osservato che la dichiarazione di residenza rientra nella previsione di cui all’art. 483 c.p., essendo un atto destinato a provare la verità di un fatto a norma dell’art. 46 lett. b DPR 445/2000, collegandosi proprio tale efficacia probatoria al dovere del dichiarante di affermare il vero. Né rileva ai fini della consumazione del reato che tale dichiarazione sia trasfusa in un atto pubblico distinto dalla medesima, atteso che, a norma dell’art. 75 legge citata – emanata per venire incontro all’esigenza di semplificazione della documentazioni amministrativa tra pubbliche amministrazioni e privati cittadini - le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono state pienamente equiparate agli effetti penali agli atti pubblici, essendo considerate come fatte a pubblico ufficiale il quale ovviamente le raccoglie in un atto pubblico . Dunque, come già affermato da questa Corte vedi parte motiva sez 5 n. 25927 del 7.2.2017, Rv. 270447 , le dichiarazioni rese ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000 devono essere incluse tra gli atti pubblici, con ogni conseguenza derivante dalla falsità delle medesime. Nel caso di specie, alla luce di quanto sopra osservato, ai fini della consumazione del falso ideologico è stato sufficiente il rilascio da parte del ricorrente della falsa dichiarazione di residenza, a prescindere dal rilievo che la stessa non sia poi mai stata iscritta nell’Anagrafe del Comune. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.