La Cassazione ribadisce le caratteristiche del c.d. metodo mafioso, ai fini dell’integrazione della relativa circostanza aggravante

La Suprema Corte interviene per riaffermare la propria esegesi in ordine alla circostanza di cui all’art. 7, d.l. n. 152/1991 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 203/1991 .

Si tratta di una materia frequentemente oggetto di doglianze difensive in sede di legittimità e, conseguentemente, caratterizzato da parametri ermeneutici consolidati nel corso degli anni, che hanno chiarito il perimetro applicativo di una fattispecie connotata, da un lato, da componenti di impronta socio-criminologica e dall’altro, dall’istanza tesa ad anticipare la soglia di punibilità, propria di ogni legislazione emergenziale. A margine della tematica principale, poi, vengono affrontati anche le altre plurime criticità denunciate dagli atti introduttivi, alcune delle quali sono state ritenute esorbitanti lo scrutinio operabile in questo grado di giudizio. Il caso. L’inchiesta prendeva le mosse, diversi anni fa, dalle azioni poste in essere dal sodalizio composto dai tre imputati, di origini calabresi, che, in concorso tra loro e con altre persone non identificate, progettavano, si coordinavano e realizzavano un sequestro di persona, aggravato dal c.d. metodo mafioso. Ad esito del processo, celebrato con rito abbreviato, il Tribunale di Roma condannava i futuri ricorrenti, applicata la relativa diminuente, alle rispettive pene di anni sei ed anni quattro di reclusione. La Corte territoriale dunque, pronunciandosi sui gravami proposti da entrambi, riformava unicamente quod poenam la prima sentenza, rideterminando le sanzioni irrogate in concreto, sulla scorta – per uno dei due – dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, in anni 3, mesi 6 e giorni 20 per il primo ed anni 3, mesi 1 e giorni 10 per il secondo. Gli appellanti, quindi, ricorrevano in Cassazione, per il tramite dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo error in iudicando e carenze motivazionali, per la generica e carente giustificazione della ricorrenza dell’aggravante di legge speciale, basata su asserzioni di puro principio, riconducibili alla regola per la quale la mera appartenenza a famiglie espressione del vincolo associativo costituirebbe, di per se stessa, prova dell’assunto erronea applicazione della legge penale, con riguardo al dolo del delitto ascritto, che, per uno dei due impugnanti, non sarebbe provato, essendosi costui allontanando dal luogo dell’azione prima che la condotta fosse compiutamente consumata e, per altro verso, alla mancata riqualificazione dell’accusa in violenza privata, domandata dalla difesa, che sostenevano mancassero i requisiti del c.d. concorso anomalo omessa o contraddittoria motivazione, infine, circa l’individuazione, a monte del computo sanzionatorio, della c.d. pena base. La V Sezione – su parere sostanzialmente difforme del Procuratore generale, che aveva chiesto che i ricorsi fossero dichiarati inammissibili – rigetta le impugnazioni, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Il Collegio tenta di e riesce, a fatica, a organizzare partitamente l’esposizione delle diverse questioni poste sul tappeto, accorpando la spiegazione di quelle dirette a criticare gli stessi punti dell’iter argomentativo della decisione d’appello. L’Estensore tuttavia, prima di affrontare il nodo centrale, si occupa d’esaminare una censura reputata logicamente preliminare, afferente l’invocata riqualificazione dell’imputazione in violenza privata. Il rapporto tra sequestro di persona e violenza privata. I due precetti in questione, pur essendo accomunati dall’elemento materiale della costrizione del soggetto passivo, si distinguono per il bene protetto nel primo caso, la libertà di movimento nel secondo, la libertà psichica di autodeterminazione della vittima. Nella fattispecie, pur non essendo messa in dubbio la permanente disponibilità, da parte del sequestrato, del proprio cellulare, i Giudici d’appello avevano già evidenziato come tale possibilità non fosse sintomo di una asserita capacità di movimento, quanto, piuttosto, della volontà di consentire a quest’ultimo di comunicare alla propria famiglia le precise circostanze in cui era stato prelevato con violenza, aumentando l’efficacia, così, del messaggio intimidatorio verso i rivali. Tali principi sono stati ben governati dalla Corte di secondo grado e, pertanto, le relative doglianze devono essere rigettate. Il metodo delle mafie. La parte motiva passa quindi alla disamina del tema centrale, concernente il modo con il quale inferire la sussistenza della circostanza aggravante in discussione. Gli Ermellini evidenziano, a tal proposito, come stante la funzione di reprimere il metodo delinquenziale mafioso, utilizzato anche dal criminale che non faccia parte del sodalizio criminoso il fatto tipico sia qui connesso non alla struttura ed alla natura del delitto rispetto al quale viene prefigurata, ma alle modalità esecutive del fatto-reato [che] devono essere espressione e devono evocare la forza intimidatrice del vincolo associativo si cita, sul punto, Cass., Sez. VI Pen., n. 41772/2017, Vicidomini, RV. 271103 . Forza che aveva trovato limpida manifestazione nelle condotte contestate. Nel caso concreto, infatti, i Giudici del gravame avevano condivisibilmente valorizzato il fatto che gli agenti e la vittima fossero pacificamente appartenenti a famiglie che, in ambito ‘ndranghetistico, erano riconosciute come rivali” le dichiarazioni dell’imputato non ricorrente che, nel contesto della sua collaborazione con la Direzione Distrettuale Antimafia di Torino, aveva ricostruito le ragioni dell’episodio, inquadrabile come tentativo di lanciare un messaggio” alla cosca rivale le concrete modalità in cui l’azione era stata perpetrata, dirette non lasciare dubbi sulla matrice del sequestro, al fine di proseguire il dialogo” con i propri antagonisti criminali. Gli ulteriori motivi di ricorso, infine, pervengono ad analogo risultato. Conclusioni. La sentenza in commento, malgrado non possa definirsi concisa, consegue l’obiettivo difficile di descrivere organicamente i molti profili di pregnanza di un processo relativo ad istituti, di penale sostanziale, di certo interesse. Sarà quindi un’utile ed aggiornato punto di riferimento per chi debba procedere a complesse valutazioni difensive, nell’ottica della prognosi circa le conseguenze processuali di reati caratterizzati da un’indubbia gravità, ma oscillanti, talvolta, tra cc.dd. criminalità comune e criminalità organizzata.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 marzo – 21 maggio 2018, n. 22554 Presidente Pezzullo - Relatore Caputo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza deliberata, all’esito del giudizio abbreviato, il 21/01/2016, il Tribunale di Roma dichiarava M.R. e B.G.O. colpevoli, in concorso tra loro, con A.S. e con altre persone non identificate, del delitto di sequestro di persona aggravato dalla circostanza del metodo mafioso di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 1991, n. 203 in danno di C.V. e, con la diminuente per il rito, condannava il primo alla pena di anni 6 di reclusione e il secondo alla pena di anni 4 di reclusione. Investita dei gravami degli imputati, la Corte di appello di Roma, con sentenza deliberata il 21/12/2016, ha applicato a M. le circostanze attenuanti generiche, riducendo la pena irrogata ad anni 3, mesi 6 e giorni 20 di reclusione, e rideterminato la pena irrogata a B. nella misura di anni 3, mesi 1 e giorni 10 di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado. 2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione M.R. , attraverso il difensore avv. F. Lojacono, articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il primo motivo denuncia erronea applicazione dell’art. 7 cit. e vizi di motivazione. Erroneamente la sentenza impugnata ha affermato che la mera appartenenza a sodalizi mafiosi dei soggetti coinvolti nel reato peraltro non provata nel caso di specie integra la circostanza aggravante, laddove la finalizzazione della condotta delittuosa rileva solo nella diversa ipotesi della finalità agevolativa, tanto più che in modo ondivago la Corte di appello ha fatto riferimento ora a pendenze economiche tra le due famiglie, ora alla sollecitazione di un chiarimento circa le accuse di infamità che la famiglia C. avrebbe indirizzato alla famiglia M. . La sentenza impugnata non ha fornito congrua e specifica dimostrazione degli elementi caratterizzanti la circostanza aggravante, ossia l’impiego di una condotta violenta e minacciosa che trascenda quella insita in qualsiasi delitto contro la persona, tanto più che, nel caso di specie, durante il lasso di tempo qualche ora in cui la vittima era rimasta con i sequestratori, la stessa non era stata privata del telefono, con il quale manteneva anzi i contatti con i familiari. Del tutto apodittica, in mancanza di qualsiasi contestazione ex art. 582 cod. pen., è l’affermazione che la condotta violenta sarebbe stata provata da segni di recenti lesioni al volto della vittima, il cui comportamento reticente neppure può dimostrare l’impiego di modalità mafiose, posto che la stessa sentenza impugnata afferma che detta condotta era stata determinata dall’intento di non rivelare le ragioni dell’accaduto, ossia gli interessi occulti del nucleo familiare della vittima e non dalla postulata condizione di coazione psicologica cui la stessa sarebbe stata sottoposta. A fronte della censura difensiva incentrata sul fatto che nei confronti di A.S. non è mai stata contestata la circostanza aggravante, la Corte di appello, da un lato, afferma che il procedimento a carico del concorrente era stato avviato quando non erano emerse le finalità di M. , mentre, dall’altro, evidenzia che già le prime indagini avevano consentito di accertare il legame del concorrente con M. , al quale già dalle contestazioni in vista dell’interrogatorio di garanzia del 05/03/2015, ossia meno di un mese dopo la condanna in primo grado A. 11/02/2015 , emergeva come fossero note le dinamiche afferenti ai contrasti tra le due famiglie per pregresse situazioni debitorie. 2.2. Il secondo motivo denuncia mancanza di motivazione sulla individuazione della pena base. 3. Avverso la medesima sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto altresì ricorso per cassazione B.G.O. , attraverso il difensore avv. C. Placanica, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. 3.1. Il primo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 110 e 605 cod. pen. e vizi di motivazione. La partecipazione al sequestro di B. , che si era limitato a fare da esca per la vittima, è esclusa dalle dichiarazioni accusatorie di M. , il quale ha riferito che il ricorrente sapeva solo dell’intenzione di dare un ceffone al ragazzo, non di portarlo via, e che se ne era andato poi con un’altra macchina, sicché non è stata accertata la sussistenza del dolo del sequestro di persona e la Corte di appello non ha articolato specifiche argomentazioni sul punto. 3.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 7 cit. e vizi di motivazione. Erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto che la mera appartenenza a famiglie riconducibili a contesti mafiosi integrerebbe, di per sé, la circostanza aggravante, dovendosi invece far riferimento al metodo utilizzato, che non può essere dedotto esclusivamente dalla ricostruzione dei rapporti tra le famiglie C. - Aquino e M. , laddove nel provvedimento impugnato non vi è alcun riferimento a circostanze dalle quali desumere il ricorso ad un presunto metodo mafioso contestuale al prelevamento di C. , ma solo richiami al colloquio della persona offesa con il padre detenuto e all’atteggiamento poco collaborativo dello stesso C. . 3.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 610 e 116 cod. pen. e vizi di motivazione. I giudici di merito hanno omesso di motivare in ordine all’applicazione dell’art. 116 cod. pen. richiesta dalla difesa, posto che l’imputato non si era in alcun modo rappresentato che C. potesse essere trattenuto dagli altri protagonisti della vicenda, sicché, non essendosi rappresentato l’evento più grave, sussiste l’ipotesi del concorso anomalo. Quanto all’invocata riqualificazione del fatto quale violenza privata, C. ha sempre avuto la disponibilità del telefono cellulare, utilizzato più volte, sicché è sempre stato in contatto con altre persone, il che, in assenza di misure coercitive sul corpo, rendeva l’azione inidonea al risultato della privazione della libertà personale della vittima. Considerato in diritto 1. I ricorsi devono essere rigettati. 2. In ordine di priorità logico-giuridica, occorre muovere dall’esame della censura, articolata con il terzo motivo del ricorso nell’interesse di B. , relativa alla invocata riqualificazione del fatto sub specie di violenza privata essa è inammissibile, per plurime, convergenti ragioni. In premessa, mette conto ribadire che il delitto di violenza privata, preordinato a reprimere fatti di coercizione non espressamente contemplati da specifiche disposizioni di legge, ha in comune con il delitto di sequestro di persona l’elemento materiale della costrizione, ma se ne differenzia perché in esso viene lesa la libertà psichica di autodeterminazione del soggetto passivo, mentre nel sequestro di persona viene lesa la libertà di movimento Sez. 5, n. 44548 del 08/05/2015, Rv. 264685 conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 10543 del 31/10/2014 - dep. 2015, Pizzardi, Rv. 263453 Sez. 1, n. 36465 del 26/09/2011, Misseri, Rv. 250812 . La Corte distrettuale ha fatto buon governo del principio di diritto richiamato, escludendo la configurabilità del meno grave reato di violenza privata sulla base del rilievo che la vittima fu privata della libertà personale per diverse ore. Le doglianze del ricorrente fanno leva sulla disponibilità, in capo a C. , del telefono cellulare durante il sequestro, ma la sentenza impugnata ha puntualmente esaminato la questione, osservando che l’utilizzo del cellulare da parte della vittima nelle ore in cui rimase in balia dei sequestratori rappresentò un espediente di questi ultimi funzionale a far giungere ai familiari della persona offesa il messaggio mafioso che il M. intendeva inviare . Il ricorso reitera censure oggetto di specifico esame da parte del giudice di appello, che le ha disattese con motivazione in linea con i dati probatori richiamati e immune da vizi logici, il che rende ragione della manifesta infondatezza della censura e della mancanza di confronto critico con le argomentazioni della sentenza impugnata. 3. Le censure proposte dal primo motivo del ricorso nell’interesse di M. e dal secondo motivo del ricorso nell’interesse B. in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 1991, n. 203 non meritano accoglimento. 3.1. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la fattispecie circostanziale in esame ha la funzione di reprimere il metodo delinquenziale mafioso , utilizzato anche dal criminale che non faccia parte del sodalizio criminoso ed in tal caso la tipicità della condotta delittuosa circostanziata è connessa non alla struttura ed alla natura del delitto rispetto al quale la circostanza è contestata, quanto, piuttosto, al metodo utilizzato, nel senso che le modalità esecutive del fatto-reato devono essere espressione e devono evocare la forza intimidatrice del vincolo associativo Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103 viene in rilievo, in altri termini, un comportamento idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Capuozzo, Rv. 264900 . Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 7 cit., è dunque necessaria la sussistenza di un comportamento minaccioso tale da richiamare nel soggetto passivo del reato quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un’associazione di tipo mafioso Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, De Paola, Rv. 257065 . 3.2. La motivazione della sentenza impugnata in ordine alla conferma del giudizio di sussistenza della circostanza aggravante è in linea con la configurazione della stessa delineata dalla giurisprudenza di legittimità. La Corte di appello osserva, in primo luogo, che l’episodio ha coinvolto esponenti di famiglie della ‘ndrangheta reggina, in quanto la vittima è figlio di Salvatore, capo, unitamente al fratello Giuseppe, della ‘ndrina C. -Aq. -S. di omissis , mentre M.R. risulta esponente di spicco dell’omonima ‘ndrina di omissis il fratello di quest’ultimo ha avviato una collaborazione con la Direzione Distrettuale Antimafia di Torino, nell’ambito della quale aveva raccontato dei rapporti di cointeressenza economica tra i due sodalizi. M.R. , osserva ancora la sentenza impugnata, ha offerto, in occasione dell’interrogatorio di garanzia, una chiave di lettura delle ragioni sottostanti l’episodio. inquadrandolo nella rivalità tra la sua famiglia e quella di C. , i cui componenti avrebbero diffuso voci malevoli sul conto dei M. . Di qui la necessità di un messaggio da inviare ai familiari della vittima, ossia, per riprendere le espressioni della conforme sentenza di primo grado, la necessità di lanciare un messaggio forte alla famiglia rivale, per ripristinare la rispettabilità dei M. verosimilmente compromessa dalla collaborazione del fratello R. nell’ambito della ‘ndrangheta omissis , un messaggio che, nella ricostruzione della Corte distrettuale, consisteva appunto nel dare una lezione al giovane C. , comunicandogli un messaggio da girare ai suoi familiari, i quali avrebbero dovuto immediatamente smettere di far circolare maldicenze sul conto dei M. messaggio, dunque, destinato ad evocare la forza intimidatrice del vincolo associativo Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, cit. , esercitando una particolare coartazione psicologica sui destinatari Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, cit . Nei termini indicati, la sentenza impugnata ha dato conto della sussistenza, nel caso di specie, della circostanza aggravante, prendendo in considerazione il fatto di sequestro nel suo complessivo svolgimento e non già con riguardo alle sole modalità - peraltro violente, come comprovato da una pluralità di elementi, non scalfiti dal fatto che non si proceduto per lesioni personali - con le quale C. fu prelevato e caricato a forza sull’auto dei sequestratori prive di fondamento sono dunque le doglianze proposte dal ricorso nell’interesse di B. che fanno leva sulle - sole - circostanze relative al primo segmento del reato di sequestro di persona. Il fatto, complessivamente valutato, ha assunto, nel percorso argomentativo della Corte di appello, una valenza di messaggio intimidatorio indirizzato da M. alla famiglia C. per far cessare comportamenti lesivi del prestigio criminale della famiglia del primo il fatto-reato ha assunto, dunque, un’oggettiva valenza dimostrativa e, allo stesso tempo, ripristinatoria della forza intimidatrice del vincolo associativo Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, cit. dei M. , concretizzandosi in un comportamento minaccioso tale da richiamare in C.V. e nei suoi familiari il significato di un’intimidazione mafiosa Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, De Paola, cit. . La Corte di appello, con motivazione in linea con i dati probatori richiamati e immune da vizi logici, ha dato dunque conto della riconoscibilità nel fatto degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale, in termini che, all’evidenza, non sono certo comuni alla generalità dei reati contro la persona e, segnatamente, del reato di sequestro di persona non colgono quindi nel segno le censure del ricorso nell’interesse di M. che denunciano una sovrapponibilità della fattispecie aggravata rispetto alla fattispecie semplice, nella sua comune modalità di realizzazione, sovrapponibilità esclusa dalla valenza di messaggio intimidatorio che il sequestro del giovane C. ha assunto. Valenza, questa delineata dai giudici di merito, che priva di consistenza l’ulteriore censura del ricorso di M. basata sul rilievo che C. ebbe, durante il sequestro, la disponibilità del proprio telefono cellulare come ha rilevato la Corte di appello, infatti, si trattò di un espediente funzionale a far giungere ai familiari della vittima il messaggio mafioso che M. intendeva inviare rilievo, questo della sentenza impugnata, non oggetto di specifica disamina critica da parte dell’impugnazione. I rilievi del giudice di appello in ordine ai pregressi rapporti tra i due gruppi familiari comprese le dichiarazioni del collaboratore di giustizia della famiglia M. giovano a mettere in luce il solo contesto all’interno del quale va collocato il fatto, mentre quelli concernenti gli accadimenti successivi compresi la reticenza del giovane C. e il suo rientro in Calabria sono funzionali, nel percorso argomentativo della Corte distrettuale, a ribadire la valenza di messaggio intimidatorio rivestita dal sequestro valenza già dimostrata dai dati probatori richiamati dalle concordi sentenze di merito e, in particolare, dalle dichiarazioni dello stesso M.R. gli uni e gli altri non integrano dunque il nucleo essenziale del ragionamento che ha condotto i giudici di merito a ritenere sussistente la circostanza aggravante in esame, sicché le censure articolate al riguardo dai ricorrenti risultano, in radice, inidonee a disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516 . Quanto alla mancata contestazione della circostanza aggravante ex art. 7 cit. al concorrente A. , giudicato separatamente, la Corte distrettuale ha spiegato che il processo nei confronti di questi si è svolto quando le indagini preliminari non avevano consentito di disvelare le finalità sottese al sequestro il ricorso di M. censura questo passaggio della motivazione della sentenza impugnata, ma dalle stesse deduzioni del ricorrente emerge che l’interrogatorio di garanzia di M. fu successivo alla deliberazione della sentenza di primo grado nei confronti di A. , il che priva di consistenza la doglianza. 4. Il secondo motivo del ricorso nell’interesse di M. non merita accoglimento. La sentenza di primo grado aveva determinato la pena per la fattispecie semplice in anni 6 e mesi 6 di reclusione, rimarcando il ruolo dell’imputato di impulso e di organizzazione dell’azione criminosa e del concorso dei partecipi. La sentenza di appello ha ridotto la pena base ad anni 6 di reclusione, implicitamente ricollegandosi alle valutazioni del giudice di primo grado, mitigandone la determinazione della pena-base e applicando le circostanza attenuanti generiche con una sensibile riduzione della pena finale , il che rende ragione dell’infondatezza della censura. 5. Anche le ulteriori doglianze del ricorso di B. non meritano accoglimento. Le conformi sentenza di merito hanno ricostruito il complessivo ruolo del ricorrente, che aveva raggiunto Roma dalla Calabria tre giorni prima del sequestro, aveva pernottato in un albergo poco vistoso che non registrava i clienti, aveva compiuto ben due sopralluoghi nei pressi dell’abitazione di C. per stabilire tempi e modi di esecuzione del sequestro e, dopo il rilascio della vittima, era ripartito, la sera stessa, con A. per la Calabria. A fronte della motivazione dei giudici di merito, la tesi articolata con il primo motivo secondo cui B. si sarebbe limitato a fare da esca per la vittima, era a conoscenza dell’intenzione di dare un ceffone a C. e si era poi allontanato su una macchina diversa da quella in cui fu caricato è del tutto carente della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata che si fondano, come si è visto, sulla valutazione complessiva degli accadimenti e delle condotte dell’imputato e quelle poste a fondamento dell’impugnazione Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849 e, comunque, articola, al più, inammissibili censure di merito, volte a sollecitare a questa Corte una rivisitazione esorbitante dai compiti del giudice di legittimità della valutazione del materiale probatorio che la Corte distrettuale ha operato, sostenendola con motivazione coerente con i dati probatori richiamati ed immune da vizi logici. Analoghi rilievi valgono per la doglianza sulla sussistenza degli estremi del concorso anomalo articolata con il terzo motivo. Premesso che, in tema di concorso di persone nel reato, sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo qualora l’evento ulteriore, benché prevedibile in quanto collegato da un nesso di pura eventualità rispetto al delitto base programmato, non sia stato dall’agente voluto neppure nella forma del dolo indiretto, laddove, invece, ricorre l’ipotesi del concorso ex art. 110 cod. pen., ove l’agente abbia effettivamente previsto l’evento o comunque accettato il rischio del suo verificarsi Sez. 1, n. 11595 del 15/12/2015 - dep. 2016, Cinquepalmi, Rv. 266647 conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 39339 del 08/07/2009, Rizza, Rv. 245152 , sicché la responsabilità del compartecipe ex art. 116 cod. pen. può essere configurata solo quando l’evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto Sez. 2, n. 48330 del 26/11/2015, Lia, Rv. 265479 conf., ex plurimis, Sez. 2, n. 49486 del 14/11/2014, Cancelli, Rv. 261003 , la Corte distrettuale ha confermato l’affermazione di responsabilità del ricorrente a titolo di concorso ex art. 110 cod. pen. sulla base della complessiva ricostruzione dei fatti, in sintesi, richiamata ricostruzione, anche sotto questo profilo, non sottoposta a specifica disamina critica da parte del ricorso, che, sul punto, articola, in buona sostanza, censure di merito estranee alla cognizione devoluta a questa Corte. 6. I ricorsi, pertanto, devono essere rigettati e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.