Riqualificazione giuridica e derubricazione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni: quando è possibile?

Si ritiene integrato il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando la condotta minacciosa si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume di per sé i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva.

Lo ha precisato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 50100/17, depositata il 2 novembre. Il caso. La Corte d’Appello di L’Aquila confermava la sentenza con cui il Giudice di prime cure aveva affermato la penale responsabilità di C.M. per i reati di sequestro di persona, tentata estorsione aggravata e lesioni aggravate commessi in danno di M.W Avverso la decisione de qua ricorreva per Cassazione l’imputato, deducendo plurimi motivi di gravame, tra cui in primis , inosservanza od erronea applicazione dell’art. 192, comma 2, c.p.p. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in secundis , violazione degli articoli 393 e 629 c.p. nonché vizio motivazionale in relazione alla mancata derubricazione del più grave delitto di estorsione in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone. La II sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibili i suddetti motivi di ricorso, ha avuto modo di riprendere e consolidare due importanti principi di diritto di natura, rispettivamente, processuale e sostanziale. La violazione delle regole di valutazione della prova indiziaria. In primo luogo, con precipuo riferimento alla dedotta violazione dell’art. 192, comma 2, c.p.p. e, quindi, delle regole di valutazione della prova indiziaria, i Supremi Giudici hanno chiarito come la giurisprudenza di legittimità è ormai assolutamente pacifica e costante nel ritenere che sia inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione di detta disposizione se fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606, comma 1, lett. e , c.p.p., afferenti cioè la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto. In altri termini, precisa ulteriormente la Corte Regolatrice, nel giudizio di legittimità il sindacato sulla correttezza dell’apprezzamento delle risultanze indiziarie non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi, chiaramente riservata in via esclusiva al giudice di merito, ma deve tradursi nel controllo logico e giuridico della struttura della motivazione, al fine di verificare se sia stata data esatta applicazione ai criteri legali dettati dall’art. 192, comma 2, c.p.p. e se siano state coerentemente applicate le regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori. Il discrimine tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni il soggetto agente e la condotta tipica. Per quanto concerne, poi, la ritenuta violazione degli artt. 393 e 629 c.p. e, per l’effetto, la erronea mancata riqualificazione giuridica del fatto di reato dalla fattispecie di estorsione a quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la Corte di legittimità ha anzitutto statuito come tale ultima ipotesi delittuosa, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quella estorsiva, tra i cosiddetti reati esclusivi, configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto donde, nel caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso del terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, mentre qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 c.p In effetti, i delitti di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone si distinguono tra loro in relazione non già alla sussistenza o meno di una legittima pretesa di credito alla base della condotta, ma con riferimento alle modalità oggettive della richiesta, configurandosi il reato di estorsione in tutti i casi nei quali l’azione delittuosa è posta in essere non direttamente dal titolare del diritto ma da soggetti terzi che perseguono propri fini, di qualsiasi natura, che si sovrappongono a quelli del creditore, ovvero con modalità esecutive che esorbitano dalla esclusiva finalità dell’esercizio della pretesa creditoria, assumendo di per sé il carattere dell’ingiustizia. Conclusivamente, si ritiene integrato il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando la condotta minacciosa si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume di per sé i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 20 settembre – 2 novembre 2017, n. 50100 Presidente Diotallevi – Relatore De Santis Ritenuto in fatto 1. Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di L’Aquila confermava il giudizio di penale responsabilità del C. in relazione ai delitti di sequestro di persona, tentata estorsione aggravata e lesioni aggravate in danno di M.W. , nonché la pena inflitta pari ad anni due di reclusione ed Euro 400,00 di multa, accordando - oltre alla già riconosciuta sospensione condizionale - il beneficio della non menzione. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato a mezzo del difensore, deducendo 2.1 la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 192 comma 2 cod.proc.pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. La difesa del ricorrente censura in via preliminare l’assunto della Corte territoriale che vorrebbe incontestata la ricostruzione storica dei fatti, evidenziando come il gravame interposto dal C. contestasse sotto ogni aspetto i fatti ascritti, e denunzia che la sentenza impugnata ha fatto malgoverno dei principi in materia di valutazione della prova indiziaria, ritenendo dotati di univoca capacità rappresentativa i contatti telefonici intercorsi con A.M.V. nei giorni precedenti e successivi ai fatti, l’accento laziale dell’imputato, simile a quello del complice del predetto A. , le risultanze dei tabulati telefonici che attestano che il cellulare dell’imputato ha agganciato le celle di OMISSIS , luogo dei fatti, in un arco temporale che comprenderebbe quello di consumazione dei reati. In particolare, secondo il ricorrente i contatti con l’A. troverebbero spiegazione in comuni interessi, l’accento laziale del C. non ha attitudine indiziante, non essendosi mai proceduto a identificazione vocale del soggetto travisato che accompagnava l’A. e trattandosi – comunque - di elemento non individualizzante. Quanto alle risultanze dei tabulati evidenzia la difesa che alcun accertamento è stato effettuato sul cellulare dell’imputato per escludere disfunzioni e il raggio di copertura delle celle è molto ampio sicché non è possibile affermare con certezza la presenza di una persona in una zona determinata 2.2 la violazione degli artt. 393 e 629 cod.pen. nonché la carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata derubricazione del più grave delitto di estorsione in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone. Sostiene il ricorrente che, alla stregua dalle stesse dichiarazioni della p.o., consta che l’A. abbia agito con il dolo tipico del reato di cui all’art. 393 cod.pen., ritenendo che il M. si fosse appropriato della somma di Euro 750mi1a e di mobili, arredi e gioielli sequestrati presso l’abitazione dell’imputato dalla GdF, in relazione ai quali la p.o. era stata nominata custode giudiziario 2.3 la violazione degli artt. 43, 56, 110, 393 e 629 cod.pen. nonché la carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata assoluzione del C. dal reato di estorsione per difetto dell’elemento soggettivo del reato. La difesa evidenzia che non si rinvengono in atti elementi a sostegno del fatto che il C. abbia agito con il dolo del reato di estorsione mentre elementi convergenti dimostrano che l’imputato partecipò all’azione con la certezza di agire per realizzare una pretesa giusta e giuridicamente tutelabile, come emergente dal passaggio dell’intercettazione citata dalla sentenza impugnata nel corso della quale il ricorrente, parlando della vicenda a giudizio, asseriva di essersi interessato di gente bersagliata, gente che c’ha problematiche che gli hanno rubato cento milioni di Euro . Risulta pertanto erronea la motivazione spesa dalla Corte territoriale a pag. 14 laddove con riguardo all’ingiustizia della pretesa dell’A. il Collegio evoca una responsabilità concorsuale a titolo di dolo eventuale, nonostante l’incompatibilità con il tentativo costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità e il rilievo che la fattispecie ex art. 393 è caratterizzata dal dolo specifico. Sostiene la difesa che, nella specie, avrebbe dovuto trovare applicazione il disposto dell’art. 48 cod.pen. in materia di errore di fatto, riconoscendosi che l’A. aveva istigato il C. a collaborare con lui, falsamente rappresentandogli che si trattava di esercitare un diritto alla restituzione di beni trafugati, suscettibile di essere fatto valere dinanzi l’A.g. 2.3 la nullità della sentenza per errata applicazione degli artt. 582, 585 cod.pen. Secondo la prospettazione difensiva il fatto che l’imputato abbia mostrato un coltello - con il quale accidentalmente procurava un’abrasione sotto l’occhio sinistro alla p.o.- è circostanza insuscettibile di integrare l’aggravante dell’uso dell’arma in relazione alle lesioni contestate che andrebbero, invece, ritenute di natura colposa, con conseguente improcedibilità per difetto di querela 2.5 la violazione dell’art. 62 bis cod.pen. nonché la carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Ad avviso della difesa la Corte territoriale ha negato le generiche con motivazione illogica, valorizzando il dato che il C. abbia agito sotto la direzione di altra persona e sfruttato a fini illeciti le competenze acquisite nel campo della difesa personale senza considerare che l’imputato, come la stessa sentenza impugnata ammette, aveva evocato la necessità di tutelare una persona bersagliata , circostanza rilevante sotto il profilo dell’intensità del dolo e dei motivi a delinquere. Inoltre, il Collegio avrebbe impropriamente utilizzato il parametro della gravità del fatto sia per negare le circostanze ex art. 62 bis cod.pen. che nel giudizio di commisurazione della pena. Considerato in diritto 3. Il primo motivo è inammissibile. Devesi ribadire con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 192 cod.proc.pen. il principio reiteratamente affermato da questa Corte secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione di detta disposizione se fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e , cod. proc. pen., riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto Sez. 6, n. 13442 del 08/03/2016, De Angelis e altro, Rv. 266924 n. 43963 del 30/09/2013, P.c., Basile ed altri, Rv. 258153 . Infatti, nel giudizio di legittimità il sindacato sulla correttezza dell’apprezzamento delle risultanze indiziarie non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi, riservata in via esclusiva al giudice di merito, ma deve tradursi nel controllo logico e giuridico della struttura della motivazione, al fine di verificare se sia stata data esatta applicazione ai criteri legali dettati dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. e se siano state coerentemente applicate le regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori Sez. 1, n. 42993 del 25/09/2008, Pipa, Rv. 241826 Sez. 4, n. 19730 del 19/03/2009, Pozzi, Rv. 24350 Sez. 5, n. 602 del 14/11/2013, Ungureanu, Rv. 258677 . Pertanto, le censure proposte sono utilmente scrutinabili esclusivamente sotto il profilo dei vizi motivazionali cumulativamente denunziati e negli esatti limiti consentiti dall’art. 606, comma 1, lett. e cod. proc. pen. che preclude alla Corte una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, limitando il vaglio alla logicità della motivazione. Va, tuttavia, in proposito rilevato che le doglianze formulate sono sostanzialmente reiterative di quelle svolte nei primi due motivi d’appello, evasi dalla Corte territoriale con un apparato argomentativo ampio e privo di discrasie e aporie giustificative. In particolare, alcuna illogicità è ravvisabile nell’assunto della Corte territoriale pag. 4 circa la mancata contestazione da parte della difesa in sede di gravame della ricostruzione storica dei fatti , per tale intendendosi, all’evidenza, la ricostruzione della vicenda nel suo sviluppo fenomenico e la descrizione delle emergenze investigative acquisite nella fase delle indagini non certo la valutazione delle fonti probatorie operata dal primo giudice, avendo la sentenza impugnata analiticamente esposto le doglianze mosse al riguardo dall’appellante. Le ulteriori censure in questa sede articolate ripropongono testualmente i rilievi in ordine alla valenza indiziante dei contatti telefonici tra i coimputati, delle risultanze dei tabulati telefonici, della cadenza dialettale del correo dell’A. riferita dalla p.o., questioni tutte devolute alla Corte d’Appello che, dopo analitico scrutinio pag. 9-13 , le ha disattese riconoscendo agli elementi che fondano l’individuazione del C. quale complice dell’A. spessore, convergenza ed attitudine dimostrativa della responsabilità del prevenuto, giudizio che si sottrae al sindacato di legittimità siccome adeguatamente argomentato alla luce del coerente e complessivo apprezzamento delle emergenze processuali. 4. Ad analoghi esiti reiettivi deve pervenirsi con riguardo al secondo e terzo motivo che lamentano sotto plurimi profili la mancata derubricazione del delitto di tentata estorsione nella fattispecie ex art. 393 cod.pen., tenuto conto anche della peculiare posizione del ricorrente, concorrente dell’A. , preteso titolare del diritto alla restituzione dei beni asseritamente in possesso della p.o. La sentenza impugnata ha disatteso il gravame, dando conto che l’A. a seguito della dichiarazione di fallimento non aveva la giuridica disponibilità dei beni rivendicati né aveva legittimazione ad agire per la loro restituzione ed ha argomentato sulla ricorrenza del dolo concorsuale del ricorrente anche in forma eventuale. Il richiamo a titolo di addebito del tentativo di estorsione al dolo eventuale, peraltro operato dalla Corte territoriale in termini ipotetici e subordinati, come emerge a pag. 14, quantunque in contrasto con i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità è, comunque, privo del carattere di decisività e insuscettibile di incidere sulla tenuta logica della motivazione e sugli esiti decisori. Questa Corte, infatti, è costante nel ritenere che il dolo eventuale non sia compatibile con il delitto tentato Sez. 6, n. 14342 del 20/03/2012, R., Rv. 252565 Sez. 1, n. 25114 del 31/03/2010, Vismara, Rv. 247707 poiché, quando l’evento voluto non sia comunque realizzato e quindi manchi la possibilità del collegamento ad un atteggiamento volitivo diverso dall’intenzionalità diretta, la valutazione del dolo deve avere luogo esclusivamente sulla base dell’effettivo volere dell’autore, ossia della volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento materialmente verificatosi Sez. 1, n. 44995 del 14/11/2007, Rv. 238705, Strimaitis n. 5849 del 18/01/2006, Rv. 234069, Taddei . 4.1 Nella specie, ferme le corrette argomentazioni del giudice di merito in ordine all’inesigibilità della pretesa, con riguardo al profilo di responsabilità concorsuale che qui interessa la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi, configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto. Ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni per agevolazione, o anche morale , mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 cod. pen. Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa e altro, Rv. 268360 sulla differenza tra reato proprio e reato proprio esclusivo in ipotesi concorsuale, Sez. 1, n. 4820 del 05/02/1991, P.M. e Aceto ed altri, Rv. 187201 . Ciò in quanto i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sono posti a tutela del c.d. monopolio giurisdizionale nella risoluzione delle controversie, in forza del quale se in taluni casi ad esempio, in difetto di querela dell’offeso può tollerarsi che l’avente diritto si faccia ragione da se medesimo, non altrettanto tollerabile risulta l’intromissione del terzo, estraneo alla contesa, che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia. Nello stesso senso anche Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco e altri, Rv. 268630, secondo cui i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza e minaccia alle persone e quello di estorsione si distinguono tra loro in relazione non già alla sussistenza o meno di una legittima pretesa creditoria alla base della condotta, bensì con riferimento alle modalità oggettive della richiesta, configurandosi il reato di estorsione in tutti i casi nei quali l’azione delittuosa è posta in essere non direttamente dal titolare del diritto, ma da soggetti terzi, che perseguono propri fini - di qualsiasi natura - che si sovrappongono a quelli del creditore, ovvero con modalità esecutive che esorbitano dalla esclusiva finalità dell’esercizio della pretesa creditoria, assumendo di per sé il carattere di ingiustizia. Si legge in motivazione va osservato che il dato testuale della norma spinge a ritenere che l’esercizio arbitrario del diritto deve essere realizzata direttamente dal suo titolare la legge, nel descrivere la condotta nell’art. 393 cod. pen. adopera l’espressione si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo , inciso che accentua il carattere personalistico della condotta sottolineato con le parole si fa , da sé e medesimo , sicché la condotta illecita minaccia o violenza , perché sia integrata la fattispecie in esame, deve promanare dal titolare del diritto e non già da soggetti terzi privi di qualsivoglia titolarità della pretesa creditoria e che perseguono propri fini che si sovrappongono e trascendono quelli del creditore . 4.2 Nel caso a giudizio le sentenze di merito danno ampio conto del fatto che fu il ricorrente, all’uopo incaricato dall’A. pure presente ai fatti, a neutralizzare il M. una volta salito a bordo dell’autovettura dell’ex datore di lavoro, stringendogli al collo un laccio, accostandogli al volto un coltello e formulando minacce intese ad intimorirlo perché accedesse alle richieste di restituzione dei beni sequestrati e non è dato dubitare, alla stregua delle risultanze processuali, che ciò abbia fatto non per un malinteso spirito solidaristico nei confronti del coimputato sibbene per proprio tornaconto nell’ambito di quei lavori speciali cui talora ha dichiarato di prestarsi. Deve conclusivamente aggiungersi che, contrariamente all’assunto del ricorrente, in tema di discrimine tra i due reati in discorso è tutt’altro che superato l’orientamento giurisprudenziale che ritiene integrato il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando la condotta minacciosa si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume di per sé i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva tra le più recenti,oltre la già citata Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco e altri, Rv. 268630 Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini e altri, Rv. 270425 n. 51013 del 21/10/2016,Arcidiacono, Rv. 268512 n. 1921 del 18/12/2015 Li, Rv. 265643 n. 9759 del 10/02/2015, Gargiulo e altro, Rv. 263298 . E, nella specie, alla stregua delle sentenze di merito, non è revocabile in dubbio che la condotta del prevenuto sia stata caratterizzata da modalità esecutive dotate di un elevato coefficiente di violenza, espressive di una forza intimidatoria esorbitante qualsivoglia fine di autotutela. Da tanto discende l’irricevibilità delle censure in punto di qualificazione giuridica dei fatti. 5. Allo stesso modo manifestamente infondata appare la doglianza in ordine all’insussistenza dell’aggravante dell’uso dell’arma in relazione al delitto di lesioni. Deve,infatti, considerarsi che il coltello fu abbondantemente utilizzato dal prevenuto per minacciare il M. , cui l’arma fu puntata al volto, sicché la contusione bulbare prodotta in conseguenza di uno sbalzo dell’autoveicolo non può essere degradata a colposa in quanto conseguenza del cosciente e volontario utilizzo della stessa da parte del ricorrente, con addebito degli esiti lesivi quantomeno a titolo di dolo eventuale, stante la prevedibilità dell’attingimento della vittima per effetto di eventi connessi al traffico ovvero della reazione della p.o A tanto devesi aggiungere che la sussistenza dell’aggravante risulta integrata - alla stregua della contestazione sub C - anche con riguardo all’uso della corda che il C. strinse al collo della vittima e che gli cagionò il trauma compressivo certificato in atti dal momento che devono considerarsi armi improprie tutti gli strumenti, ancorché non da punta o da taglio, che in particolari circostanze di tempo e di luogo possono essere utilizzati per l’offesa alla persona senza che rilevi il fatto che si tratti di un uso momentaneo ed occasionale dello strumento atto ad offendere, poiché per la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 585, comma secondo, n. 2. cod. pen. non si richiede che concorra la contravvenzione di cui all’art. 4 I. n. 110 del 1975 Sez. 5, n. 12151 del 01/12/2011, Zorzit, Rv. 252144 n. 170 del 10/11/2005, Schiavone ed altri, Rv. 233118 . 6. Manifestamente infondato appare anche il quinto motivo che censura la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, avendo la Corte territoriale richiamato a sostegno della reiezione la gravità del fatto e la peculiare posizione del ricorrente che aveva messo a servizio dell’A. le proprie competenze in materia di arti marziali per scopi illeciti, con ciò denotando particolare spregiudicatezza e una peculiare intensità del dolo, giudizio non contrastato da alligazioni favorevoli in ordine alla meritevolezza del beneficio da parte del ricorrente. Né può ritenersi che il giudice d’appello sia incorso nella violazione del ne bis in idem sostanziale apprezzando la gravità del fatto sia per negare le attenuanti dell’art. 62 bis che a fini di quantificazione della pena giacché il giudice può tenere conto di uno stesso elemento quale, appunto, la gravità della condotta che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del ne bis in idem Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, P.G., Rechichi e altri, Rv. 264378 n. 933 del 11/10/2013,Debbiche Helmi e altri, Rv. 258011 Sez. 6, n. 45623 del 23/10/2013,Testa, Rv. 257425 . 6. Alla declaratoria d’inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria che, in considerazione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.500,00. All’imputato fanno, altresì, carico, le spese di assistenza e difesa della parte civile nell’odierno grado, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento a favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile M.W. che liquida in Euro 3.510,00 oltre accessori di legge, CAP ed IVA.