La caccia di casa e la licenzia: marito condannato

La condotta tenuta dall’uomo è stata ricostruita grazie alle parole della moglie, ritenuta attendibile nonostante la rabbia espressa per la separazione. Ad aggravare la sua posizione anche le minacce nei confronti della donna.

Rotto e irrecuperabile il rapporto tra moglie e marito. A testimoniarlo anche la rabbia della donna verso quello che è stato il suo compagno di vita ed è il padre di suo figlio. Ciò nonostante, però, le parole di lei sono comunque attendibili e sufficienti per condannare il coniuge, ritenuto colpevole di violazione degli obblighi di assistenza familiare” e di minaccia” nei confronti della consorte Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 35923/17, depositata il 20 luglio . Rabbia. Il quadro della vicenda tracciato tra primo e secondo grado pare inequivocabile. In sostanza, l’uomo ha prima costretto la moglie e il figlio minore ad allontanarsi dalla casa di famiglia e poi ha fatto mancare loro i mezzi di sussistenza . In particolare, egli ha privato la moglie del bancomat e poi l’ha anche licenziata, essendone il datore di lavoro . Per chiudere il cerchio, infine, l’uomo ha anche minacciato di morte la consorte, sia con un fucile che mimando il gesto del taglio della gola . A inchiodare l’uomo sono state proprio le parole della moglie, parole costategli in Appello una condanna a tre mesi e dieci giorni di reclusione . E questa sanzione è resa definitiva in Cassazione, dove viene ribadita la responsabilità del marito per l’assurda condotta tenuta. Punto centrale per i Giudici è la attendibilità della donna. Su questo fronte viene evidenziato che la rabbia da lei espressa per la irreversibilità della decisione di separarsi presa dal coniuge non la rende meno credibile quando racconta i comportamenti discutibili del marito. Anzi, i sentimenti della donna paiono comprensibili alla luce della posizione precaria in cui si è trovata all’improvviso, cioè senza casa, lavoro e mantenimento e con il figlio a carico . Complessivamente, però, quella rabbia, spiegano i Giudici, non è mai trasmodata nella formulazione di accuse calunniose nei confronti del marito. Invece, il quadro vessatorio denunciato dalla donna ha trovato significativi riscontri , comprese le sofferte ammissioni del figlio minore circa il totale disinteresse del padre , disinteresse manifestatosi anche a livello economico.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 28 giugno – 20 luglio 2017, numero 35923 Presidente Ippolito – Relatore Criuscolo Ritenuto in fatto 1. In riforma della sentenza emessa in data 29 aprile 2014 dal Tribunale di Roma, appellata da Ca. Ma., condannato per i reati di cui all'art. 570, comma primo e secondo numero 2, e 612 comma secondo, cod. penumero per essersi sottratto agli obblighi di assistenza familiare, costringendo la moglie Ve. Cr. ed il figlio minore ad allontanarsi dalla casa familiare nonché per aver fatto loro mancare i mezzi di sussistenza, privando la moglie del bancomat e licenziandola, essendone il datore di lavoro, nonché minacciandola di morte sia con il fucile che mimando il gesto del taglio della gola-, la Corte di appello di Roma ha riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche, ha ridotto la pena a mesi 3 e giorni 10 di reclusione e confermato nel resto la sentenza appellata. 2. Propone ricorso il difensore del Ca., che ne chiede l'annullamento per inosservanza o erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione. 2.1 Con il primo motivo deduce che la Corte di appello non ha tenuto conto delle censure formulate nell'atto di appello, con le quali si dubitava della corretta valutazione della testimonianza della persona offesa, operata dal giudice di primo grado, necessitante di riscontri si segnalavano aspetti rilevanti della consulenza tecnica, disposta dal Tribunale civile di Roma, nella quale la psicologa sottolineava l'incoerenza del racconto della donna si richiedeva la trascrizione integrale del contenuto di una registrazione al fine di verificare la pronuncia di minacce e si sollecitava una verifica delle dichiarazioni della querelante e di quelle dei testimoni Co. e Pe. di segno opposto. Si sottolinea la contraddittorietà della motivazione in punto di attendibilità della persona offesa, in quanto, da un lato, non esclude che la stessa sia mossa da spirito vendicativo, dall'altro, reputa le dichiarazioni attendibili per coerenza e spontaneità, trascurando che il desiderio di punire il coniuge poteva aver indotto la Ve. a sporgere denuncia per minaccia per farlo privare del fucile, conoscendone la passione per la caccia, ma la richiesta di trascrizione della registrazione della conversazione, valorizzata dalla Corte di appello, è stata ignorata, pur trattandosi di prova decisiva ai fini di un giudizio obiettivo dei fatti 2. con il secondo motivo deduce la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la Corte di appello non ha considerato che la contestazione ha ad oggetto la violazione dell'art. 570 cod. penumero per il periodo dal maggio 2011 al 29 aprile 2014, ma che per lo stesso reato, contestato a partire dal novembre 2013, l'imputato è stato assolto perché il fatto non costituisce reato con sentenza in data 8 marzo 2016 dal Tribunale di Roma. Sostiene che la Corte di appello ha trascurato il versamento di 24 mila Euro in favore della persona offesa, le difficoltà sopravvenute e la circostanza che l'allontanamento dalla casa coniugale fosse stata una decisione autonoma della querelante, elementi, invece, valutati dal Tribunale di Roma per il periodo che va dal novembre 2013 al 29 aprile 2014 chiede, pertanto, il riconoscimento della violazione del principio del ne bis in idem con rinvio alla Corte di appello di Roma per rideterminazione della pena 2.3 con il terzo motivo deduce il difetto di motivazione in ordine al diniego del beneficio di cui all'art. 175 cod. penumero , in quanto la motivazione si fonda su una condanna per un reato, in seguito depenalizzato, sebbene per un breve periodo. Considerato in diritto 1. Il ricorso è parzialmente fondato. Premesso che, trattandosi di doppia conforme, la motivazione della sentenza impugnata si salda a quella di primo grado, che contiene una completa disamina del quadro probatorio, le censure del ricorrente si risolvono nella richiesta di una non consentita rilettura delle risultanze probatorie a fronte di un percorso argomentativo dei giudici di merito esaustivo e non manifestamente illogico. Concordemente i giudici di merito hanno ritenuto attendibili le dichiarazioni della persona offesa, in quanto lineari, coerenti e persino documentate da conversazioni registrate dalla stessa e non contestate dall'imputato nella loro autenticità -sul punto la sentenza di primo grado precisa che l'imputato ha riconosciuto che le conversazioni erano realmente avvenute e ciò ne rendeva all'evidenza superflua la trascrizione richiesta nonché riscontrate dalle dichiarazioni della sorella Pa., la quale aveva riferito della indisponibilità del cognato a trovare soluzioni conciliative e del tono minaccioso con cui l'aveva sollecitata a convincere la sorella ad andare via di casa, in tal modo smentendo la versione dell'imputato sia quanto al rifiuto della moglie di accettare qualunque soluzione condivisa, sia quanto alla scelta autonoma della stessa di lasciare l'abitazione e di abbandonare il posto di lavoro. I giudici hanno, inoltre, valutato in termini obiettivi la relazione del c.t.u. nominato nel giudizio civile di separazione, dando atto del parere espresso dal consulente circa l'atteggiamento della Ve., non rispondente a funzioni genitoriali, ma ad un bisogno punitivo verso il marito, ma anche dell'analoga valutazione espressa sul profilo genitoriale del coniuge, parimenti ritenuto non adeguato per la mancanza di contatti con il figlio. I giudici di appello hanno condiviso la valutazione del giudice di primo grado sulla non incidenza di tale giudizio sull'attendibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni avevano trovato riscontro nelle dichiarazioni del figlio, tant'è che il Tribunale aveva affidato il minore solo alla madre, stante l'assenza del padre. Risultano anche valutate le altre testimonianze, già ritenute dal primo giudice inidonee ad inficiare l'attendibilità della persona offesa, in quanto quelle del Co. risultavano non significative perché relative ai buoni rapporti della coppia, esibiti in pubblico, e quelle della Pe. secondo la quale la Ve. aveva inizialmente reagito con tristezza alla decisione del marito di separarsi per un'altra donna e poi con rabbia, dopo aver preso atto dell'irreversibilità della decisione scarsamente attendibili per imprecisione e tendenza della teste a sovrapporre ai ricordi le proprie opinioni e interpretazioni dei fatti v. pag. 7-. Ebbene, i giudici di appello hanno ritenuto che, pur valutando le dichiarazioni della Pe. rispondenti alla effettiva degenerazione del rapporto ed al mutato atteggiamento della persona offesa, tale progressione risultasse del tutto comprensibile in ragione delle condizioni della donna, trovatasi improvvisamente senza casa, lavoro e mantenimento, con il figlio a carico, ma, soprattutto, hanno sottolineato che un simile stato d'animo non era trasmodato nella formulazione di accuse calunniose, in quanto il pesante quadro vessatorio descritto dalla denunciante aveva trovato significativi riscontri, tra i quali non andavano tralasciate le sofferte ammissioni del minore circa il totale disinteresse del padre. Del tutto giustificata è la valutazione in ordine all'inadempimento dell'imputato, stante l'ammissione dello stesso di aver omesso il versamento dell'assegno di mantenimento, sebbene giustificato da sopravvenute difficoltà economiche, ritenute non provate. Ed, infatti, sul punto già la sentenza di primo grado pag. 9 dava atto della sostanziale stabilità nel tempo dei redditi dell'imputato, risultante dalla documentazione prodotta dalla difesa, relativa agli anni dal 2009 al 2012, ma, ciò nonostante, a fronte dei provvedimenti emessi sia in sede di comparizione delle parti nel luglio 2011 sia nella sentenza del 30 luglio 2013, l'imputato aveva versato solo le prime sei mensilità sino al febbraio 2012, quando si era autoridotto l'assegno a 2-300 Euro, senza versare nulla per le spese straordinarie, stabilite a suo carico nella misura del 70%, così corrispondendo da marzo 2012 a ottobre 2013 solo 6.550 Euro, a fronte dei 22.250 Euro dovuti a titolo di assegno, e non versando nulla per il periodo successivo. La circostanza che nella sentenza di separazione fosse stato addirittura aumentato l'importo dell'assegno di mantenimento dimostra plasticamente che le dichiarazioni dell'imputato sulla propria capacità reddituale erano state ritenute inverosimili già dal giudice civile, che ne aveva anche revocato l'ammissione al gratuito patrocinio v. pag. 4 sentenza dell'8 marzo 2016 prodotta dalla difesa e di cui si dirà in seguito . Pertanto, la valutazione dei giudici di merito risulta corretta e conforme all'orientamento di questa Corte, secondo il quale l'incapacità economica dell'obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti fissati in sede civile, deve essere assoluta e deve integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti Sez. 6, numero 41362 del 21/10/2010 , mentre nel caso in esame, come concordemente ritenuto dai giudici di merito, l'imputato non ha dimostrato di versare in una situazione di assoluta ed incolpevole indigenza, si da rendere materialmente impossibile l'ottemperanza delle statuizioni civili. 2. E' invece, fondato il secondo motivo. Come detto in precedenza la sentenza di primo grado da atto che l'imputato aveva adempiuto parzialmente nel periodo marzo 2012 ottobre 2013, senza versare nulla per il periodo successivo, cosicché la formulazione aperta della contestazione, con indicazione della sola data d'inizio dell'omissione da maggio 2011 reato permanente , autorizzava a ritenere cessata la permanenza alla data della sentenza di primo grado 29 aprile 2014 in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale Sez. 6, numero 33220 del 22/07/2015, Rv. 264429 . Risulta, tuttavia, che il 28 febbraio 2014 la Ve. presentò una nuova querela nei confronti dell'ex coniuge per denunciare l'omesso adempimento del mantenimento, stabilito con sentenza del 30 luglio 2013 dal Tribunale civile di Roma, per il periodo da novembre 2013 al febbraio 2014 che nel corso del giudizio la querelante ha confermato il perdurante inadempimento del Ca., che, all'esito del procedimento, è stato assolto con sentenza ex art. 530, comma secondo, cod. proc. penumero perché il fatto non costituisce reato. La sentenza, pronunciata in data 8 marzo 2016, prima di quella impugnata, dà atto della parziale sovrapposizione del periodo di durata dell'omissione contestata e ritenuta dalla sentenza impugnata, che, all'evidenza, non può coprire anche il periodo precedente, decorrente dal novembre 2013, oggetto di separata querela e di un secondo giudizio penale, pena la violazione del principio del ne bis idem per tale ragione la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente alla condotta decorrente dal mese di novembre 2013 al 29 aprile 2014. Conseguentemente, va disposto il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per la rideterminazione della pena. 3. Anche il terzo motivo è fondato, essendo errata la motivazione del diniego del beneficio della non menzione della condanna per la persistente rilevanza penale del reato per cui vi era stata condanna. Dal certificato penale risulta che l'imputato aveva riportato una condanna per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, commesso nel '95, reato abrogato dall'art. 18 della I. 25 giugno 1999 con conseguente eliminazione dell'effetto preclusivo della condanna, risultante anche dal certificato in atti Sez. U. sentenza numero 209023 del 27/06/2001, Avitabile, Rv. 219223, in cui si afferma che l'abrogazione degli articoli 341 e 344 cod. penumero , disposta dall'articolo 18 I. 25 giugno 1999, numero 205, integra un'ipotesi di abolitio criminis disciplinata dall'articolo 2, secondo comma, cod. penumero , con la conseguenza che, se vi è stata condanna, ne cessano esecuzione ed effetti penali e la relativa sentenza deve essere revocata, ai sensi dell'articolo 673 cod. proc. penumero , dal giudice dell'esecuzione, al quale non è consentito modificare l'originaria qualificazione o accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, riqualificando come ingiuria aggravata dalla qualità del soggetto passivo articoli 594 e 61 numero 10 cod. penumero la condotta contestata come oltraggio e rideterminando, in relazione alla nuova fattispecie penale, la pena già irrogata v. anche per l'ipotesi di condanna per un fatto costituente reato, poi depenalizzato Sez. 4, numero 10564 del 13/01/2006, Ma., Rv. 233713 . Pertanto, anche su tale punto la sentenza va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condotta decorrente dal mese di novembre 2013 al 29 aprile 2014 e rinvia in ordine alla determinazione della pena ed al beneficio di cui all'art. 175 cod. penumero ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado dalla parte civile Cr. Ve., spese che liquida in complessivi Euro quattromila, oltre 15% per spese generali, Iva e Cpa.