Non c’è calunnia senza reato

La Corte torna a ribadire il consolidato orientamento secondo il quale la denuncia che non contenga gli estremi di un reato di per sé non costituisce calunnia, essendo necessario, perché questo reato possa configurarsi, l’alterazione in tutto o in parte della verità dalla quale possa derivare l’incolpazione per il detenuto.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 29783/17 depositata il 14 giugno. Il caso. La Corte d’appello di Trieste riformava la sentenza del Tribunale di Udine, che aveva dichiarato l’imputato responsabile del reato di calunnia ai danni del proprio avvocato. All’imputato veniva contestato di aver falsamente accusato il proprio legale, con denuncia-querela, di truffa e patrocinio infedele. In sede di merito era stato accertato che l’imputato avesse conferito mandato al legale e che quest’ultimo si fosse prontamente attivato per contestare il licenziamento e le retribuzioni dell’assistito, facendogli ottenere un accordo ed il trattamento di disoccupazione richiesto. In seguito l’imputato, richiedeva che il legale predisponesse l’insinuazione al passivo della società datrice di lavoro, richiesta alla quale l’avvocato non aderiva, non avendo ricevuto ancora alcun compenso. Secondo la Corte d’appello era da escludersi la sussistenza del fatto in ordine all’accusa di appropriazione indebita, mentre riteneva accertata la calunniosità dell’accusa di infedele patrocinio. Avverso tale sentenza il soccombente ricorreva in Cassazione. Erronea applicazione della legge penale. La Corte ritiene fondate le ragioni del ricorrente, in particolare la Cassazione rileva che il reato di cui all’art. 380 c.p. patrocinio infedele non era ipotizzabile in ordine al caso di specie. Perché sussista il patrocinio infedele, infatti, è necessario come elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento davanti all’autorità giudiziaria nell’ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con mandato . Nel caso in esame al momento della procedura conciliativa di lavoro non era in corso un processo effettivo ed attuale , pertanto non poteva considerarsi sussistente il reato in esame. È ormai principio assodato, infatti, che la denuncia che non contenga gli estremi di un reato, di per sé non costituisce calunnia, essendo necessario, perché questo reato possa configurarsi, l’alterazione in tutto o in parte della verità dalla quale possa derivare l’incolpazione per il detenuto. Incolpazione che non deve derivare dalla qualificazione giuridica data ai fatti dal denunciate, ma che deve essere contenuta negli elementi portati a conoscenza dell’autorità giudiziaria o di organi che abbiano obbligo di riferire a questa . Pertanto l’errore nell’applicazione della legge penale verificatosi il sede d’appello comporta l’annullamento della sentenza impugnata senza rinvio.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 30 marzo – 13 giugno 2017, n. 29783 Presidente Conti – Relatore Calvanese Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Trieste riformava la sentenza del Tribunale di Udine, che aveva dichiarato P.P. , all’esito di giudizio abbreviato, responsabile del reato di calunnia ai danni di N.C., condannandolo alla pena ritenuta di giustizia. 1.1. All’imputato era stato contestato di aver, con denuncia-querela presentata il 18 ottobre 2011, accusato falsamente la N. , che sapeva innocente, di reati di truffa e patrocinio infedele. In particolare, l’imputato aveva sostenuto di aver consegnato all’avvocato N. , che aveva assunto l’incarico di rappresentarlo in una controversia di lavoro per licenziamento, la somma di Euro 1.000 a titolo di onorario e fondo spese, senza che fosse rilasciata ricevuta, di non aver ottenuto l’assistenza legale, di aver richiesto invano l’avviso di parcella, di averla contattata invano e di averle consegnato, senza ottenerne la restituzione, materiale e documentazione. Era stato accertato in sede di merito che l’imputato aveva conferito mandato al legale il 27 novembre 2009 e quest’ultima si era attivata, chiedendo prima al datore di lavoro le retribuzioni e contestato il licenziamento, e poi avviando la prevista procedura di conciliazione davanti alla commissione provinciale, all’esito della quale era stato stilato un accordo, in base al quale il P. rinunziava all’impugnare il licenziamento, venendogli riconosciute delle somme tra le quali anche il compenso di 1.000 Euro per le spese legali , da liquidarsi entro date concordate con assegni circolari che il P. non aveva aderito all’accordo, per la mancanza del pagamento contestuale che il legale aveva fatto ottenere al cliente il trattamento di disoccupazione che il P. aveva preteso che il legale predisponesse una insinuazione al passivo della società datrice di lavoro, nel frattempo fallita, per le sue competenze professionali, richiesta alla quale il legale non aveva aderito, non avendo ricevuto nulla come compenso che ne erano seguite quindi insistenti telefonate del P. al legale nelle quali quest’ultima era stata minacciata di venire denunciata se non avesse provveduto all’insinuazione che il P. era all’epoca seguito anche da altro legale. 1.3. Secondo il primo giudice era da ritenersi falsa la affermazione della avvenuta consegna al legale delle somme indicate nella denuncia e della mancata restituzione degli oggetti consegnati, tenuto anche conto che la veridicità della versione della N. era suffragata dalla documentazione in atti che dimostrava che l’attività svolta dal legale a favore dell’imputato fosse stata esente da rilievi professionali. 1.4. La Corte di appello escludeva la sussistenza del fatto in ordine all’imputazione relativa all’accusa formulata di appropriazione indebita, in quanto non contenuta nella querela riteneva altresì non nodale la questione della dazione o meno della somma di 1.000 Euro, sulla quale si era concentrata la sentenza di primo grado, considerato anche che non risultava provata con granitica certezza mentre riteneva accertata la calunniosità della accusa di infedele patrocinio, in quanto dagli atti processuali emergeva l’ineccepibile adempimento da parte del legale del mandato ricevuto dall’imputato aveva redatto a favore del proprio assistito due querele, aveva ottenuto il pagamento di retribuzioni non corrisposte dal datore di lavoro, aveva instaurato la procedura di conciliazione, lo aveva assistito per l’ottenimento dell’indennità di disoccupazione. 2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen. - violazione di legge, in ordine agli artt. 368 e 380 cod. pen., in quanto non risulterebbe acquisito agli atti il decreto di archiviazione della denuncia presentata dall’imputato difetterebbe inoltre il presupposto del reato di patrocinio infedele della pendenza di una procedura dinnanzi all’autorità giudiziaria nella specie si trattava di procedura di conciliazione davanti all’Ispettorato del lavoro , con la conseguente non ravvisabilità del reato di calunnia, considerato che per le restanti accuse rivolte alla N. la Corte di appello non ha ravvisato gli estremi del reato - violazione di legge, in relazione agli artt. 42, primo comma, 368 e 380 cod. pen., in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato la mancanza di dolo. 3. La parte civile, Cristina N. , ha depositato, a mezzo del suo difensore, in vista dell’udienza una memoria difensiva, nella quale ha contestato la fondatezza del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito illustrate. 2. È assorbente rilevare la fondatezza della censura esposta nel primo motivo, con cui si eccepisce l’erronea applicazione della legge penale. La Corte di appello, focalizzando la condanna dell’imputato sulle sole accuse mosse al legale sulla conduzione della procedura conciliativa, non si è resa conto che in ordine a tale attività non era ipotizzabile il reato di cui all’art. 380 cod. pen Per la sussistenza del reato di patrocinio infedele è infatti necessaria, quale elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria nell’ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con il mandato, anche se la condotta non deve necessariamente estrinsecarsi in atti o comportamenti processuali tra le tante, Sez. 6, n. 28309 del 17/06/2016, Miserotti, Rv. 267096 . Il che ha portato ad escludere l’applicazione dell’art. 380 cod. pen. nel caso in cui la condotta infedele si riferisca a procedure non pendenti davanti all’autorità giudiziaria, ancorché poste in essere prima dell’instaurazione del procedimento e ad esso prodromiche Sez. 2, n. 13489 del 16/03/2005, Vanaria, Rv. 231159 . Nella fattispecie in esame, al momento della procedura conciliativa di lavoro attivata nel 2010 davanti alla speciale commissione non era in corso un processo effettivo ed attuale Sez. civ. 2, n. 18343 del 13/09/2004, Rv. 577016 . È principio più volte affermato che la denuncia che non contenga gli estremi di un reato, di per sé non costituisce calunnia, essendo necessario, perché questo reato possa configurarsi, l’alterazione in tutto o in parte della verità dalla quale possa derivare incolpazione per il denunciato. Incolpazione che non deve derivare dalla qualificazione giuridica data ai fatti dal denunciante, ma che deve essere contenuta negli elementi portati a conoscenza dell’autorità giudiziaria o di organi che abbiano obbligo di riferire a questa per tutte, Sez. 5, n. 11013 del 21/10/1993, Guercia, Rv. 196595 . L’errore nell’applicazione la legge penale comporta l’annullamento della sentenza impugnata, che deve essere pronunciato senza rinvio. In vero, la sentenza impugnata ha escluso la possibilità di pervenire con certezza alla prova della falsità in ordine alle altre accuse di truffa e di patrocinio infedele riguardanti l’insinuazione al passivo della procedura fallimentare contenute nella querela presentata dall’imputato. La Corte di appello ha affermato che la effettiva dazione al legale delle somme a titolo di competenze professionali risultava smentita soltanto da considerazioni di ordine logico, ma non confutata da prove certe. Sul punto, la stessa sentenza impugnata ha dato atto che le circostanze di fatto che avevano in primo grado dimostrato la falsità della querela sul punto risultavano contrastate con l’appello dall’imputato che aveva denunciato con il gravame il travisamento dei fatti appello che, secondo la sentenza impugnata, aveva trovato rispondenza negli atti processuali. L’avvenuta puntuale e completa disamina del materiale acquisito ed utilizzato nel giudizio di merito rende pertanto privo di utilità il giudizio di rinvio che non potrebbe in alcun modo colmare la situazione di vuoto probatorio storicamente accertato Sez. 6, n. 26226 del 15/03/2013, Savina, Rv. 255784 Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100 . 3. La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.