Sedicente avvocato: la rilevanza penale dell’attività professionale abusiva

Il compimento di atti che non sono attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione integra comunque il reato di esercizio abusivo di quest’ultima laddove detti atti siano compiuti con modalità tali da ingenerare il convincimento che l’attività sia posta in essere da un soggetto regolarmente abilitato.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, con la sentenza n. 7630/17 depositata il 17 febbraio. Un avvocato senza toga. Al protagonista della vicenda processuale oggetto della sentenza in commento non mancava soltanto la nera divisa dell’avvocato egli, infatti, non aveva conseguito neppure l’abilitazione a svolgere la professione forense. Eppure, da collaboratore di uno studio legale immaginiamo, quindi, con mansioni segretariali o comunque esecutive , gestiva” un sinistro stradale con esiti mortali rappresentando gli interessi dei congiunti della vittima. La situazione, però, doveva essergli scappata di mano perché, leggiamo in sentenza, gli si rimprovera di aver fatto prescrivere il diritto al risarcimento del danno. Come rimediare? Ma è semplice con due belle quietanze false, apparentemente provenienti da una nota compagnia assicuratrice. I parenti del defunto, così, percepivano soltanto una parte di quanto gli sarebbe spettato. Il caso approda tosto nelle aule di giustizia e il pseudo-avvocato, nelle scomode vesti di imputato, deve rispondere di falso materiale ed esercizio abusivo della professione legale. Non di truffa, però. Strano. Dalla prima imputazione si salva grazie all’intervento di recente depenalizzazione o civilizzazione? del falso materiale in scrittura privata, ma per la contestazione d’aver usurpato il ruolo di avvocato non c’è scampo. E insieme alla condanna arriva anche il risarcimento del danno per le parti civili. Una premessa processuale il ricorso per cassazione depositato da un incaricato. Con una sentenza forse destinata – per la pacificità dei principi affermati – a non fare storia”, gli Ermellini devono innanzitutto occuparsi di una questione processuale di rilevante impatto pratico. Nel caso di specie, infatti, il ricorrente aveva sottoscritto personalmente il ricorso per cassazione e la firma era autenticata dal difensore non cassazionista che, infine, aveva depositato il ricorso nell’interesse del proprio cliente. Le parti civili, che immaginiamo fossero sul piede di guerra per milioni di comprensibili ragioni, rintuzzavano l’imputato sostenendo l’inammissibilità del gravame. La Suprema Corte, sul punto, taglia corto e ribadisce un principio affermato anche dalle Sezioni Unite nel 2010 se l’atto di impugnazione di una parte privata è presentato in cancelleria da un incaricato non occorre alcuna autentica della sottoscrizione dell’impugnante. La ragione è semplice il codice di rito non richiede questo adempimento, consentendo invece espressamente che l’atto di impugnazione sia depositato in cancelleria da un delegato. Nel 2009, fra l’altro, la sesta sezione della Cassazione aveva affrontato un caso analogo a quello oggi prospettato, e aveva avuto modo di precisare che il ricorso per cassazione recante la firma del diretto interessato è ammissibile anche quando l’atto di impugnazione venga presentato dal difensore non cassazionista. In questa circostanza, inoltre, si affermava che l’autentica della sottoscrizione è un passaggio del tutto superfluo. Insomma, si privilegia – in assenza di elementi di dubbio – la conservazione degli effetti dell’impugnazione che sia certamente proveniente dal soggetto legittimato a proporla. L’orientamento appena riassunto, sempre che le riforme – eternamente in agguato – mantengano il diritto di proporre personalmente il ricorso per cassazione - forse sarà destinato a sempre più frequenti applicazioni, dato che l’accesso all’albo dei cassazionisti è diventato inutilmente? complicato. L’abusivo esercizio della professione i criteri di valutazione principali. Il passaggio più interessante della decisione, questione processuale a parte, è quello relativo alla individuazione dei criteri che consentono di affermare la sussistenza del delitto di esercizio abusivo di una professione. Dobbiamo fare a questo punto un passo indietro e partire dalle doglianze dell’imputato. Egli lamentava la non tipicità degli atti compiuti – presentazione delle quietanze per la firma e incasso di acconti - che, secondo tale impostazione, non sarebbero univocamente riferibili all’esercente la professione legale. I Supremi Giudici, però, superano la critica con agilità. Ciò che importa è il modo in cui gli atti incriminati” sono posti in essere. Questi, singolarmente intesi, possono anche non essere propri nel senso di esclusivamente tipici di una determinata professione per esercitare la quale occorra una abilitazione ma se essi sono posti in essere in modo tale da rendere l’idea che chi li compie è un professionista” allora l’attività abusiva assume rilievo penale. Gli indici di giudizio, che immaginiamo siano soltanto esemplificativi, sono continuatività dell’attività svolta, onerosità e organizzazione della stessa, mancanza di chiare indicazioni diverse”. Dato che tali parametri hanno matrice giurisprudenziale ci sembra di poter concludere nel senso di ritenere che essi possano anche non essere necessariamente compresenti. Ad esempio l’attività retribuita svolta continuativamente da un soggetto che non ha alle spalle un’organizzazione dovrebbe ugualmente costituire reato. Questo orientamento, fatto proprio dalle Sezioni Unite del 2011, ha segnato la prevedibile declaratoria di inammissibilità per manifesta infondatezza del ricorso. Al di là della soluzione del singolo caso, però, ci piacerebbe trovare risposta ad un diverso interrogativo esiste la possibilità di considerare penalmente responsabile il titolare di uno studio legale per l’attività abusivamente esercitata dai propri collaboratori non abilitati? La risposta non è affatto scontata, poiché essa risiede tutta nell’analisi certosina della natura della posizione del dominus in termini di eventuale sussistenza, a suo carico, dell’obbligo di impedire fatti dolosi commessi da soggetti che fanno parte di una struttura organizzata in studio legale”.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 13 gennaio – 17 febbraio 2017, n. 7630 Presidente Bruno – Relatore Morelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Lucca del 28.11.13 che aveva condannato V.D. alla pena di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, in quanto responsabile di falso materiale in scrittura privata ed esercizio abusivo della professione di avvocato. 1.1. A V. , collaboratore dell’avv. P.F. ma non abilitato all’esercizio della professione legale,viene fatto carico di avere falsificato due quietanze di pagamento, l’una per l’importo di 40.000 Euro e l’altra per quello di 20.000 Euro, apparentemente emesse dalla Compagnia Assicuratrice RAS s.p.a. di Milano, fatte poi sottoscrivere, rispettivamente, a Pe.Co. e a C.V. , nonché di essersi presentato alle due donne ed agli altri congiunti di C.S.M. , deceduto in un sinistro stradale, come legale incaricato della trattazione della pratica con la Compagnia Assicuratrice. 2. Il ricorso, tempestivamente proposto dall’imputato personalmente, si articola su due motivi. Con il primo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali con riguardo alla condanna per il reato di cui all’articolo 348 c.p Si evidenzia come il ricorrente non abbia mai compiuto atti tipici della professione forense ma si sia limitato a seguire la vicenda che opponeva la famiglia del deceduto C. alla Compagnia Assicuratrice, per conto dell’avv. P. , titolare dello studio. Diversamente da quanto sostenuto dai giudici di merito, l’avere fatto sottoscrivere ai clienti quietanze ed attestazioni di pagamento e l’avere ricevuto acconti in denaro non rappresenterebbe un’attività tipica della professione legale. 2.1. Con un secondo motivo si deduce la violazione dell’articolo 185 c.p. e la mancanza di motivazione con riguardo alla sussistenza dei presupposti per la liquidazione del danno in favore delle parti civili. Premesso che il motivo per cui vennero fatte sottoscrivere a Pe. e C. le false quietanze fu semplicemente quello di celare la negligenza del ricorrente, il quale aveva lasciato prescrivere il diritto al risarcimento del danno causato dal sinistro senza che i parenti del defunto avessero ottenuto il risarcimento integrale, si sostiene che il danno alle parti civili fu causato dalla negligenza del V. ma non certo in conseguenza dei reati per i quali è stato condannato. Le pretese risarcitorie avrebbero dovuto, quindi, essere fatte valere in una causa civile per colpa e non attraverso la costituzione di parte civile nel processo per abusivo esercizio della professione legale. 3. Il difensore di parte civile ha depositato, in data 2.1.17, una memoria in cui rileva l’inammissibilità del ricorso, in quanto la sottoscrizione del ricorrente V. è stata autenticata da difensore non abilitato al patrocinio innanzi alla Corte di Cassazione. Quanto al merito della vicenda, si evidenzia la correttezza e la rispondenza a principi giurisprudenziali consolidati della sentenza impugnata. Con riguardo alle doglianze espresse in relazione ai capi civili della sentenza, viene sottolineato che l’imputato si è da tempo reso irreperibile, non ottemperando agli obblighi risarcitori. Considerato in diritto 1. Diversamente da quanto sostenuto dalla parte civile, il ricorso è stato proposto in forma regolare, essendo stato sottoscritto dall’imputato personalmente, con autentica da parte del difensore, e depositato in cancelleria da altro legale incaricato di tale incombente. È, infatti, ammissibile il ricorso per cassazione sottoscritto personalmente dal ricorrente e materialmente presentato dal suo difensore, non iscritto all’albo speciale di cui all’articolo 613 cod. proc. pen., nulla rilevando in contrario la circostanza che la sottoscrizione dell’atto di impugnazione sia stata superfluamente autenticata dal predetto difensore Sez. 6, n. 7514 del 12/02/2009 Rv. 242924 . Principio, peraltro, affermato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 20300 del 22/04/2010 Rv. 246905, secondo cui Qualora l’atto di impugnazione di una parte privata sia presentato in cancelleria da un incaricato non occorre l’autentica della sua sottoscrizione, poiché l’articolo 582 cod. proc. pen., che le attribuisce la facoltà di avvalersi per la presentazione del relativo atto di un incaricato, non richiede siffatta formalità. Nella specie, la Corte ha ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione proposto a norma dell’articolo 311 cod. proc. pen., sottoscritto personalmente dall’indagato in stato di detenzione e presentato dal difensore di fiducia, non iscritto all’albo dei patrocinanti dinanzi alle giurisdizioni superiori, in quanto il rapporto difensivo fiduciario faceva ragionevolmente presumere l’incarico a presentarlo . 2. Ai sensi dell’articolo 1 d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 è stato abrogato l’articolo 485 c.p. con conseguente trasformazione in mero illecito civile del fatto ascritto a V. al capo 1 dell’imputazione. 2.1. Conformemente all’indirizzo espresso dalla recente sentenza delle Sezioni Unite del 29 settembre 2016, Schirru, debbono essere revocati, per la parte relativa, i capi della sentenza che concernono gli effetti civili. 3. Con riguardo alla condanna per il reato di cui all’articolo 348 c.p., il ricorso reitera i medesimi argomenti proposti nell’appello e non si confronta con la puntuale motivazione della Corte d’Appello, che ha richiamato una giurisprudenza consolidata al fine di ritenere che l’attività che lo stesso imputato ha ammesso di avere svolto nell’ambito della controversia civilistica sorta a seguito della morte di C.S.M. tenere i contatti con la compagnia assicuratrice, far firmare quietanze all’esito di trattative stragiudiziali fosse, nel suo complesso, tipica della professione forense. Le Sezioni Unite, nella sentenza n. 11545 del 15/12/2011 dep. 23/03/2012 Rv. 251819 hanno, infatti, affermato che Integra il reato di esercizio abusivo di una professione articolo 348 cod. pen. , il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato. Fattispecie relativa all’abusivo esercizio della professione di commercialista . In senso conforme e con riguardo ad una fattispecie per alcuni aspetti analoga a quella in esame, si veda altresì la sentenza Sez. 5, n. 646 del 06/11/2013 - dep. 10/01/2014, Rv. 25795501. Sul punto, quindi, il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza. 4. Quanto, infine, alla censura contenuta nel secondo motivo di ricorso e relativa all’omessa motivazione sul corrispondente motivo di gravame, avente ad oggetto le statuizioni civili, va detto che l’appello era, sul punto, generico e manifestamente infondato. Va premesso che non era stata svolta alcuna eccezione in ordine alla costituzione di parte civile e che il Tribunale aveva ritenuto che la complessiva condotta del V. , quindi non soltanto la negligenza mostrata ma anche l’avere trattato una pratica rispetto alla quale non aveva i necessari titoli e la necessaria preparazione, avesse causato dei danni, quantomeno morali, alle parti civili. In termini del tutto generici ed infondati, l’appellante aveva contestato che il danno fosse stato causato alle parti civili dalla condotta costituente reato, lamentando, in modo apodittico, l’eccessività delle somme liquidate a titolo di provvisionale. Orbene, è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, che non abbia preso in considerazione un motivo di appello, che risulti ab origine inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014, dep. 11/03/2015, Rv. 263157 . 5. Poiché non è possibile procedere in questa sede alla rideterminazione della pena in ordine al residuo reato di esercizio abusivo della professione, gli atti debbono essere trasmessi a tale fine alla Corte d’Appello di Firenze. 6. Il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio in favore delle parti civili, spese che si ritiene equo liquidare, in considerazione della natura della causa e degli argomenti trattati, in Euro 2.000 oltre accessori di legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al fatto di cui all’articolo 485 c.p. perché non è previsto dalla legge come reato, revoca le relative statuizioni civili. Dichiara il ricorso inammissibile nel resto. Dispone trasmettersi gli atti alla Corte d’Appello di Firenze per la determinazione della pena in ordine al residuo reato di cui all’articolo 348 c.p Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di difesa delle parti civili che liquida in complessivi Euro 2.000 oltre accessori di legge.