In ‘permesso’ con la moglie, non rientra in carcere: lei non è sua complice

Nessuna discussione sulla colpevolezza dell’uomo, condannato per il reato di evasione. Cadono invece gli addebiti mossi alla moglie, ritenuta in Appello responsabile per avere fornito un aiuto al marito consentendogli di sottrarsi all’esecuzione della pena.

Evasione in piena regola il detenuto non rientra in carcere alla fine dei sette giorni di ‘permesso’, trascorsi in vacanza. Nessun dubbio sulla sua colpevolezza. Ma il fatto che egli abbia agito mentre era con la moglie, non rende automaticamente la donna sua complice Cassazione, sentenza n. 37980/2016, Sezione Sesta Penale, depositata oggi . Coniugi. Per i giudici il capitolo relativo alla condotta tenuta dal detenuto è da considerare chiuso in maniera definitiva. Egli non è rientrato in carcere nonostante la conclusione del ‘permesso’ di sette giorni che gli era stato concesso. Di conseguenza, è logica la condanna per il reato di evasione . Tutto da approfondire, invece, il ruolo avuto dalla moglie La donna è stata dichiarata colpevole, sia in Tribunale che in Corte d’appello, per avere aiutato il coniuge a sottrarsi all’esecuzione della pena . Per i magistrati della Cassazione, però, la vicenda va analizzata con maggiore attenzione. Aiuto. Spunto di riflessione è l’obiezione mossa dal legale della donna, secondo cui non è emerso alcun elemento a dimostrazione di un suo effettivo apporto agevolatore per favorire il coniuge a sottrarsi all’esecuzione della pena . E questo appunto viene ritenuto condivisibile dai magistrati del ‘Palazzaccio’, soprattutto perché la condanna emessa in secondo grado è stata motivata esclusivamente con un dato la donna come affidataria del marito. Ciò però solo in base ad un verbale predisposto dal magistrato di sorveglianza . Son mancati, invece, viene evidenziato, accertamenti concreti sulla condotta specifica che la moglie avrebbe posto in essere per aiutare il consorte ad evadere . In sostanza, l’unico fatto certo è che i due coniugi non sono rientrati nell’ albergo dove il detenuto avrebbe dovuto trascorrere il periodo indicato nel ‘permesso’ . Però nulla è stato accertato sulle azioni della donna, cioè sull’ipotetico aiuto dato al marito per non fare ritorno in carcere. Di conseguenza, non sono minimamente provati gli addebiti a carico della moglie del detenuto. Va esclusa, perciò, la sua responsabilità rispetto alla scelta dell’uomo di sottrarsi all’esecuzione della pena .

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 1 giugno – 13 settembre 2016, n. 37980 Presidente Paoloni – Relatore Fidelbo Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'appello di L'Aquila, in parziale riforma della decisione del 24 gennaio 2013 del Tribunale di Chieti, impugnata dal pubblico ministero nonché da A. M. e R. C., il primo imputato del reato di cui all'art. 385 cod. pen. - per non essere rientrato al termine di un permesso di sette giorni presso la Casa Circondariale di Chieti dove era ristretto - e la seconda dei reato di cui all'art. 390 cod. pen. - per aver aiutato il coniuge, M., a sottrarsi all'esecuzione della pena -, ha ridotto le pene per entrambi, escludendo la continuazione per il M. ed eliminando la recidiva per la C 2. L'avvocato R.D.L., nell'interesse degli imputati, ha proposto ricorso per cassazione. Con un unico motivo ha dedotto il vizio di motivazione, rilevando che la Corte d'appello ha confermato la responsabilità della C. per il reato di procurata inosservanza di pena senza che dagli atti emerga alcun elemento a dimostrazione di un suo effettivo apporto agevolatore per favorire il coniuge a sottrarsi all'esecuzione della pena. Con lo stesso motivo, inoltre, si assume la mancanza di prove anche in relazione all'evasione di M Considerato in diritto 1. II ricorso proposto nell'interesse di M. è inammissibile, perché privo di qualsiasi argomentazione critica e specifica in ordine alla decisione impugnata, che ha confermato la responsabilità dell'imputato per il reato di evasione. 2. E' invece fondato il ricorso con riferimento alla posizione di C., ritenuta responsabile dei reato di cui all'art. 390 cod. pen Deve precisarsi che la condotta del reato di procurata inosservanza di pena consiste in un'attività volontaria, specificamente diretta ad eludere l'esecuzione della pena, che concorre con quella del condannato ricercato e che l'aiuto prestato dal terzo integra gli estremi del reato in questione solo quando è in rapporto di causalità con l'intenzione del condannato di sottrarsi all'esecuzione della pena. Sulla base di tali principi, si è esclusa la responsabilità di chi, pur consapevole della condizione di condannato che si sottrae all'ordine di carcerazione, non svolge alcuna specifica attività di copertura dei latitante rispetto alle ricerche degli organi di polizia, ma intrattiene con questi rapporti interpersonali leciti, non svolgendo nessuna attività concreta per favorirne l'intento cfr., Sez. 6, n. 11487 del 20/10/1988, Castagliuolo, Rv 179802 Sez. 6, n. 9936 del 15/01/2003, Pipitone, Rv 223978 . Nel caso di specie, la responsabilità della C. è stata affermata perché ritenuta affidataria dei M., in base ad un verbale di affidamento predisposto dal Magistrato di sorveglianza, ma i giudici hanno omesso ogni accertamento in ordine alla condotta specifica che l'imputata avrebbe posto in essere per aiutare il coimputato ad evadere. Infatti, la sentenza si limita a riportare il fatto che i due non avrebbero fatto ritorno presso l'albergo dove il M. avrebbe dovuto trascorrere il periodo indicato nel permesso, ma nulla viene detto sulla condotta della C., sicché viene a mancare ogni elemento per il riconoscimento di una sua qualche responsabilità nel reato contestatole, non potendo ritenersi, come sembra aver fatto la Corte d'appello, che dalla sottoscrizione del verbale di affidamento possa derivare una sua responsabilità a titolo quasi oggettivo, prescindendosi da ogni valutazione sull'eventuale aiuto che avrebbe prestato per favorire M. a sottrarsi all'esecuzione della pena. 3. Per queste ragioni, la sentenza deve essere annullata senza rinvio, nei confronti della C., perché il fatto non sussiste mentre, deve dichiararsi inammissibile il ricorso di M., il quale deve essere condannato al pagamento delle spese processuali nonché di una somma in favore della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in euro 1.500,00. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C. R. perché il fatto non sussiste. Dichiara inammissibile il ricorso di M. A., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.