Fermato dai carabinieri, fornisce nome falso e cognome vero: condannato

Solo parzialmente vera la dichiarazione fatta da un uomo fermato durante un controllo su strada. Egli era consapevole che le generalità da lui fornite sarebbero state riprodotte in un atto pubblico. Inevitabile la condanna.

Solo una mezza bugia. Che però costa la condanna a un uomo. Fatale l’avere bluffato sul proprio nome in occasione di un controllo da parte dei carabinieri. Cassazione, sentenza numero 36834, sezione Quinta Penale, depositata il 5 settembre 2016 Generalità. Contesto della singolare vicenda è un controllo su strada effettuato dai militari dell’Arma. Una delle persone fermate commette un’imprudenza su richiesta dei carabinieri, comunica le proprie generalità, ma indica un nome falso. Scoperto il bluff, l’uomo si ritrova sotto accusa per falsa dichiarazione a un pubblico ufficiale . E la sua posizione si rivela indifendibile, almeno a guardare le valutazioni compiute dai giudici consequenziale la condanna. E questa decisione è condivisa ora dai magistrati della Cassazione. In sostanza, è stato accertato che la falsa dichiarazione è stata resa nel corso di perquisizione , e quindi essa era destinata ad essere trasfusa nell’atto, avente indiscutibilmente natura pubblica, che avrebbe documentato le operazioni compiute dal pubblico ufficiale . E di questa prospettiva la persona fermata era assolutamente consapevole.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 luglio – 5 settembre 2016, n. 36834 Presidente Savani – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. La corte d'appello di Perugia ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa dal giudice di prima cura, che aveva ritenuto M.F. responsabile dei reato di cui all'art. 495 cod. pen. per aver dichiarato ai carabinieri, nel corso di un controllo su strada, di chiamarsi M.A 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato lamentando, con un primo motivo, l'erronea applicazione della legge penale e un vizio di motivazione con riguardo all'elemento psicologico del reato. Deduce che, in base all'art. 495 cod. pen., nel testo anteriore alla modifica apportata dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv le false dichiarazioni al pubblico ufficiale erano punite ai sensi della norma suddetta allorché fossero destinate ad essere riprodotte in un atto pubblico e di ciò fosse consapevole l'agente circostanza su cui non è stata fornita nessuna spiegazione. Con altro motivo si duole della mancata riqualificazione del reato ai sensi dell'art. 496 cod. pen Considerato in diritto Il ricorso è manifestamente infondato. Effettivamente, prima della riforma del 2008, le false dichiarazioni al pubblico ufficiale erano punite ai sensi dell'art. 495 cod. pen. allorché fossero state rese in un atto pubblico , dovendo altrimenti applicarsi la più favorevole disciplina dell'art. 496 cod. pen Tale situazione si è concretizzata nella specie, dacché le false dichiarazioni sono state rese - come si legge in sentenza - nel corso di una perquisizione, sicché le stesse erano destinate ad essere trasfuse nell'atto - avente indiscutibilmente natura pubblica - che avrebbe documentato le operazioni compiute dal pubblico ufficiale dei che M. era certamente a conoscenza, essendo il destinatario di quell'attività. La sentenza impugnata fa corretta applicazione dei principi di diritto valevoli nella specie, per cui non merita nessuna delle censure mosse dal ricorrente. Il ricorso è di conseguenza inammissibile. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa nella proposizione dei ricorso, al versamento di una somma a favore della Cassa delle ammende che, in ragione dei motivi dedotti, si stima equo determinare in Euro 2.000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna li ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 a favore della Cassa delle ammende.