Il lavoro di pubblica utilità è una «perdita di tempo»: il giudice deve però tenere conto della sanzione già espiata

In tema di sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, il giudice può disporre la revoca della misura ed il contestuale ripristino della pena originariamente inflitta laddove non risultino correttamente osservate le prescrizioni relative al regime sanzionatorio sostituivo concesso al condannato. Il periodo di tempo durante il quale l’attività di lavoro sia stata positivamente eseguita deve però essere valutato ai fini della quantificazione della pena residua, alla luce dei criteri di ragguaglio normativamente previsti.

E’ quanto risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 20460/15 depositata il 18 maggio. Il caso. Il gip presso il Tribunale di Torino, decidendo sulla richiesta di dichiarazione di estinzione del reato, revocava d’ufficio la sanzione sostituiva del lavoro di pubblica utilità concessa al condannato e ripristinava la pena originariamente inflitta, in quanto dalla relazione della responsabile risultavano episodi non isolati di disobbedienza alle regole imposte con il provvedimento sanzionatorio che dimostrava nel condannato disprezzo e rabbia per l’attività che stava compiendo , considerata come una sostanziale perdita di tempo che doveva essere compiuta per un mero calcolo di convenienza . Il condannato impugna il provvedimento con ricorso in Cassazione, lamentando la violazione delle norme in materia di sanzioni sostitutive per non aver il giudice tenuto conto, nel ripristino della pena originaria, della sanzione già espiata positivamente. La revoca del lavoro di pubblica utilità. Il Collegio riconosce fondamento alle doglianze così articolate. La questione della revoca della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 186, comma 9 – bis , CdS, e della portata degli effetti del provvedimento è già stata oggetto dell’attenzione dei Supremi Giudici che hanno affermato come la normativa contenuta nel d.lgs. n. 274/2000 prevede che, per ogni effetto giuridico ,la pena dell’obbligo della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità si considerano come pene detentive corrispondenti alla specie della pena originaria. Si tratta dunque di pene detentive e non di misure alternative alla detenzione, quali quelle previste dall’Ordinamento penitenziario, nel cui contesto la revoca della misura alternativa consegue all’accertamento dell’idoneità del condannato alla risocializzazione. Evitare la duplicazione della pena. Ciò posto, giova sottolineare che la revoca ex tunc del lavoro di pubblica utilità con ripristino integrale della pena sostituita, annullando completamente la parte di pena già espiata, si traduce in una duplicazione della pena, contrastante con l’art. 13 Cost Difatti, in un sistema costituzionale improntato all’inviolabilità della libertà personale, l’irrogazione di sanzioni aggiuntive rispetto a quelle originariamente determinate in misura proporzionata al grado di responsabilità dell’agente, non può prescindere dall’accertamento di un’ulteriore condotta violatrice che razionalmente giustifichi la rimodulazione del trattamento sanzionatorio. I criteri di ragguaglio in sede di conversione della pena. Quanto al contesto normativo di riferimento, rileva l’art. 54, d.lgs. n. 274/2000, che prescrive i criteri di ragguaglio tra la pena detentiva e il lavoro di pubblica utilità, e l’art. 66, l. n. 689/1981, che pur disciplinando due istituti diversi – semidetenzione e libertà controllata – esprime un principio generale applicabile a tutte le misure alternative alla detenzione secondo il quale la violazione di una prescrizione inerente alla specifica misura, comporta la conversione della restante parte di pena nella pena detentiva sostituita . In conclusione, la non corretta esecuzione delle prescrizioni del lavoro di pubblica utilità, inferiori al livello che determina l’applicazione della sanzione penale ex art. 56 d.lgs. n. 274/2000, l’attività di lavoro svolta positivamente deve essere apprezzata come espiazione della pena per quell’arco temporale e il periodo residuo dovrà essere tradotto in pena detentiva alla luce dei criteri di ragguaglio normativamente previsti, con adeguamento del quantum . Per questi motivi la Corte di Cassazione annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 27 gennaio – 18 maggio 2015, n. 20460 Presidente Siotto – Relatore Novik Rilevato in fatto 1. Con ordinanza del 2 aprile 2014 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, investito della richiesta di dichiarazione di estinzione del reato presentata da G.D.R. , revocava d'ufficio la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità concessa al medesimo con sentenza depositata in data 11 gennaio 2013 e ripristinava l'originaria pena inflitta per il reato di guida in stato di ebbrezza, di giorni 23 di arresto ed Euro 530 di ammenda, in quanto risultava dalla relazione della responsabile che il medesimo aveva sovente disobbedito alle regole che gli venivano poste, mostrando disprezzo e rabbia per l'attività che stava compiendo. Il condannato aveva ammesso di aver vissuto l'esperienza come una sostanziale perdita di tempo che doveva essere compiuta per un mero calcolo di convenienza. Ad avviso del giudicante, gli atti di disobbedienza e di improduttività dimostrati si ponevano in contraddizione con la ratio del beneficio, richiedente la presa di coscienza del disvalore del fatto compiuto e l'importanza del lavoro svolto come presa di coscienza del pericolo causato con la guida in stato di ebbrezza, cosicché veniva ritenuta non computabile la pena già espiata quale lavoro di pubblica utilità, con ripristino della pena sostituita e la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per il termine originariamente fissato. 2. Avverso tale decisione, ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto a mezzo del difensore di fiducia, per dedurre 2.1 violazione dell'art. 186 comma 9-bis d.lgs. 285/1992 e delle norme in tema di sanzioni sostitutive vizio di motivazione in riferimento alla relazione redatta dalla responsabile. Il giudice non aveva applicato l'articolo 66 della legge n. 689 del 1981 in tema di sanzioni sostitutive che, nel caso di violazioni delle prescrizioni inerenti la libertà controllata o la semidetenzione dispone che si tenga conto della pena già espiata. Viene sottolineato che le motivazioni addotte nell'ordinanza richiamano il paradigma della messa alla prova nei procedimenti a carico dei minorenni, e non è applicabile alla prestazione del lavoro di pubblica utilità. Pertanto, il ripristino della pena sostituita previsto dall'art. 186 comma 9 bis del codice della strada doveva essere effettuato computando come pene espiata il periodo lavorativo eseguito positivamente. 2.2. Peraltro, non era stato considerato che il condannato aveva recuperato le ore ritenute poco produttive e la stessa responsabile del centro aveva attestato l'effettivo compimento delle ore lavorative. Il ripristino integrale della sanzione sostituita avrebbe comportato una duplicazione della pena. 3. Il Procuratore generale ha chiesto di accogliere il ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto. Questo Collegio ha già esaminato, sotto altro aspetto, la questione di diritto sulla revoca della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, applicata quale pena sostituiva ai sensi dell'art. 186, comma 9 bis, CdS, ed in particolare sulla portata degli effetti del provvedimento di revoca della misura sostitutiva eventualmente adottato. Si è in proposito affermato, con decisione che questo Collegio nell'impostazione della questione condivide e fa propria Sez. 1, Sentenza n. 42505 del 23/09/2014 Ccomma dep. 10/10/2014 Rv. 260131 , che la normativa contenuta nel decreto legislativo 28.8.2000, n. 274 prevede, all'art. 58, che per ogni effetto giuridico la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità si considerano come pene detentive della specie corrispondente a quella della pena originaria. Si ha dunque riguardo a pene detentive e non a misure alternative alla detenzione, quali quelle previste dall'Ordinamento penitenziario, in cui la revoca della misura alternativa consegue all'accertamento della inidoneità del condannato ad essere risocializzato, essendo stata smentita la prognosi di rieducabilità formulata al momento della concessione della misura. 2. Così come non è richiesto che il detenuto accetti di buon grado di scontare la pena infintagli - salvo i riflessi che ne possono derivare in relazione ai benefici penitenziari -, allo stesso modo non è richiesto che chi è sottoposto allo svolgimento di lavoro di pubblica utilità presti una adesione maggiore, rispetto a quella la cui inosservanza può integrare violazione, penalmente sanzionata, degli obblighi alla pena del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell'articolo 56, comma 2, d.lgs. 274/2000. 3. Ciò detto, viene fatto di sottolineare che la soluzione al quesito va trovata attraverso la considerazione preliminare che la revoca ex tunc del lavoro di pubblica utilità con ripristino integrale di quella sostituita, ponendo nel nulla una parte di pena già espiata si risolve in una duplicazione di pena, in contrasto con l'art. 13 Cost Il non tener conto del trascorso periodo di esecuzione del lavoro di pubblica utilità equivale, invero, all'applicazione di una sanzione per il comportamento tenuto dal condannato, in casi non previsti dalla legge l'art. 56 cit. punisce il condannato che viola reiteratamente senza giusto motivo gli obblighi o i divieti inerenti alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità . Ma in un sistema costituzionale nel quale la libertà personale é solennemente qualificata come inviolabile e soffre restrizioni solo in presenza di particolari garanzie - puntualmente dettate nello stesso art. 13 ed in una serie di altre disposizioni artt. 24, secondo comma, 25, secondo e terzo comma, 27 e 111, primo e secondo comma Cost. - l'irrogazione di sanzioni che si aggiungano a quelle ritenute originariamente proporzionate al grado di responsabilità del soggetto non può avvenire in assenza di un'ulteriore condotta violatrice, addebitabile a costui, che razionalmente le giustifichi così Corte Costituzionale n. 343 del 1987 . Occorre allora porre in rilievo due norme quella art. 58 o, alternativamente, l'art. 186, comma 9-bis CdS che, collegata all'art. 54 d.lgs. 274/2000, prescrive i criteri di ragguaglio tra la pena detentiva ed il lavoro di pubblica utilità, e quella dell'art. 66 della Legge n. 689 del 1981, che pur disciplinando due diversi istituti - la semidetenzione e la libertà controllata - esprime il principio generale, valido per tutte le misure alternative alla detenzione, secondo cui la violazione di una prescrizione inerente la specifica misura, comporta la conversione della restante parte di pena nella pena detentiva sostituita. Le direttrici delineate dalle due previsioni suindicate impongono di concludere nel senso che in caso di non corretta esecuzione - in termini di improduttività - delle prescrizioni in materia di lavoro di pubblica utilità, che non raggiungono il livello che determina l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 56 decreto suindicato, l'attività di lavoro compiuta in precedenza, con esito favorevole, dovrà essere apprezzata come espiazione della pena in quel particolare intervallo temporale il periodo di lavoro residuo dovrà essere tradotto in pena detentiva alla luce dei criteri di ragguaglio previsti dalla norma applicabile al caso concreto la pena detentiva residua dovrà essere espiata dall'interessato, una volta riconosciuta come non più eseguibile la misura sostitutiva. In questo senso, l'utilizzo del sintagma ripristino contenuto nell'art. 186 comma 9-bis cit. deve intendersi relativo alla natura della pena che dovrà essere eseguita - cioè, l'arresto -, ma non al quantum da eseguire, dovendosi considerare il periodo di lavoro di pubblica utilità già espiato, che ha comportato significative limitazioni all'esercizio di una serie di diritti costituzionalmente garantiti. Soluzione tanto più necessaria nel caso in esame in cui, come emerge indirettamente dall'ordinanza e espressamente dalla relazione inviata all'Ufficio U.E.P.E., anche se con alcune incomprensioni, vi è stato un integrale compimento delle ore lavorative, nella durata stabilita nel provvedimento 25 giorni per 50 ore complessive . 4. L'ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata.