Braccio di ferro con la Procura per determinare l’entità del sequestro per equivalente

In caso di infedele dichiarazione dei redditi è sequestrabile solo l’importo dell’imposta evasa e non quello derivante dalla successiva operazione di riciclaggio o reimpiego, in quanto il reato tributario è il reato presupposto che fa salva la punibilità della successiva condotta di riciclaggio o reimpiego, quando sia commessa da soggetto autore o concorrente del reato tributario.

E’ quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 9392, depositata il 4 marzo 2015. Il caso. Un’indagine tributaria aveva permesso di accertare che, nel periodo di imposta 2009, una società – facente parte di un gruppo societario riconducibile alla famiglia degli indagati – aveva effettuato un’operazione al fine di reimmettere contante derivante da operazioni in nero” realizzate dalla stessa e da altre società sorelle”. L’operazione consisteva nel sostituire il contante con assegni e vaglia circolari e poi reimpiegare nella società le somme costituenti corrispettivi in nero. Il reimpiego era avvenuto mediante giustificazione contabile dei versamenti, a titolo di finanziamento soci” ascritti pro-quota ai membri della famiglia soci della società. Così facendo, peraltro, i soci si avvantaggiavano, non solo sul piano fiscale, ma anche su quello reddituale, perché trasformavano parte del reddito della società in propri crediti verso la stessa. Quanto sequestrare? Il profitto del reato tributario di dichiarazione infedele art. 4, d.lgs. n. 74/2000 , pari all’imposta evasa, era quanto veniva sequestrato per equivalente, ai fini di confisca, dal Giudice per le indagini preliminari. Contro il decreto di sequestro aveva proposto appello il Procuratore della Repubblica con le medesime doglianze proposte davanti alla Corte di Cassazione. Rigettato il gravame, il Procuratore aveva dunque presentato ricorso censurando l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Pescara che aveva rilevato la correttezza del provvedimento del GIP. In sostanza, il Procuratore della Repubblica ricorrente sosteneva che l’importo da sequestrare era ben più rilevante di quello oggetto della dichiarazione infedele e, cioè, l’intero ricavo d’impresa derivante dalle complessive operazioni societarie effettuate in nero, vale a dire, il prodotto e profitto dei reati di riciclaggio e reimpiego di cui agli artt. 648 bis e ter c.p. Tanto evaso, tanto riciclato? Ma quanto sequestrabile? Il profitto del reato tributario consiste nel quantum di imposta evasa e non nell’imponibile soggetto a tassazione. I giudici di merito avevano ritenuto che tale profitto fosse sovrapponibile a quello derivante dalla condotta di riciclaggio. Le imputazioni vedevano un indagato accusato del reato tributario e, in concorso con altro indagato, del reato di reimpiego, mentre altri indagati del reato di riciclaggio e la società ai sensi della normativa sulla responsabilità amministrativa dell’ente d.lgs. n. 231/2001 . Fuori dai casi di concorso nel reato . I reati di riciclaggio e di reimpiego di denaro, beni o altra utilità contengono la clausola di impunità fuori dai casi di concorso nel reato che appunto significa che un soggetto non è punibile ai sensi di tali norme nel caso in cui abbia commesso o concorso nel reato presupposto, vale a dire il reato rectius , delitto da cui deriva la disponibilità di denaro o altra utilità di provenienza illecita. In altri termini, la clausola sta a significare che i reati di riciclaggio o reimpiego non sono punibili se posti in essere dai partecipi dei delitti dai quali il denaro, i beni o le altre utilità provengono, così escludendo una responsabilità ulteriore a quella che deriva dal concorso di persone nel reato. La regola è chiara, ma qual è la ratio? Tante varianti interpretative a sostegno dell’esclusione. Le Sezioni Unite della Cassazione Iavarazzo hanno rassegnato le ragioni esposte da dottrina e giurisprudenza che portano ad escludere la punibilità per i reati presupposto. Rapporto di sussidiarietà. Tra i vari significati da attribuire alla clausola contenuta nell’ incipit delle indicate disposizioni incriminatrici, si è sostenuto che la clausola esprima un rapporto di sussidiarietà espressa, funzionale a delineare un concorso apparente di norme e non un concorso di reati. Di contro, tale impostazione è stata criticata sul rilievo che la c.d. sussidiarietà presuppone norme che convergono su un medesimo fatto” e non può esservi sussidiarietà tra riciclaggio e reato presupposto che qualificano condotte diverse. Non solo. La sussidiarietà richiede gradi diversi di offesa a un bene o la convergenza di un complessivo assetto di tutela in relazione a determinati interessi. Tra i reati di riciclaggio e reimpiego e quelli presupposto, però, non vi è gradualità o complementarietà, perché diversa è l’offensività dei fatti ed eterogenei sono gli oggetti giuridici. Ne bis in idem sostanziale. Parte della dottrina evoca tale principio quale linfa del criterio di consunzione o assorbimento . In sostanza, si sottolinea che la punizione di un soggetto autore del reato di riciclaggio e autore del reato presupposto comporta una doppia punizione per il medesimo fatto e, quindi, viola il ne bis in idem sostanziale. La punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore. Secondo altri non sussiste assorbimento perché tale può esserci quando le due norme di cui si discute perseguono scopi omogenei, anche se il bene giuridico non sia identico. In altri termini, quando la punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo dei fatti e la condotta che segue è solo un normale sviluppo di quella che precede, sviluppo in cui l’autore realizza l’utile perseguito con il primo reato o se ne assicura il frutto, non è ammessa una duplicazione di sanzione. Secondo tale tesi, poiché i beni giuridici tutelati dal delitto presupposto o dai delitti presupposto e quelli tutelati dai reati di riciclaggio e reimpiego sono eterogenei, non può sostenersi che la sanzione prevista per il delitto presupposto possa assorbire il disvalore dei reati di cui agli artt. 648 bis e ter c.p. Peraltro, si segnala che talvolta le pene previste per tali ultimi reati sono ben più elevate che quelle previste per i reati presupposto e quindi è arduo sostenere che l’intero disvalore è esaurito nella punizione del reato presupposto. Teoria del post factum non punibile. Altri ricollegano la clausola in parola al post factum non punibile giacché il disvalore della condotta susseguente è già incluso nella condotta precedente che integra il reato più grave. Del resto, si fa notare che le operazioni di investimento dei proventi dei delitti costituiscono il normale sbocco dell’attività criminale. In altri termini, essendo le condotte di riciclaggio o reimpiego strettamente funzionali ai reati presupposto, sarebbe l’antefatto a risolvere sostanzialmente” il contenuto della offensivo della condotta successiva. Tale soluzione però non tiene conto che i delitti presupposto sono eterogenei e talvolta sono le sanzioni dell’attività post delictum ad essere più gravi di quelle previste per il reato base. No a clausole di aggravamento della responsabilità. Altri ancora hanno osservato che occorre evitare cause pressoché automatiche di aggravamento della responsabilità che siano, di fatto, indipendenti dal reale disvalore delle condotte di riciclaggio o reimpiego. La clausola fuori dai casi di concorso opera, in questa prospettiva, come causa soggettiva di esclusione della punibilità nel senso che il legislatore, pur riconoscendo il disvalore penale del fatto, rinuncia ad irrogare la pena nei confronti di chi ricicla o reimpiega i proventi di un delitto da lui stesso commesso in precedenza. Deroga alla regola del concorso di reati. Quale che sia l’adesione ad una o all’altra delle ricostruzioni dogmatiche sviluppate riguardo alla clausola de qua, nella citata sentenza a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la clausola costituisca una deroga al concorso di reati che affonda la ratio nella valutazione – tipizzata, appunto, dal legislatore – secondo cui l’intero disvalore dei fatti è ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto. Sequestrabile solo l’importo dell’imposta evasa. In termini pratici, risulta corretta, pertanto, la decisione dei giudici di merito con cui si è ritenuto che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovesse riguardare l’importo pari alla somma evasa, in quanto il reato tributario di infedele dichiarazione dei redditi costituisce presupposto della condotta di riciclaggio/reimpiego.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 18 febbraio – 4 marzo 2015, n. 9392 Presidente Petti – Relatore Pellegrino Ritenuto in fatto 1. Con decreto in data 09.10.2014, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Pescara disponeva il sequestro preventivo, per equivalente, delle disponibilità liquide e dei beni mobili e/o immobili comunque nella disponibilità degli indagati fino alla concorrenza di Euro 193.476,00, pari al valore dell'imposta evasa, anziché di Euro 703.550,00 come richiesto dal pubblico ministero, corrispondente all'intero ricavo d'impresa derivante dalle complessive operazioni societarie effettuate in nero. 1.1. Avverso detto provvedimento, il pubblico ministero proponeva appello avanti al Tribunale di Pescara. 1.2. Con ordinanza in data 04.11.2014, il Tribunale di Pescara rigettava il gravame riconoscendo come la tesi sostenuta dall'appellante sulla natura delittuosa dell'intera somma oggetto di distrazione dall'attivo societario, quale importo globale delle somme riscosse in contanti costituenti tutte oggetto di artificiose operazioni di sostituzione, a mezzo dell'emissione di assegni circolari da parte dei vari soggetti coinvolti nella vicenda previa consegna dei contanti da parte di C.L. , non si sottraeva alle censure già espresse dal giudice di primo grado. 2. Avverso il provvedimento del Tribunale, il Procuratore della Repubblica di Pescara propone ricorso per cassazione, lamentando, con due distinti motivi di ricorso la violazione dell'art. 606, comma 1 lett. b cod. proc. pen. l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale artt. 648 bis, 648 quater cod. pen., 321, comma 2 cod. proc. pen. . 2.1. Con riferimento al primo motivo, si assume l'erroneità della decisione impugnata, adottata in violazione e/o falsa applicazione degli artt. 648 bis e 648 quater cod. pen., là dove stabilisce la corrispondenza tra il profitto del reato presupposto e il profitto/prodotto dei fatti di riciclaggio e/o reimpiego. 2.1.1. L'indagine aveva consentito di accertare che nel periodo d'imposta 2009, la Alet s.r.l. faceva parte di un gruppo societario familiare riconducibile alla famiglia C. , della quale facevano parte anche altre società sorelle dalla capogruppo . In tale quadro si collegava l'operazione indagata, intrapresa al fine di reimmettere il contante derivante dal nero della Alet, nonché, in piccola parte, dal nero delle altre società sorelle si trattava, in primo luogo, di sostituire il contante con assegni e vaglia circolari quindi, di reimpiegare nella società le somme costituenti corrispettivi in nero dell'attività caratteristica della stessa. L'operazione di reimpiego delle suddette somme era avvenuta mediante la giustificazione contabile dei versamenti, a titolo di finanziamento soci ascritti pro-quota ai membri della famiglia soci della Alet s.r.l., in tal modo completando l'effetto vantaggioso, per i soci, dell'operazione stessa, con profitto rilevante non solo sul piano fiscale, a vantaggio della società, ma anche su quello reddituale, a vantaggio dei soci, che definitivamente si appropriavano di parte del reddito della società, trasformandolo in propri crediti. Dal momento che l'indagine indicava i valori di Euro 193.476,00 come profitto del delitto di cui all'art. 4 d.lvo n. 74/2000 commesso dal legale rappresentante della Alet C.E. con la dichiarazione dei redditi periodo d'imposta 2009 e di Euro 703.550,00 come prodotto e profitto dei delitti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter cod. pen. commessi attraverso le condotte specificate nelle imputazioni provvisorie, il pubblico ministero chiedeva di voler disporre il sequestro preventivo finalizzato a confisca, eventualmente per equivalente dell'importo complessivamente considerato. 2.1.2. Erroneamente il Tribunale aveva fatto discendere la conferma della sovrapponibilità del profitto del delitto presupposto di dichiarazione infedele con quello del delitto di riciclaggio/reimpiego della somma percepita in nero da incaricati della società da riflessioni attinenti la natura e l'operatività delle clausole di riserva argomento che, in questa sede, appare rilevante solo sul piano del fumus del delitto di cui all'art. 648 ter cod. pen. attribuito a C.E. e a C.L. ed escluso dal giudice per le indagini preliminari , ma non su quello del delitto di cui all'art. 648 bis cod. pen., comunque ritenuto sussistente dal giudice per le indagini preliminari e costituente questione non devoluta alla cognizione del giudice d'appello da qui l'inconferente motivazione del Tribunale rispetto al thema decidendum , rappresentato dalla determinazione del valore costituente prodotto-profitto del delitto di cui all'art. 648 bis cod. pen., ascrivibile a più indagati. La complessiva somma di Euro 703.550,00 - ha natura certamente delittuosa, anche indipendentemente dalla finalità evasiva che ispirava l'operazione - veniva tecnicamente riciclata da numerosi indagati, di tal che deve necessariamente considerarsi come prodotto del delitto di cui all'art. 648 bis cod. pen., confiscabile ex art. 648 quater cod. pen. - ripulita e reimmessa nella società, attività che costituisce all'evidenza profitto dell'operazione. 2.2. Con riferimento al secondo motivo, si censura l'ordinanza impugnata nella parte in cui ha ritenuto l'insussistenza del fumus delicti commissi con riferimento alle condotte di reimpiego per effetto dell'operatività della clausola di riserva. 2.2.1. Invero, dovendosi considerare la clausola di riserva come disposizione eccezionale e, dunque, di stretta interpretazione, si deve ritenere che la dizione fuori dai casi di concorso nel reato e dei casi di cui agli artt. 648 e 648 bis cod. pen . scrimini solo le condotte di reimpiego direttamente poste in essere dall'autore della stessa condotta che generava la natura delittuosa dell'utilità poi reimpiegata potendosi verificare una scriminante a cascata priva di senso e di confini da qui la ricorrenza del fumus del reimpiego nella condotta degli amministratori della Alet dal momento che, allo stato dell'indagine, C.E. non risulta avere concorso nella commissione del delitto di cui all'art. 648 bis cod. pen., delitto che funge da delitto presupposto per il successivo reimpiego realizzato mediante la falsa operazione societaria di finanziamento soci , mentre il C.L. non risulta aver avuto alcun ruolo nel delitto di dichiarazione infedele commesso da C.E. , legale rappresentante della Alet. Considerato in diritto 1. Il ricorso appare manifestamente infondato e, come tale, risulta inammissibile. 2. Con riferimento al thema decidendum , vanno preliminarmente rammentate le regole in tema di impugnazione del provvedimento di sequestro preventivo. Innanzitutto va considerato che, con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 325 cod. proc. pen., può essere dedotta la violazione di legge e non anche il vizio di motivazione. Ma, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ricorre violazione di legge laddove la motivazione stessa sia del tutto assente o meramente apparente, non avendo i pur minimi requisiti per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'iter logico seguito dal giudice del provvedimento impugnato. In tale caso, difatti, atteso l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene a mancare un elemento essenziale dell'atto. 3. Va inoltre ricordato che, anche se in materia di sequestro preventivo per equivalente, il codice di rito non richiede che sia acquisito un quadro probatorio serio come per le misure cautelari personali, non è però sufficiente prospettare un fatto costituente reato, limitandosi alla sua mera enunciazione e descrizione. È invece necessario valutare le concrete risultanze istruttorie per ricostruire la vicenda anche al semplice livello di fumus al fine di ritenere che la fattispecie concreta vada ricondotta alla figura di reato configurata è inoltre necessario che appaia possibile uno sviluppo del procedimento in senso favorevole all'accusa nonché valutare gli elementi di fatto e gli argomenti prospettati dalle parti. A tale valutazione, poi, dovranno aggiungersi le valutazioni in tema di periculum in mora che, necessariamente, devono essere riferite ad un concreto pericolo di prosecuzione dell'attività delittuosa ovvero ad una concreta possibilità di condanna e, quindi, di confisca cfr., Cass., Sez. 6, sent. n. 6589 del 10/01/2013-dep. 11/02/2013, Gabriele, rv. 254893 . 4. Peraltro, sebbene il giudice del riesame non possa sindacare la fondatezza e/o l'attendibilità degli elementi probatori addotti dall'accusa a sostegno della misura cautelare, lo stesso è tenuto comunque ad operare un raffronto tra la fattispecie astratta legale e la fattispecie concreta reale , così da imporre il suo potere demolitorio nei soli casi in cui la difformità sia rilevabile ictu oculi ovvero nei casi in cui gli elementi probatori non siano pertinenti o utilizzabili. 5. Poste tali premesse, ritiene questo Collegio come le valutazioni e gli apprezzamenti probatori operati dai giudici di merito, e nella specie espressi nel provvedimento impugnato, trovino una giustificazione che risulta completa nonché fondata su argomentazioni giuridicamente corrette, adeguate e coerenti, il tutto in presenza di un ragionamento probatorio indenne da vizi logici. 6. Invero, con riferimento ad entrambi i motivi di doglianza trattabili congiuntamente in ragione delle reciproche interazioni, censura il ricorrente la decisione del Tribunale che fa discendere la conferma della sovrapponibilità del profitto del delitto presupposto di dichiarazione infedele con quello del delitto di riciclaggio/reimpiego della somma percepita in nero da incaricati della società da riflessioni attinenti la natura e l'operatività delle clausole di riserva, trattandosi di motivazione del tutto inconferente rispetto al thema decidendum rappresentato dal valore costituente prodotto/profitto del delitto di cui all'art. 648 bis cod. pen. commesso da numerosi soggetti nell'ambito della presente vicenda ulteriore censura viene mossa in ordine alla ritenuta insussistenza del fumus delicti commissi con riferimento alle condotte di reimpiego per effetto dell'operatività della clausola di riserva in ordine alla non punibilità del reimpiego degli incassi in nero realizzato mediante la contabilizzazione della somma come finanziamento soci . 6.1. La valutazione compiuta dal Tribunale - che censura l'assunto accusatorio secondo cui la complessiva somma di Euro 703.550,00, corrispondente all'intero ricavo d'impresa derivante dalle complessive operazioni societarie in nero, sarebbe sequestrabile in quanto costituirebbe il profitto o il prodotto del reato di cui agli artt. 648 bis e 648 ter cod. pen. - appare condivisibile. 6.2. Invero, correttamente il Tribunale ha ritenuto sovrapponibile il profitto del delitto tributario che non va identificato con l'imponibile sottratto a tassazione bensì nel quantum dell'imposta evasa rispetto a quello della condotta di riciclaggio anche in considerazione dei titoli di incolpazione elevati che vedono C.E. rispondere del reato di cui all'art. 4 d.lvo n. 74/2000, C.E. e C.L. del reato di cui all'art. 648 ter cod. pen., gli altri indagati del reato di cui all'art. 648 bis cod. pen. e la società degli artt. 5, 9 e ss. e 25 octies d.lvo n. 231/2001. 6.3. Prodromica rispetto ad ogni altra valutazione è l'individuazione del nesso esistente tra le connotazioni assunte dai delitti di riciclaggio e reimpiego e la portata della clausola, contenuta nell'incipit delle due disposizioni, che prevedono entrambe l'impunità per tali reati nei confronti di colui che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto. Le due ipotesi di delitto esordiscono facendo salvi i casi di concorso di persone nel reato, con la conseguenza che il riciclaggio e l'impiego di denaro, beni o utilità, posti in essere dai partecipi dei delitti dai quale essi provengono non determinano l'attribuzione di una responsabilità ulteriore rispetto a quella che deriva dall'art. 110 cod. pen 6.4. Dei rapporti tra riciclaggio e reati presupposti si sono occupate in tempi recenti le Sezioni Unite Sez. U, sent. n. 25191 del 27/02/2014, dep. 13/06/2014, Iavarazzo . Il significato di tale clausola fuori dei casi di concorso nel reato , si legge in sentenza, è stato variamente interpretato. In giurisprudenza si è affermato che essa esprime un rapporto di sussidiarietà espressa, funzionale a delineare un concorso apparente di norme in luogo di un concorso di reati Sez. 2, sent. n. 47375 del 06/11/2009, Di Silvio, Rv. 246433 e 246434 . Tale tesi è stata oggetto di alcuni rilievi critici. Innanzitutto si è osservato che la sussidiarietà presuppone norme incriminatrici che convergono su un medesimo fatto e che dunque, non può sussistere un rapporto di sussidiarietà tra riciclaggio e delitto presupposto che si qualificano per condotte fra loro profondamente diverse. Si è, inoltre, argomentato che la sussidiarietà richiede o diversi gradi di offesa ad un medesimo bene o, comunque, la convergenza nella delineazione di un complessivo assetto di tutela in relazione a determinati interessi. Sotto questo profilo, l'analisi comparativa tra la pluralità dei reati presupposto e i delitti di riciclaggio e reimpiego evidenzia l'insussistenza di un rapporto di gradualità o di complementarietà, avuto riguardo alla significativa divergenza dell'offensività dei fatti e alla eterogeneità dei rispettivi oggetti giuridici. La stessa diversità del trattamento sanzionatorio è stata valorizzata quale argomento di conferma del fatto che la sussidiarietà è una categoria inidonea a qualificare i rapporti tra reato presupposto, riciclaggio, reimpiego, considerato che, spesso, queste ultime due fattispecie sono punite più severamente del primo. Una parte della dottrina evoca il principio del ne bis in idem sostanziale quale linfa del criterio dell'assorbimento o consunzione , osservando che punire a titolo di riciclaggio l'autore del reato presupposto comporterebbe una doppia punizione per un medesimo fatto, unitariamente voluto dal punto di vista normativo. Tale richiamo - secondo altri Autori - non tiene conto dell'insegnamento delle Sezioni Unite Sez. U, sent. n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224605-08 . Le norme del cui assorbimento si discute devono, infatti, perseguire scopi per loro natura omogenei, pur escludendosi che l'omogeneità si traduca in identità del bene giuridico. Lo scopo perseguito dalla norma che prevede il reato meno grave è assorbito da quello concernente il reato più grave. La punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo e la condotta successiva rappresenta un normale sviluppo di quella antecedente, attraverso la quale il soggetto realizza l'utile perseguito con il primo reato o se ne assicura il frutto. È soltanto in questi limiti che, in ossequio al principio di proporzione tra fatto e pena che ispira l'ordinamento penale, non è ammessa una duplicazione di tutela e di sanzione. L'eterogeneità dei beni giuridici tutelati rispettivamente dal delitto presupposto e da quelli di riciclaggio e reimpiego impedisce di ritenere che la punizione per il reato presupposto possa assorbire il disvalore dei reati previsti dagli artt. 648 bis e 648 ter cod. pen. Al riguardo, è stata sottolineata la circostanza che talora i delitti di riciclaggio o di reimpiego sono assistiti da una sanzione penale più elevata rispetto a quella prevista per il reato presupposto. Infine, una parte della giurisprudenza Sez. 5, sent. n. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv.236254 e della dottrina ricollegano la clausola presente nell'incipit degli artt. 648 bis e 648 ter cod. pen. al post factum non punibile, osservando che il disvalore della condotta susseguente è già incluso in quella precedente che integra il reato più grave e che le operazioni d'investimento dei proventi dei delitti costituiscono il normale sbocco della precedente attività criminale. Pertanto, essendo tali condotte strettamente funzionali agli illeciti principali, sarebbe l'antefatto delittuoso a risolvere sostanzialmente il contenuto offensivo della condotta consequenziale. Tale criterio è considerato inappagante da una parte delle dottrina, tenuto conto dell'eterogeneità dei delitti presupposto e del corredo di sanzioni potenzialmente più gravi per le attività post-delictum rispetto a quelle previste per il reato base all'esito delle modifiche normative in precedenza ricordate. In altra prospettiva si è osservato che l'esclusione della sanzione penale nei confronti di colui che ricicla o reimpiega i proventi derivanti da un delitto da lui stesso in precedenza commesso costituisce una causa soggettiva di esclusione della punibilità alla cui stregua il legislatore, pur riconoscendo il disvalore penale del fatto, rinuncia ad irrogare per esso la pena. La ratio di questa scelta viene individuata nell'esigenza di evitare cause pressoché automatiche di aggravamento della responsabilità, indipendenti dal disvalore rinvenibile nel riciclaggio o nel reimpiego del bene e degli effetti ad esso ricollegabili, nell'irragionevolezza di un'indiscriminata risposta sanzionatoria a fronte di un'ampia varietà delle singole situazioni concrete e della differente pericolosità del loro concreto atteggiarsi, nonché nella volontà di scongiurare meccanismi presuntivi nella ricostruzione del fatto tipico e delle responsabilità per il reato presupposto. Indipendentemente dalla ricostruzione dogmatica della clausola, il Collegio tuttavia ritiene che la previsione che esclude l'applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione di essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l'intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto 6.5. L'applicazione del principio testé affermato ha portato il Tribunale a ritenere, con motivazione del tutto giustificata e scevra da vizi, come la dichiarazione dei redditi infedele fungesse da presupposto della condotta di riciclaggio/reimpiego e che solo l'ammontare della somma evasa, pari ad Euro 193.476,00, ne costituisse l'oggetto sequestrabile. 6.6. Medesima conclusione di manifesta infondatezza involge il secondo motivo di doglianza che invoca l'applicazione del sequestro dell'intera somma in presenza di un riconosciuto fumus delicti commissi del delitto di reimpiego da parte degli amministratori della Alet poiché allo stato dell'indagine il C.E. non risulta aver concorso nella commissione del delitto di cui all'art. 648 bis cod. pen., delitto che funge da delitto presupposto per il successivo reimpiego realizzato mediante la falsa operazione societaria di finanziamento soci e il C.L. non risulta aver avuto alcun ruolo nel delitto di dichiarazione infedele commesso dal legale rappresentante C.E. , implicando la censura in parola un indagine di fatto non consentita nella presente sede di legittimità. 7. Ne consegue l'inammissibilità del ricorso. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.