Impossibile per la Cassazione procedere alla riqualificazione giuridica del fatto

Non è possibile procedere alla riqualificazione diretta del fatto da parte della Suprema Corte stante i limiti derivanti dalle pronunce della Corte di Strasburgo sul punto ed in relazione all’articolo 6 della CEDU.

Non è possibile procedere all’annullamento con rinvio di una sentenza impugnata ai fini di contestazione all’imputato di un reato più grave rispetto a quello originariamente contestato, comportando l’eventuale condanna per i medesimi fatti ancorché diversamente qualificati una reformatio in pejus della decisione assunta possibile solo nei casi ex lege previsti. Il caso. Due imputati proponevano ricorso per Cassazione sent. n. 50659/14, depositata il 3 dicembre scorso avverso la sentenza resa nei loro confronti dalla Corte di Appello di Trieste che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolvendoli da alcuni reati loro ascritti, nella specie da quelli previsti dagli artt. 110 e 707 c.p. li aveva invece ritenuti responsabili per quelli loro contestati ex artt. 110, 56 e 633 c.p., 110 e 707 c.p. in relazione ad altro oggetto e 4 l. n. 110/75. I ricorsi vertevano soprattutto, e per quanto di interesse rispetto al presente commento, sulla erronea applicazione della legge penale in relazione al disposto degli articolo 110, 56 e 633 c.p Erano poi formulati motivi di ricorso anche in relazione alla manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione resa in relazione alle altre ipotesi delittuose contestate. La Corte, effettuata una interessante disamina relativa agli elementi, materiale e soggettivo, della fattispecie contestata, anche in relazione alle articolari forme di contestazione, nel caso di specie costituite dal tentativo, giunge ad escludere la responsabilità dei prevenuti in ordine alla fattispecie loro contestata ex art. 633 e, ravvisando nella condotta degli imputati, fattispecie penali più gravi violazione degli artt. 110, 56 e 614 statuisce in relazione alla propria impossibilità d’effettuare riqualificazione giuridica del fatto reato. L’impossibilità di riqualificare il fatto reato. Sino alla fatidica data segnata 11.12.2007, la giurisprudenza di legittimità era pacificamente attestata sulla possibilità per la Suprema Corte di dar corso alla riqualificazione giuridica del fatto anche direttamente nella sentenza di legittimità. Non veniva ritenuta necessaria alcuna attività tale dall’assicurare all’imputato la possibilità di concreta interlocuzione in ordine alla nuova fattispecie lui contestata. Nel mare calmo della giurisprudenza di legittimità Italiana si abbatté, il giorno 11.12.2007 il tornado costituito dalla sentenza resa dalla Seconda Sezione della Corte EDU, la sentenza Drassich. Il caso Drassich. La pronuncia della Corte di Strasburgo trova origine in una decisione della Suprema Corte del 2004 Cass., Sez. VI, 4 febbraio 2004 con la quale veniva rigettato il ricorso formato dall’imputato, negando fosse maturato il termine di prescrizione per il reato contestato 319 c.p. alla luce della necessità di riqualificare correttamente il fatto reato, modificandolo, e contestando altro e più grave titolo delittuoso art. 319- ter c.p. . Delitto per il quale l’imputato veniva riconosciuto colpevole e condannato dalla medesima Corte. L’imputato faceva allora ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione delle proprie facoltà difensive in conseguenza della improvvisa ed imprevedibile modifica della qualificazione giuridica dell’accaduto. La Corte europea riteneva fondate le censure. In particolare osservava come si fossero violati i principi contenuti nell’art. 6 paragrafi 1 e 3 lettera a9 e b della CEDU posto che l’imputato non era stato avvertito della possibilità di una riqualificazione dell’accusa contestata e, ancor meno, messo in condizione di discutere in contraddittorio il nuovo nomen iuris . La pronuncia terminava con un suggerimento rivolto alla giurisdizione nazionale che consisteva nella necessità di un nuovo processo o una riapertura del procedimento a richiesta dell'interessato, che rappresenta, in linea di principio, un modo appropriato di rimediare alla violazione rilevata . La giurisprudenza post Drassich. L’imputato propose dapprima richiese ex art. 670 c.p.p. di dichiarare ineseguibile il titolo per poi ricorrere nuovamente in Cassazione. La giurisprudenza di leggibilità si trovava dinnanzi alla difficoltà di far coesistere i principi sanciti dall’art. 521 c.p.p., uno dei capisaldi del sistema processuale, con quanto affermato e richiesto dalla Corte sovranazionale. La soluzione venne trovata nella possibilità di allargare le maglie dell’istituto del ricorso straordinario per errore di fatto ex art. 625 bis c.p.p Se la vicenda Drassich aveva avuto approdo giuridico e, attraverso l’istituto dell’art. 625 bis c.p.p., si era adempiuto, seppur surrettiziamente ai desiderata della Giustizia Europea, permaneva e permane nella giurisprudenza di legittimità, forte la tentazione di cedere alla tentazione di riqualificare” il fatto. Le pronunce della Suprema Corte in punto sono molteplici per una rapida lettura si vedano sez. VI, n. 45807/2008 – sez. VI, n. 36323/2009 sez. VI n. 14674/2010 – sez. II n. 37413/2013 e, sostanzialmente finalizzate a salvaguardare il principio diritto? di effettuare riqualificazione giuridica del fatto reato contestato anche in sede di legittimità. Con l’ultima delle pronunce citate Cass. Pen. sez II n. 37413/2013 proveniente dalla stessa Sezione che ha emesso la sentenza in commento, la Corte di Cassazione aveva lasciato presagire la possibilità di addivenire all’approdo oggi eletto. Si legge infatti nella pronuncia citata se il vizio processuale si è verificato in sede di legittimità, spessa alla stessa Corte prove rimedio adottando le necessarie iniziative e pervenendo agli esiti processuali indispensabili per ripristinare le garanzie violate . I metodi di ripristino delle garanzie violate. Quasi si trattasse del dipanarsi di un unico filo, ecco che la Seconda Sezione della Corte ci offre ad un anno di distanza dalla pronuncia del 2013 l’indicazione di quei rimedi indispensabili per ripristinare le garanzie violate. Ma prima di occuparci dei rimedi è necessario sottolineare come la pronuncia dia atto finalmente di come la riqualificazione giuridica del fatto, almeno di quella effettuata in sede di legittimità, debba essere inquadrata nell’alveo e ricompresa nel novero delle violazioni alle garanzie difensive. Il che, francamente, non è poco. Quali sono i rimedi della Corte? La risposta è invero, almeno nel caso di specie, assai semplice e poggia su due pilastri fondamentali. L’impossibilità di riqualificazione. Se la riqualificazione giuridica del fatto costituisce in sede di giudizio di legittimità violazione delle garanzie difensiva, allora non è possibile procedervi, pena la dei limiti derivanti dalle pronunce della Corte di Strasburgo sul punto ed in relazione all’art. 6 della CEDU. Il rimedio processuale. Stante l’esistenza del postulato prima enunciato, la sentenza deve essere cassata e, per non incorrere in violazione dei diritti della difesa, non è possibile procedere all’annullamento con rinvio della stessa, ai fini di dar luogo a contestazione all’imputato di un reato più grave rispetto a quello originariamente contestato. Perché all’esito del nuovo giudizio sarebbe ben possibile una condanna per i medesimi fatti ancorché diversamente qualificati una reformatio in pejus della decisione originariamente assunta e cassata possibile solo nei casi ex lege previsti. Pare manchi all’appello un’unica considerazione e nei casi in cui si fosse in presenza di impugnazione del pubblico Ministero non incentrata sul punto ma comunque validamente effettuata il ragionamento proposto resisterebbe ugualmente o sarebbe possibile disporre rinvio del giudizio? Ovvio che in caso affermativo il rinvio sarebbe fortemente connotato dal giudizio reso dalla Corte che esprimerebbe una sorta di principio di diritto cui il Giudice del rinvio sarebbe chiamato, sostanzialmente, ad uniformarsi. Se così fossi si aprirebbe certamente un altro interessantissimo capitolo della infinita saga Drassich, quello relativo alla terzietà del Giudice rispetto al giudizio ed alla sua libertà di giudizio sulla sussistenza del fatto reato . in attesa non ci resta che sperare che continui ad esserci un Giudice a Strasburgo.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 18 novembre – 3 dicembre 2014, n. 50659 Presidente Gentile – Relatore Alma Ritenuto in fatto Con sentenza del 18/7/2013 la Corte di Appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza resa all'esito di giudizio abbreviato del Tribunale di Udine in data 12/12/2011, ha assolto gli imputati F.N. e B.D. dal reato di cui agli artt. 110 e 707 cod. pen. capo 2 della rubrica delle imputazioni limitatamente alla detenzione di una torcia perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, ed ha confermato nel resto la sentenza del Giudice di prime cure con la quale entrambi gli imputati erano stati ritenuti responsabili dei reati di cui agli artt. 110, 56 e 633 cod. pen. capo 1 , 110, 707 cod. pen. capo 2 - con riguardo ad una barra di ferro - e 4 l. 110/75 capo 3 , accertati in omissis e - previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche valutate con giudizio di equivalenza sulla contestata recidiva, unificati i fatti sotto il vincolo della continuazione ed applicata la riduzione per il rito - condannati il F. alla pena di mesi 1 e giorni 10 di reclusione e la B. alla pena di mesi 1 e giorni 20 di reclusione. Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza e con separati atti gli imputati personalmente, deducendo 1. Il F. Violazione degli artt. 56, 633 cod. pen. e dell'art. 192 cod. proc. pen. in relazione all'art. 606, lett. b , c ed e , cod. proc. pen Rileva, al riguardo, il ricorrente che l'immobile nel quale lui e la coimputata avrebbero cercato di introdursi è da molti anni ininterrottamente abbandonato ed inutilizzato, composto da locali vuoti, dismessi ed in rovina. Non è emerso che il ricorrente avesse in animo di occupare il locale in modo stabile e permanente, risultando, invece ed in assenza di prove di diverso tenore la precarietà dell'introduzione e l'occasionalità dell'utilizzo. Sarebbe pertanto incongrua ed illogica la motivazione della sentenza impugnata che evidenzia come i Giudici territoriali hanno tratto il convincimento di una volontà di stabile occupazione dell'immobile per la presenza all'interno dello stesso di un giaciglio di fortuna che peraltro non risulta collocato dagli imputati, in quali non risultano mai essere entrati in precedenza nel medesimo immobile, né avere avuto con loro beni es. coperte, suppellettili od altro che potessero indicare la loro volontà di permanervi in maniera più che temporanea ed occasionale. 2. La B. 2.a Erronea applicazione della legge penale per avere ritenuto i Giudici del merito ritenuto configurabile il reato di cui agli artt. 56, 633 cod. pen., sia sotto il profilo materiale che quello psicologico, pur in assenza di una condotta idonea a concretizzare l'ipotesi delittuosa de qua, non potendosi desumere la protrazione nel tempo della permanenza degli imputati presso l'immobile ove cercarono di introdursi. 2.b Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto configurato in capo alla ricorrente sia il reato di cui agli artt. 110, 56, 633 cod. pen., sia quello di cui all'art. 707 cod. pen., posto che appare inverosimile la versione dei fatti fornita dal F. nel momento in cui ha affermato che fu la ricorrente a raccogliere da terra la barra in ferro oltre al fatto che non risulta provato da elementi univoci che detta barra fu utilizzata in occasione della consumazione del reato di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni il tentativo di occupazione dell'immobile - ndr. . 2.c Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale non ha ritenuto assorbito il reato di cui al capo 3 della rubrica delle imputazioni art. 4 I. 110/75 in quello di cui al capo 2 art. 707 cod. pen. avendo affermato, con tesi fatta propria da quella del primo Giudice, che il possesso del taglierino da parte della ricorrente era funzionale ai suoi propositi di scasso senza peraltro ricondurre il possesso del taglierino ad uno degli strumenti indicati dall'art. 707 cod. pen Considerato in diritto 1. Le questioni poste nel ricorso dell'imputato F. e quelle di cui al punto 2.a del ricorso della B. appaiono meritevoli di una trattazione unitaria, investendo sostanzialmente la medesima problematica. Dette questioni risultano essere già state sollevate dagli imputati in sede di gravame proposto avverso la sentenza del Giudice di prime cure il quale ha evidenziato alcuni elementi che ha ritenuto significativi per la configurabilità del reato di cui agli artt. 110, 56, 633 cod. pen. quali a la presenza all'interno dell'immobile di un letto ad una piazza con materasso b il fatto che la B. come confermato dal F. era già stata all'interno dell'immobile stesso c il fatto che la B. era sprovvista di una stabile dimora. Il ricorso di entrambi gli imputati sul punto è fondato. Come è noto, l'elemento materiale del reato di cui all'art. 633 c.p. è costituito dall'arbitraria invasione di terreni o edifici, mentre l'elemento soggettivo dolo specifico consiste nel fine di occuparli o trame altrimenti profitto. In ordine al concetto di arbitraria invasione, sia la giurisprudenza che la stessa dottrina, sono concordi nel ritenere che il termine invasione non va inteso in senso etimologico e cioè come azione tumultuosa e violenta compiuta da più persone sulla totalità del bene, essendo, al contrario, sufficiente che l'accesso o la penetrazione arbitraria nel fondo o nell'edificio altrui siano effettuati al fine di immettersi arbitrariamente, quindi, illegittimamente nel possesso o trame un qualunque profitto. Partendo da tale nozione, si è concluso che non ogni turbativa del possesso comporta un'invasione, ma soltanto quella che realizzi un apprezzabile depauperamento delle facoltà di godimento del terreno o dell'edificio da parte del titolare dello ius excludendi , secondo quella che è la destinazione economico sociale del bene o quella specifica ad essa impressa dal dominus cfr. ex ceteris Cass. Sez. 2, sent. n. 31811 del 08/05/2012, dep. 06/08/2012, Rv. 254330 . Corollario di tale nozione è, però, un altro elemento che, sebbene non espresso nella norma, deve ritenersi in essa implicito e che consiste nel fatto che la permanenza nel terreno o nell'edificio non deve avere carattere momentaneo ma, al contrario, un'apprezzabile durata perché solo tale ulteriore elemento consente, poi, di evidenziare il dolo specifico dell'agente, ossia la volontà di occuparli o trame altrimenti profitto, comportamenti questi occupazione - approfittamento che presuppongono, appunto, una stabile ed apprezzabile insistenza fisica dell'agente sul bene altrui Cass. 2253/1969 Rv. 115239 - Cass. 5603/1976 Rv. 135748 - Cass. 42786/2008 . La ratio della norma, infatti, consiste nel reprimere quei comportamenti idonei a pregiudicare la libera disponibilità del fondo o dell'edificio da parte del proprietario o del legittimo possessore e, quindi, nella tutela della proprietà e del possesso. Non a caso, come si evince dalla Relazione al codice penale, il reato di invasione di cui all'art. 633 cod. pen. è stato mutuato dal D.L. n. 515 del 1920, art. 9 - trasfuso poi nel R.D. n. 2047 del 1921, art. 36 - che era stato introdotto proprio per far fronte al dilagante fenomeno delle occupazioni di terre che avvenivano alla fine della prima guerra mondiale. La suddetta ratio , impone, però, di soffermarsi sul requisito implicito della permanenza di apprezzabile durata. Va, infatti, osservato che il requisito dell'apprezzabile durata può essere desunto non solo dalla permanenza fisica dell'agente nell'edificio, ma anche da elementi esterni che indichino la volontà dell'agente pur non presente fisicamente nel bene o come nel caso di specie sorpreso nell'atto di entrare nello stesso di volerlo occupare o trame profitto come ad es. il possesso di chiavi per l'accesso ovvero l'esecuzione di opere od il collocamento di beni che rivelino l'intenzione di permanere nell'immobile . Ciò significa che non sempre e non necessariamente per la configurabilità del reato di invasione di terreni o edifici, occorre che l'agente rimanga stabilmente su di essi, ben potendo essere ugualmente ravvisabile il suddetto reato ove la svolta istruttoria evidenzi elementi fattuali tali dai quali si possa desumere che l'agente abbia posto in essere quel comportamento l'invasione od il tentativo di essa con il deliberato fine di occupare o trarre profitto dall'immobile. La questione relativa alla configurabilità del reato diviene ancora più problematica nel momento in cui, come nel caso che in questa sede ci occupa, la condotta si è arrestata al mero livello di tentativo in quanto, in assenza di una occupazione protrattasi per un apprezzabile lasso di tempo, l'elemento indicatore del dolo specifico il fine di occupare l'immobile o di trame profitto deve essere probatoriamente desunto da elementi ulteriori che univocamente consentano di ravvisarlo. Rimane, ovviamente, aperto il secondo aspetto che può caratterizzare l'elemento psicologico del reato di cui all'art. 633 cod. pen. e cioè quello, posto in alternativa nel dettato normativo, invadere arbitrariamente l'edificio al fine di trame altrimenti profitto . Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema si è sostenuto che l'elemento psicologico del reato de qua, caratterizzato dal dolo specifico del fine trame altrimenti profitto , non richiede per la sua sussistenza che il profitto propostosi dall'agente sia strettamente patrimoniale e direttamente realizzabile con l'invasione e può consistere anche nell'intento di un uso strumentale della stessa cfr. Cass. Sez. 2, sent. n. 8107 del 30/05/2000, dep. 07/07/2000, Rv. 21652 , pur tuttavia ritiene l'odierno Collegio che detto concetto non possa essere esteso a tal punto da ricomprendervi qualsivoglia vantaggio comunque connesso al possesso e godimento dell'immobile invaso. Ciò, in accordo con l'orientamento più rigoroso assunto anche da una parte della dottrina secondo il quale l'interpretazione letterale della norma il dettato della quale recita testualmente . al fine di occupare l'immobile o trarNE altrimenti profitto e l'uso della particella NE e dell'avverbio altrimenti dovrebbero sottendere una nozione di profitto necessariamente ancorata al bene oggetto di invasione, con la conseguenza di qualificarlo come sinonimo di utilità da ricondurre al possesso o godimento comunque per un'apprezzabile lasso di tempo dell'immobile da quale dovrebbero quindi esulare le varie tipologie di profitto di carattere indiretto e non economico quali anche quelle di un uso temporalmente limitatissimo dell'immobile ad es. per di farvi una doccia o di consumarvi un fugace rapporto sessuale . Nel caso che in questa sede ci occupa occorreva quindi verificare che gli imputati, con la loro azione tentativo poi abortito di forzatura della porta di ingresso nell'immobile si prefiggevano di dare inizio ad un possesso dello stesso che non fosse meramente transitorio od occasionale come detto quello di farvi una doccia, di consumarvi un rapporto sessuale, ovvero di trascorrervi semplicemente una notte ma finalizzato a spogliarne il titolare dello ius excludendi per un apprezzabile lasso di tempo. Quanto appena detto, porta, quindi, alla conclusione che il criterio temporale diventa decisivo al fine di stabilire la configurabilità o meno del reato di cui all'art. 633 c.p. allorquando nessun altro elemento processuale indichi quale fosse il dolo dell'agente. Ora, nel caso in esame, gli imputati non erano certo in possesso delle chiavi dell'immobile tanto è vero che hanno cercato di forzarne l'uscio , all'interno dello stesso non risulta rinvenuto alcun bene che fosse direttamente riconducibile ad essi o che ne comprovasse una permanente occupazione in tempi passati e la circostanza che la B. fosse all'epoca dei fatti priva di stabile dimora non è certo elemento indicativo del fatto che la stessa unitamente al coimputato F. abbia agito col fine di occupare l'immobile. La presenza di un letto ad una piazza collocato all'interno dell'immobile ed il fatto che la B. fosse a conoscenza dell'esistenza dello stesso non rappresentano a loro volta elementi univoci per la configurabilità del reato in contestazione ad entrambi gli imputati ed il ragionamento della Corte territoriale sul punto non appare quindi caratterizzato da logicità, in quanto anche dando per scontato che la B. fosse a conoscenza della presenza del letto, ciò non significa che fosse stata la stessa a collocarlo in loco e, anzi, appare logico ipotizzare il contrario in quanto se l'imputata aveva già avuto la possibilità di occupare nel passato l'immobile oltretutto collocandovi un bene di proprietà all'evidenza sarebbe stata in possesso di strumenti che le facilitavano l'ingresso nello stesso e non avrebbe avuto bisogno di cercare di forzare la serratura della porta di accesso. Alla luce di quanto detto la sentenza impugnata risulta viziata ex art. 606, comma 1, lett. b , cod. proc. pen. non essendo configurabile in atti l'ipotizzato reato di cui agli artt. 110, 56, 633 cod. pen., mentre l'azione descritta ben avrebbe potuto qualificarsi come violazione degli artt. 110, 56, 614 cod. pen Non è tuttavia possibile procedere né alla riqualificazione diretta del fatto da parte di questa Corte Suprema stanti i limiti derivanti dalle pronunce della Corte di Strasburgo sul punto ed in relazione all'art. 6 della CEDU, né disporre un annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai fini di contestazione agli imputati di tale reato essendo lo stesso indubbiamente più grave di quello di cui agli artt. 110, 56, 633 cod. pen. per il quale si è proceduto e comportando l'eventuale condanna per i medesimi fatti ancorché diversamente qualificati una reformatio in peius della decisione assunta, non possibile stante l'assenza di impugnazione da parte del Pubblico Ministero. Detta situazione determina la necessità di disporre l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di entrambi gli imputati ed in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56, 633 cod. pen. capo 1 della rubrica delle imputazioni perché il fatto non sussiste. 2. Manifestamente infondato oltre che assolutamente generico è, invece, il motivo di ricorso formulato dall'imputata B. così come sopra riassunto al punto 2.b nella parte relativa alla contestata detenzione della barra in ferro atteso che la restante parte del motivo di ricorso risulta assorbita nella decisione di cui si è detto pocanzi con riguardo al reato di cui agli artt. 110, 56, 633 cod. pen. . La Corte territoriale con una motivazione congrua, logica e non contraddittoria ha evidenziato gli elementi fattuali dai quali si evince che l'imputata ha avuto la disponibilità della barra di metallo in contestazione. La ricorrente, per contro, tenta di prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti che non è ammissibile in sede di legittimità. In ogni caso il fatto che la barra in ferro sia stata anche utilizzata o meno per il compimento del tentativo di effrazione dell'uscio dell'appartamento di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni, non assume rilievo per la configurabilità del contestato reato di cui all'art. 707 cod. pen 3. Da ultimo, anche il terzo motivo di ricorso formulato dall'imputata B. così come sopra riassunto al punto 2.c risulta manifestamente infondato. La Corte territoriale, al riguardo, nel ritenere non assorbito il fatto del porto del taglierino rinvenuto nella borsetta dalla BARACETTI nel reato di cui all'art. 707 cod. pen., ha fatto buon governo del principio giurisprudenziale enunciato da questa Corte Suprema ed al quale anche l'odierno Collegio ritiene di aderire, secondo cui il porto ingiustificato di un coltellino a serramanico nella specie, di lunghezza pari a cm. 9 di cui cm. 4 di lama , se può rilevare sotto il profilo della contravvenzione ex art. 4 della l. n. 110 del 1975, non può invece essere fatto rientrare nella condotta sanzionata dall'art. 707 cod. pen., non essendo tale oggetto né una chiave alterata né uno strumento atto ad aprire o forzare serrature Cass. Sez. 2, sent. n. 26289 del 06/07/2010, dep. 09/07/2010, Rv. 247753 , principio questo certamente applicabile anche ad arma analoga quale è il taglierino de qua che, oltretutto non è emerso che sia stato utilizzato nel tentativo di effrazione della porta di ingresso dell'immobile. Il fatto che i motivi di ricorso proposti da B.D. relativi ai reati oggetto di contestazione ai capi 2 e 3 della rubrica delle imputazioni sono manifestamente infondati, comporta che la pronuncia sulla condanna in relazione a detti capi diviene irrevocabile con la presente decisione in relazione al già avvenuto accertamento dei fatti-reato e della responsabilità penale in ordine agli stessi sia della ricorrente B.D. che di F.N. il quale non ha presentato ricorso sul punto . Deve tuttavia disporsi il rinvio degli atti alla Corte di Appello di Trieste affinché provveda alla rideterminazione della pena in relazione a tali reati nei confronti di entrambi gli imputati non potendo questa Corte Suprema procedervi direttamente. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo 1 perché il fatto non sussiste e rinvia alla Corte di Appello di Trieste per la rideterminazione della pena in ordine ai restanti reati.