Il profitto comprende “qualsiasi cosa” in riferimento al fatto delittuoso

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, la nozione di profitto del reato finisce col comprendere qualsiasi cosa” in riferimento al fatto delittuoso, individuata esclusivamente secondo il criterio selettivo della pertinenzialità” del profitto al reato, cioè della circostanza che l’uno costituisca una conseguenza economica immediata dell’altro. In tal caso, non è possibile distinguere fra il profitto e l’utile netto”, cioè l’effettivo guadagno percepito dal reo, atteso che tutta la prestazione è geneticamente marchiata” di illiceità, e deve essere confiscata.

Lo ha ribadito la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44897, depositata il 28 ottobre 2014. La confisca per equivalente La pronuncia in esame richiama diffusamente la giurisprudenza di legittimità formatasi in merito all’istituto della confisca per equivalente, cioè a quella che è stata definita una vera e propria sanzione, disposta su somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo, al prodotto e al profitto del reato. Mediante tale istituto, viene assolta una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile. Essa è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo, e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. La misura in parola non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, sicché si impone la valutazione relativa all’equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto. La confisca per equivalente può essere applicata unicamente con riguardo a somme percepite anteriormente all’entrata in vigore delle norme che la consentono. In altri termini, essa non può essere applicata retroattivamente, in quanto – come detto – ha natura sanzionatoria, e non di misura di sicurezza patrimoniale. Proprio su tali basi è stata ritenuta manifestamente infondata, dalla Corte Costituzionale sent. n. 97/2009 , la questione di legittimità degli artt. 200, 322 ter c.p. e 1, comma 143, l. n. 244/2007, censurati, in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui prevedono la confisca obbligatoria cosiddetta per equivalente di beni di cui il reo abbia la disponibilità, con specifico riguardo ai reati tributari commessi anteriormente all'entrata in vigore della citata legge del 2007. Il problema si era posto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla base della duplice considerazione che il comma 2 dell'art. 25 Cost. vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, e che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto, con i principi sanciti dall'art. 7 CEDU, l'applicazione retroattiva di una confisca di beni, riconducibile proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente. Al riguardo, si è confermato che la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un rapporto di pertinenzialità tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una natura eminentemente sanzionatoria, che impedisce l'applicabilità, a tale istituto, del principio generale dell'art. 200 c.p., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive. Altra caratteristica fondamentale dell’istituto de quo è che la confisca non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, il che sta a significare che la motivazione del provvedimento che la dispone dovrà dare atto della valutazione della equivalenza fra il valore dei beni confiscati e l’entità del profitto riveniente dal reato. e il rapporto con il requisito del periculum in mora. La sentenza in commento appare altresì particolarmente interessante, nella parte in cui precisa che il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, attesa la natura sanzionatoria di quest'ultima, non richiede specifiche esigenze cautelari, essendo sufficiente il fumus criminis ” e la corrispondenza tra il valore dei beni oggetto del sequestro e il profitto o prezzo dell'ipotizzato reato. Con specifico riguardo ai reati tributari, la Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che è sempre possibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di beni direttamente riconducibili al profitto di tali reati, ove commessi dagli organi sociali di persona giuridica, nella disponibilità personale loro o della persona giuridica stessa. In tali fattispecie, potrà ritenersi raggiunta la prova che trattasi di profitto del reato allorché si tratti di somme equivalenti a quelle sottratte all'erario, che siano state utilizzate dalla società, nello stesso contesto temporale o in quello immediatamente successivo.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 11 luglio – 28 ottobre 2014, n. 44897 Presidente Esposito – Relatore Cervadoro Osserva Con decreto del 4.11.2013, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rieti dispose il sequestro preventivo nei confronti di F.P. , indagato per i reati di cui agli articolo 640 bis e 48 479 c.p. dei beni allo stesso intestati fino alla concorrenza di Euro 269.725,00. Avverso tale provvedimento l'indagato propose istanza di riesame, e il Tribunale del Riesame con ordinanza del 7.1.2014, confermava il decreto. Ricorre per cassazione il difensore dell'indagato, deducendo 1 l'inosservanza o erronea applicazione degli articolo 640 quater e 322 ter c.p. in quanto la confisca per equivalente del profitto del reato è stata introdotta con la 1.190/2012 e i reati sono stati commessi tra il 2008 e il 2011 e pertanto la misura cautelare comminata viola i principi di irretroattività e tassatività 2 la violazione degli articolo 273 e ss. c.p.p., avendo il Tribunale erroneamente ritenuto la sussistenza del periculum in mora . A ciò aggiungasi che non vi sono elementi - allo stato - per propendere per il delitto di truffa rispetto a quello meno grave di indebita percezione a danno dello Stato. Chiede pertanto l'annullamento dell'ordinanza. Motivi della decisione 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Le Sezioni unite di questa Corte hanno affrontato espressamente il problema di come debba configurarsi il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca c.d. per equivalente, seppure con riferimento alla previsione contenuta dal D.Lgs. n. 231 del 2001, per il caso di responsabilità degli enti collettivi Sez. U., 27/03/2008 n. 26654 Rv. 239924 . È stato osservato al riguardo che secondo l'impostazione del diritto penale classico art. 240 c.p. la confisca andava ascritta tra le misure di sicurezza patrimoniali, fondate sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato la misura era quindi finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati. Successivamente sono state però introdotte nell'ordinamento, in maniera sempre più marcata, ipotesi di confisca obbligatoria del profitto ricavato dal reato tra le quali la confisca di cui agli articolo 322 ter, 600 septies, 640 quater, 644 e 648 quater c.p. in tal modo sotto un nomen iuris unitario hanno finito per trovare spazio istituti di diversa natura. Tale diversa natura emerge a chiare note nella confisca c.d. per equivalente, cui è certamente estranea la finalità preventiva e che persegue l'unico obiettivo di privare l'autore del reato del profitto che gliene è derivato. Con particolare riguardo a quest'ultima ipotesi, si pone quindi il problema ermeneutico della determinazione dell'oggetto dell'ablazione. Pur in assenza di una definizione legislativa delle nozioni di profitto e provento del reato, è indubbio che queste assumono significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui sono inserite. E questa Corte ha affermato a riguardo che, nel contesto di un'attività totalmente illecita, la nozione di profitto del reato finisce col comprendere qualsiasi cosa in riferimento al fatto delittuoso, individuata esclusivamente secondo il criterio selettivo della pertinenzialità del profitto al reato medesimo, ossia della circostanza che l'uno costituisca una conseguenza economica immediata dell'altro. In tal caso, non può farsi spazio all'uso di parametri valutativi di tipo aziendalistico e, in particolare, non è possibile distinguere fra il profitto e l'utile netto , cioè l'effettivo guadagno percepito dal reo. Tutta la prestazione è, per così dire, geneticamente marchiata di illiceità e deve essere confiscata. Altra valutazione deve essere compiuta, invece, nel caso in cui il fatto-reato si inserisce nel contesto di una attività che in sé sarebbe lecita, tanto più se caratterizzata da un rapporto di scambio di natura sinallagmatica. Assume rilievo, quindi, la distinzione fra il reato contratto , cioè il caso in cui vi è una vera a propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico, ed il reato in contratto , che si ha allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale. È di tutta evidenza che nel caso di reato in contratto il profitto tratto dall'agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmente sanzionata, giacché la legge penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale tout court , ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell'altra v. Cass. Sez. II, Sent. n. 20976/2012 Rv. 252842 . Nella specie, il reato per il quale è stato disposto il sequestro è costituito da una truffa ai danni dello Stato. Trattasi di un reato contratto , così come correttamente ritenuto dal Tribunale in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, e pertanto l'intero prezzo è sequestrabile, senza fare alcun riferimento alla distinzione fra questo ed il profitto, come invece pretenderebbe il ricorrente. 2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. Circa il fumus boni juris , il Tribunale ne ha ritenuto la correttamente la sussistenza in quanto la registrazione cumulativa dei 36 falsi contratti di affitto di fondi rustici mostrando una realtà inesistente e pertanto inducendo gli enti erogatori in errore ha consentito all'indagato di ottenere la fornitura di gasolio agricolo agevolato e l'erogazione di contributi, svincolati dalle produzioni effettuate e legati all'ampiezza dei terreni posseduti, che altrimenti non sarebbero stati corrisposti. Corretta è anche la qualificazione dei fatti ai sensi dell'art. 640 bis c.p. in considerazione del quid pluris rispetto alla più lieve ipotesi di frode comunitaria, costituito proprio dalla allegazione di falsi contratti di affitto di fondi rustici. In ordine al periculum in mora , rilevasi infine che secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, attesa la natura sanzionatoria di quest'ultima, non richiede specifiche esigenze cautelari, essendo sufficiente il fumus criminis e la corrispondenza tra il valore dei beni oggetto del sequestro e il profitto o prezzo dell'ipotizzato reato v., da ultimo, Cass. Sez. III, Sent. n. 18311/2014 Rv. 259103 . Anche sotto questo profilo il provvedimento impugnato risulta essersi conformato ai principi di diritto elaborati da questa Corte. Il ricorso va pertanto rigettato. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento e processuali.