Solette e gambali provenienti dalla Romania? No al made in Italy!

La falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato Paese è idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte.

Il sequestro probatorio della merce non prodotta integralmente in Italia. Su quale tipologia di prodotti è permessa l’apposizione della dicitura made in Italy ? È questo il quesito che la Cassazione risolve con la sentenza n. 19650 depositata il 24 maggio 2012 in sede di ricorso contro il sequestro probatorio, ai sensi dell’art. 517 c.p. e dell’art. 4, comma 49 legge finanziaria 2004 legge 350/2003 , di solette per calzature e gambali per stivali provenienti dalla Romania e recanti la dicitura esterna made in Italy . In particolare, la Guardia di Finanza giustificava la misura adottata in quanto la lavorazione sostanziale dei prodotti era avvenuta presso le ditte indicate nei documenti di accompagnamento ubicate in Romania. Inoltre, la società italiana destinataria dei prodotti non aveva fornito elementi tali da permettere l’individuazione della provenienza del prodotto grezzo. Il sequestro era convalidato dal P.M., con riferimento ai reati indicati, e confermato in sede di riesame, ritenendosi che le merci sequestrate non potessero essere qualificate di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, in quanto – trattandosi di merci non prodotte integralmente in Italia – non sarebbe stato dimostrata come avvenuta in Italia l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale. Prodotti finiti o semilavorati? Proposto ricorso per cassazione, la difesa del rappresentante legale della società italiana deduce principalmente l’erronea applicazione dell’art. 517 c.p. e dell’art. 4 comma 49 della legge finanziaria 2004, in quanto il provvedimento impugnato non avrebbe tenuto conto delle disposizioni di cui alla legge n. 55/2010 dove viene previsto che la dicitura made in Italy sia apponibile solo sui prodotti finiti per i quali almeno due delle fasi di lavorazione abbiano avuto luogo effettivamente nel territorio nazionale. Nel caso particolare, la difesa sostiene che le merci sequestrate costituiscono solo dei semilavorati destinati ad essere assemblati in Italia per la realizzazione di scarpe e stivali – prodotti finiti – la cui lavorazione di tre fasi su quattro avviene nel territorio nazionale. La funzione del marchio. Gli Ermellini tuttavia non ritengono la fondatezza del ricorso e pertanto lo rigettano. Infatti, la normativa richiamata dalla difesa ha natura essenzialmente doganale, mentre l’oggetto della tutela apprestata dagli artt. 517 c.p. e dall’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 tutelano l’interesse generale concernente l’ordine economico. Con esperienza didattica i giudici di Piazza Cavour ricostruiscono il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento precisando in primo luogo che per provenienza ed origine della merce non si deve intendere la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, ma da un determinato imprenditore che – si legge nella sentenza – si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti dell’acquirente. È il marchio, evidenziano i giudici della Cassazione, che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto. La dicitura made in Italy può ingannare . La fattispecie di reato in evidenza si configura astrattamente quando, oltre al proprio marchio e alla indicazione della località in cui ha sede, l’imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione. In buona sostanza, si tratta di ipotesi in cui rileva il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato Paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte. Fallace o falso ? Precisano inoltre i giudici del Palazzaccio che in materia le uniche infrazioni penalmente irrilevanti, ma integranti un illecito amministrativo, sono costituite dalle indicazioni fallaci – previste dal comma 49- bis dell’art. 4 l. n. 350/2003 - da cui possono derivare incertezze causate dalla mancanza di indicazioni precise sull’origine o provenienza estera del prodotto o comunque tali da evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore. In definitiva, fallace – come sostengono gli Ermellini – è ciò che può illudere o ingannare, mentre falso è ciò che risulta contrario al vero per contraffazione o alterazione dolosa. Lesione della lealtà degli scambi commerciali. Tornando alla vicenda in esame, la Cassazione conferma l’astratta configurabilità del reato di cui agli artt. 517 c.p. e 4, comma 49, l. n. 350/2003 in quanto risulta che per le solette, vi sarebbe stata sia l’apposizione di un marchio di imprenditore italiano sia la falsa attestazione di fabbricazione del prodotto in un Paese diverso da quello effettivo. Configurabilità – chiosano i giudici – che può essere estesa anche ai gambali per le calzature finite allorché si consideri che proprio le solette possono costituire per gli stivali, il luogo elettivo di apposizione sia del marchio sia della indicazione di origine. Pertanto, non si può negare, per dirla con Piazza Cavour, la idoneità a ledere la lealtà degli scambi commerciali e ad indurre in errore i consumatori. Da qui il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 gennaio – 24 maggio 2012, n. 19650 Presidente Mannino – Relatore Fiale Ritenuto in fatto Il Nucleo mobile della Guardia di Finanza di Gorizia, in data 8 giugno 2011, effettuava un controllo su un autocarro di proprietà della s.r.l. Dynamic Line Company , con sede in , e vi rinveniva merci provenienti da quello Stato e destinate alla società italiana s.p.a. Calzaturificio Samoa . In quella circostanza i militari sottoponevano a sequestro probatorio, ex art. 354 cod. proc. pen. - n. 9 scatoli di cartone con la dicitura esterna Made in Italy , contenenti solette per calzature con marchiatura Made in Italy e con marchi Samoa e Old Flonence per un totale di n. 3.098 pezzi - n. 109 scatoli di cartone, anch'essi con la dicitura esterna Made in Italy , contenenti gambali per stivali per un totale di n. 4.902 pezzi. La Guardia di Finanza giustificava l'adottata misura verbalizzando che la lavorazione sostanziale era avvenuta presso le ditte, indicate nei documenti di accompagnamento della merce, ubicate in e che, a corroborare tale assunto, si poneva la circostanza che la società italiana destinataria non aveva fornito elementi tali da permettere ai verbalizzanti l'individuazione della provenienza del prodotto grezzo . Il P.M. di Gorizia - con decreto del 10.6.2011 - convalidava il sequestro probatorio con riferimento al reato di cui all’art. 517 cod. pen. in relazione all'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. L'istanza di riesame, proposta nell'interesse di B.A. quale rappresentante legale della s.p.a. Calzaturificio Samoa , è stata rigettata dal Tribunale di Gorizia con ordinanza del 18.7.2011, che ha ritenuto configurabile il delitto di cui all'art. 517 cod. pen., ritenendo che le merci sequestrate non possano qualificarsi di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine il riferimento espresso è al Regolamento CEE n. 2913/92 del 12.10.1992, istituente il Codice doganale comunitario , in quanto - vertendosi in caso di merci non integralmente prodotte in Italia - non sarebbe stato dimostrato che in Italia sia avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale. Il Tribunale ha considerato, altresì, adeguatamente enunciata dai P.M. la necessità della permanenza del vincolo, dovendo svolgersi i dovuti accertamenti sul corpo del reato attraverso la verifica delle diverse fasi del processo produttivo di cui i beni sequestrati costituiscono il risultato. Avverso l'anzidetta ordinanza del Tribunale per il riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore del B. , il quale ha dedotto - l'erronea applicazione degli artt. 517 cod. pen. e 4, comma 49, della legge n. 350/2003 - la mancanza dei presupposti richiesti per l'adozione del provvedimento di sequestro. Secondo la prospettazione difensiva, il provvedimento impugnato - oltre ad avere fatto erroneo riferimento al Codice doganale Europeo di cui al Regolamento CEE 2913/92, perché successivamente sostituito dal Regolamento CE 450/08 del 23.4.2008 - non avrebbe tenuto conto delle disposizioni della legge 8.4.2010, n. 55, ove viene previsto che la dicitura Made in Italy sia apponitele solo su prodotti finiti per i quali almeno due dette fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale. Nella fattispecie in esame le merci sequestrate costituirebbero soltanto semilavorati , destinati ad essere assemblati in Italia per la realizzazione di scarpe e stivali quali prodotti finiti da immettersi in commercio e ben tre fasi della lavorazione di tali prodotti finiti tra le quattro fasi individuate dalla legge n. 55/2010 avverrebbero nel territorio italiano concia del pellame, assemblaggio e rifinizione queste ultime due da considerarsi come ultima lavorazione o trasformazione sostanziale1 ai sensi del Codice doganale comunitario . Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato, perché infondato. 2. Questa 5ezione - già con fa sentenza 9.2.2010, n. 19746, Follieri - ha evidenziato che, relativamente ai prodotti industriali, per provenienza ed origine della mercé non deve intendersi ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti [vedi Cass., Sez. III 21.10.2004, n. 3352/05, Scarpa, 17.2.2005, n. 13712, Acanfbra 19.4.2005, n. 34103, Tarantino 2.3.2006, n. 24043, Dewar 24.1.2007, n. 8684, Emili 15.3.2007, n. 27250, Contarmi 28.9.2007, n. 166/08, Parentini]. Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. La triplice tradizionale funzione del marchio indicare la provenienza imprenditoriale, assicurare la qualità del prodotto e agire come suggestione pubblicitaria non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerosi imprenditori si avvalgono legittimamente di imprese situate in altri Paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo Sez. III, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora . In particolare, è stato più volte affermato che quando il marchio corrisponda effettivamente alla ditta che si assume la responsabilità e la garanzia della qualità della merce, è poi irrilevante che la ditta italiana sia stata solo importatrice o abbia anche partecipato alla produzione della mercé, dai momento che essa si è comunque resa garante della qualità della mercé stessa nei confronti degli eventuali acquirenti [Sez. III 21.10.2004, n. 3352/05, Scarpa 17.2.2005, n. 13712, Acanfora 19.4.2O05, n. 34103, Tarantino 2.3.2006, n. 23043, Dewar 15.3.2007, n. 2725Or Contarmi 28.9.2007, n. 166/08, Parentini]. 2.1 È stato pure specificato che è astrattamente configurabile una fattispecie di reato solo quando, oltre ai proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l'imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione. In questi casi, invero, la falsa apposizione delle diciture Made in Italy o prodotto in Italia sarà punita ai sensi dell'art. 4, comma 49, della legge n. 350/2003, mentre la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un altro Paese sarà comunque punita ai sensi dell'art. 517 cod. pen Trattasi di ipotesi nelle quali non ha più rilievo la provenienza da un dato imprenditore che assicura la qualità del prodotto, ma il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato Paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere suite sue scelte egli potrebbe indursi, per i più diversi motivi, ad acquistare o non acquistare un prodotto proprio perché fabbricato o non fabbricato in un determinato luogo . 2.2 L'art. 16, comma 6, del D.L. 253.200% n. 135, convertito con la legge 20.11.2009, n. 166, ha inserito nel l'art. 4 della legge n. 350/2003 il comma 49 bis, il quale prevede che costituisce fallace indicazione l'uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la mercé sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine dei prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000 . Ritiene il Collegio che questo comma vada interpretato nel senso che attualmente costituiscono infrazioni penalmente irrilevanti ma integranti solo un illecito amministrativo esclusivamente le condotte di indicazioni fallaci da cui possano derivare situazioni di incertezza indotte dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine dei prodotto . Continuano, invece, a costituire delitto le ipotesi di uso del marchio e della denominazione di provenienza o di origine con false indicazioni idonee da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Fallace , invero, è ciò che può illudere o ingannare mentre falso è ciò che risulta contrario al vero per contraffazione o alterazione dolosa vedi sul punto Cass., Sez. III, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora . Devono essere come sopra precisate, pertanto, le argomentazioni svolte da questa Sezione nella sentenza n. 19746/2010. 2.3 La più recente normativa contenuta nella legge 8 aprile 2010, n. 55 prevede un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti e intermedi, intendendosi per tali quelli che sono destinati alla vendita, nei settori tessile, della pelletteria e calzaturiero, che evidenzi luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione e assicuri la tracciabilità dei prodotti stessi”. Si prescrive, in particolare art. 1, comma 4 , che la dicitura Made in Italy è permessa esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione . hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità e viene specificato al comma 6 detto stesso art. 1 che nel settore calzaturiero per fasi di lavorazione si intendono la concia, la lavorazione della tomaia, l'assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Punto fermo, comunque, è la necessità di assicurare la tracciabilità dei prodotti attraverso la evidenziazione del luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione. L'art. 3, 3 comma, della legge n. 55/2010 prevede anche fattispecie penalmente rilevanti ove alcune condotte violatrici siano commesse reiteratamente ovvero attraverso attività organizzate. 3. Il Codice doganale comunitario - adottato con Regolamento CE n. 450/2008 - stabilisce che, nel caso in cui alla produzione della mercé abbiano contribuito due o più Paesi, la mercé si considera originaria del Paese dove è avvenuta l'ultima trasformazione/lavorazione sostanziale, purché sussistano cumulativamente le condizioni che tale trasformazione/lavorazione sostanziale sia economicamente giustificata, effettuata da un'impresa attrezzata a tale scopo e si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione. Per stabilire se un prodotto ha subito una lavorazione sostanziale occorre fare riferimento agli Allegati nn. 10 per le materie tessili e i loro manufatti e il per i prodotti diversi alle disposizioni di applicazione del Codice doganale comunitario e, qualora un determinato prodotto non si a menzionato negli allegati anzidetti, ci si deve affidare alle linee guida stilate dalla Unione Europea. 3.1 È importante evidenziare, però, che le citate disposizioni comunitarie hanno natura essenzialmente doganale e che altro e diverso è, invece, l'oggetto della tutela apprestata dagli artt. 517 cod. pen. e dall'art. 4, comma 49, della legge n. 350/2003. Tali norme tutelano infatti l'interesse generale concernente l'ordine economico vedi Cass., Sez. III, 13.1.2007, n. 2003/2008 . Nella vicenda in esame, risulta che, per le solette, vi sarebbe stata sia l'apposizione di un marchio di imprenditore italiano sia la falsa attestazione di fabbricazione del prodotto in un Paese diverso da quello effettivo e ciò rende astrattamente configurabile il reato di cui agli artt. 517 cod. pen. e 4, comma 49, della legge n. 350/2003 configurabilità che può essere estesa anche ai gambali per le calzature finite allorché si consideri che proprio le solette possono costituire per gli stivali il luogo elettivo di apposizione sia del marchio sia della indicazione di origine. Non può negarsi, pertanto, la idoneità a ledere la lealtà degli scambi commerciali e ad indurre in errore i consumatori. 4. Adeguata deve ritenersi, infine, l’individuazione da parte del Tribunale del riesame correlata alle prospettazioni del P.M. delle concrete esigenze probatorie che la misura, nella specie, è stata finalizzata ad assicurare con riferimento a tutti gli oggetti posti in sequestro. A fronte della rilevante quantità delle merci sequestrare, provenenti da ditte diverse operanti in , e tenuto conto delle possibilità di commercializzazione anche dei prodotto intermedi, razionali appaiono, indatti, le evidenziate esigenze di individuazione specifica delle merci stesse e del processo produttivo di cui costituiscono il risultato, nonché quelle di apprezzamento diretto della ipotizzata potenzialità ingannatoria. Una volta effettuati tali riscontri, potrà stabilirsi se sia sufficiente mantenere il vincolo solo su alcuni capi. 5. Al rigetto del ricorso segue le condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.