Paga di più senza danni per l'erario: non c'è evasione fiscale

Non ha rilevanza penale il comportamento del professionista che fattura la sua parcella ad una società costituita con la moglie a condizione che non ci sia un illecito risparmio d'imposta.

Non ha rilevanza penale il comportamento del professionista che fattura la sua parcella ad una società costituita con la moglie a condizione che non ci sia un illecito risparmio d'imposta. E' quanto affermato dalla Terza sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8972 dell'8 marzo 2011. La fattispecie. Il Gip del tribunale di Napoli disponeva il sequestro preventivo sui beni di due coniugi, per avere, al fine di evadere le imposte, indicato nella dichiarazione dei redditi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale, con conseguente evasione dell'IRPEF. In sostanza, l'uomo, al quale era stata affidata una consulenza in materia finanziaria, aveva creato una s.a.s., di cui erano soci lui e la moglie, ed aveva fatto emettere da tale società le fatture relative alla consulenza che risultava apparentemente affidata alla società ma che in realtà era stata da lui svolta. Pertanto, la Procura contestava ai due soci di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non denunciando il compenso per la consulenza svolta da lui ricevuto personalmente senza così pagare la relativa imposta. Versa imposte per un ammontare superiore a quello cui è tenuto. Tuttavia, il tribunale del riesame disponeva il dissequestro, osservando che la difesa aveva ampiamente dimostrato che la complessiva operazione non aveva avuto alcuna finalità di evasione fiscale e che sulle somme percepite per l'attività professionale il ricorrente aveva pagato complessivamente imposte per un importo maggiore di quello che avrebbe pagato se le avesse percepite personalmente e regolarmente dichiarato l'intero onorario. Né l'accusa aveva portato alcun elemento in senso contrario. In conclusione, secondo il tribunale del riesame, doveva escludersi la sussistenza sia del profitto sia della finalità di evasione fiscale della condotta contestata. Non c'è evasione fiscale. Tale tesi incontra il favore della Suprema Corte. Infatti, al riguardo, i giudici di legittimità osservano che nel caso in esame non è ravvisabile alcun profitto ricavato dall'indagato a seguito della complessa operazione, così che viene a mancare il presupposto necessario per l'applicazione della misura cautelare, avente ad oggetto somme di denaro corrispondenti appunto al profitto derivato dal reato. Manca il dolo specifico. Né tanto meno sussiste il dolo specifico richiesto per la stessa configurabilità del reato ex art. 4, d.lgs. n. 74/2000, costituito dalla finalità di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, dal momento che, in mancanza di profitto, la finalità perseguita dall'indagato con la costituzione della società era con tutta evidenza diversa da quella di evadere le imposte, che invece erano state interamente corrisposte. Non si verifica alcun danno per l'Erario. In particolare, l'intero compenso percepito per la prestazione svolta era stato correttamente evidenziato all'erario e su di esso era stata integralmente e tempestivamente adempiuta l'obbligazione tributaria. Anzi l'imposta pagata era stata addirittura superiore rispetto a quella cui l'imputato sarebbe stato tenuto l'imposta corrisposta globalmente era stata maggiore di quella che sarebbe stata pagata nel caso che la dichiarazione dei redditi fosse avvenuta computando nella dichiarazione dei redditi dell'indagato tutte le somme pagate per la prestazione professionale. Niente profitto, niente sequestro preventivo. Pertanto, alla luce di tali considerazioni, la S.C. conclude poiché in relazione alle condotte tributarie di natura dichiarativa, il profitto del reato coincide di fatto con il risparmio fiscale frutto dell'omessa, fraudolenta o infedele dichiarazione, e poiché la confisca ed il sequestro preventivo del profitto ha come necessario presupposto l'esistenza stessa del profitto, allorché questo non sussista non è possibile disporre la misura ablativa.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 1° dicembre 2010 - 8 marzo 2011, n. 8972 Presidente Squassoni - Relatore Franco Svolgimento del processo Con decreto 19.1.2010 il Gip del tribunale di Napoli dispose il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni di per la somma di € 857.019,84, corrispondente al profitto che sarebbe derivato dal reato di cui all'art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 capo B della imputazione per avere, al fine di evadere le imposte, indicato nella dichiarazione dei redditi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale, con conseguente evasione dell'IRPEF. Il comportamento contestato all'indagato consiste nel fatto che il al quale era stata affidata una consulenza in materia finanziaria, aveva creato la s.a.s. di cui erano soci lui e la moglie, ed aveva fatto emettere da tale società le fatture relative alla consulenza che risultava apparentemente affidata alla società ma che in realtà era stata da lui svolta. Pertanto era stato contestato ai due soci di avere emesso fatture per operazioni soggettiva mente inesistenti mentre al Era stato contestato di non avere dichiarato nella denuncia dell'IRPEF il compenso per la detta consulenza in realtà da lui ricevuto personalmente e quindi di non avere pagato la relativa imposta. Il tribunale del riesame, con l'ordinanza in epigrafe, ha accolto l'appello e revocato il sequestro preventivo, osservando che la difesa aveva ampiamente dimostrato che la complessiva operazione non aveva avuto alcuna finalità di evasione fiscale e che sulle somme percepite per l'attività professionale il ricorrente aveva pagato complessivamente imposte per un importo maggiore di quello che avrebbe pagato se le avesse percepite personalmente e regolarmente dichiarato l'intero onorario. Né l'accusa aveva portato alcun elemento in senso contrario. In conclusione, secondo il tribunale del riesame, doveva escludersi la sussistenza sia del profitto sia della finalità di evasione fiscale della condotta contestata. Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli propone ricorso per cassazione deducendo violazione degli artt. 4 e 8 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Osserva che la condotta dell'indagato aveva integrato sia il reato di cui all'art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sia quello di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, di cui al successivo art. 8. In ogni caso la dichiarazione dei redditi è stata fatta da soggetto diverso da quello che li ha prodotti e percepiti, il quale aveva invece omesso la dichiarazione, e questa circostanza configura il reato di evasione fiscale. Va quindi sottoposta a sequestro preventivo la somma corrispondente all'imposta sul reddito non corrisposta dal . Nell'imminenza dell'udienza è stata deposita una memoria difensiva dal difensore dell'indagato. Motivi della decisione Il ricorso del pubblico ministero è manifestamente infondato. Il tribunale del riesame ha accolto l'appello e revocato il sequestro preventivo per due concorrenti ragioni a perché non era ravvisabile alcun profitto ricavato dall'indagato a seguito della complessa operazione, sicché mancava lo stesso presupposto occorrente per l'applicazione della misura cautelare, avente ad oggetto somme di denaro corrispondenti appunto al profitto derivato dal reato b perché difettava il dolo specifico richiesto per la stessa configurabilità del reato di cui all'art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, costituito dalla finalità di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, dal momento che, in mancanza di profitto, la finalità perseguita dall'indagato con la costituzione della società era con tutta evidenza diversa da quella di evadere le imposte, che invece erano state interamente corrisposte. In particolare, per quanto concerne l'assenza del profitto, il tribunale del riesame ha accertato, in punto di fatto, la fondatezza e veridicità dell'assunto difensivo, secondo cui l'intero compenso percepito per la prestazione svolta era stato correttamente evidenziato all'erario e su di esso era stata integralmente e tempestivamente adempiuta l'obbligazione tributaria, ed anzi l'imposta pagata era stata addirittura superiore rispetto a quella cui, secondo la prospettazione accusatoria, sarebbe stato tenuto il . E' stato infatti accertato a che la società per i proventi percepiti in relazione alla attività di consulenza in questione, pari ad € 2.238.287,19, aveva corrisposto un'IRAP di € 94.912,00 b che il reddito d'impresa era stato correttamente attribuito ai soci della il e la moglie sig.ra in proporzione della partecipazione di ciascuno al capitale sociale c che la aveva regolarmente dichiarato il reddito d'impresa proveniente dalla pari ad € 2.007.493,00, sul quale aveva regolarmente corrisposto l'IRPEF per €. 843.803,00 d il aveva regolarmente dichiarato il reddito d'impresa proveniente dalla pari ad € 223.055,00, ed aveva regolarmente indicato nella dichiarazione IRPEF tale reddito, oltre a quelli di fabbricati ed a quello pensionistico, ed aveva corrisposto un'IRPEF complessiva di € 124.799,00, di cui € 98.970,00 in relazione alla sua parte di reddito d'impresa. Deve di conseguenza ritenersi esatta la soluzione adottata dal tribunale del riesame. Ed infatti, poiché in relazione alle condotte tributarie di natura dichiarativa, il profitto del reato coincide di fatto con il risparmio fiscale frutto dell'omessa, fraudolenta o infedele dichiarazione, e poiché la confisca ed il preventivo sequestro del profitto ha come necessario presupposto l'esistenza stessa del profitto, allorché questo non sussista non è possibile disporre la misura ablativa. Altrettanto correttamente il tribunale del riesame ha escluso la sussistenza del dolo specifico richiesto per la configurabilità del reato ipotizzato, perché, a prescindere dal ricorrere o meno di una falsità soggettiva delle fatture, l'imposta corrisposta globalmente era stata maggiore di quella che sarebbe stata pagata nel caso che la dichiarazione dei redditi fosse avvenuta computando nella dichiarazione dei redditi dell'indagato tutte le somme pagate per la prestazione professionale. Il infatti, se avesse emesso direttamente fattura per l'intera somma percepita come compenso per la consulenza avrebbe dovuto pagare un onorario pari ad € 857.000 circa. L'imposta complessiva effettivamente pagata, a cui si doveva aggiungere quella corrisposta dalla società a titolo di IRAP, era stata invece di € 1.037.694,00, ossia € 81.695 in più rispetto alla somma contestata ex art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 al come persona fisica. Ciò dimostrava, secondo la congrua ed adeguatamente motivata valutazione del tribunale del riesame, la insussistenza del dolo specifico del reato perché era evidente che la finalità perseguita dall'indagato era diversa da quella di ottenere un profitto per evasione fiscale. Il pubblico ministero con il suo ricorso non ha contestato questi dati, ma si è limitato a riproporre la tesi, meramente formalistica, secondo cui il reato sarebbe configurabile ed il profitto sussisterebbe per la sola circostanza che i compenso da attività professionale sarebbe stato corrisposto in realtà al come persona fisica e non alla società e che quindi il nella sua dichiarazione dei redditi avrebbe dovuto indicare l'intero compenso, e non solo la parte ricevuta come reddito d'impresa, non avendo rilievo poi il fatto che l'imposta fosse stata ugualmente corrisposta per intero ed anzi in misura superiore giacché non potrebbe tenersi conto di quanto fittiziamente versato da altri soggetti, ed in particolare dalla , sempre in relazione al medesimo compenso. Questo assunto è manifestamente infondato perché si limita, appunto, a guardare il mero dato formale senza considerare nel suo complesso il reddito percepito per quella data attività di consulenza e le imposte complessivamente pagate in relazione a detto reddito. La tesi del PM, in sostanza, ha il vizio di considerare lo stesso rapporto fittizio e non fittizio allo stesso tempo, ed in particolare di considerare fittizia la corresponsione del compenso e non fittizio il pagamento dell'imposta su tale compenso. In altre parole, delle due l'una o la costituzione della e il versamento del compenso a questa costituisce una operazione fittizia dovendosi ritenere il compenso incassato in realtà dal solo ma allora deve ritenersi fittizio anche il pagamento dell'imposta da parte della e della e considerare invece che l'imposta è stata versata in realtà sempre dal con la conseguenza che non è ravvisabile alcun profitto ed alcuna finalità di evadere le imposte. Ovvero si ritiene che non vi sia stata una operazione fittizia e che le imposte siano state pagate in realtà proprio dalla e dalla e solo in parte dal , ma allora deve ritenersi anche che fu reale e non fittizio il pagamento del compenso alla società e che la dichiarazione di redditi del fu veritiera e completa con la conseguenza che non solo è ravvisabile il reato di cui all'art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ma nemmeno quello di emissione di fatture soggettivamente inesistenti. Si suol dire, in altre parole, che si ritiene fittizio il pagamento del compenso alla società ed alla invece che dal stesso. Il ricorso del PM, partendo dal dato formale della pretesa distinzione soggettiva tra il soggetto tenuto al pagamento dell'imposta ed i soggetti e che se ne sono fatti in concreto carico, correla a tale distinzione anche il diverso reato di cui all'art. 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che però è irrilevante rispetto al tema della misura cautelare in discussione, dal momento che questa fu disposta esclusivamente in relazione al preteso profitto originato dalla infedele dichiarazione dei redditi. Va infine evidenziato che il tribunale del riesame aveva correttamente rilevato che, in una situazione come quella accertata, il profitto con corrispondente danno per l'erario ed il fine di evadere le imposte sarebbero stati ravvisabili esclusivamente se vi fosse stata la dimostrazione che il , qualora avesse percepito personalmente e regolarmente dichiarato l'intero onorario, avrebbe pagato una imposta maggiore di quelle complessivamente corrisposte da lui, dalla moglie e dalla DFG. Il tribunale aveva quindi esattamente concluso osservando che l'accusa non aveva invece in alcun modo dimostrato e nemmeno dedotto che all'esito della tassazione del compenso come reddito d'impressa spalmato su due persone, fosse residuato un profitto ed un danno. Il ricorso del PM nulla deduce su questo punto e nemmeno sostiene che l'imposta complessiva sarebbe stata superiore qualora non fosse stata spalmata tra i due soggetti. Il ricorso è quindi non solo manifestamente infondato ma anche inconferente perché non contesta l'argomentazione decisiva su cui si è basata l'ordinanza impugnata. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso del P.M