Archiviazione per incertezza sulle prove e azione civile per risarcimento danni

La figura del contratto con effetti protettivi viene ammessa solo per il caso di contratto stipulato dalla gestante e dunque con effetti protettivi verso il padre ed il figlio nascituro, mentre è esclusa per fattispecie diverse la figura del contratto con effetti protettivi verso terzi presuppone che il terzo abbia l’identico interesse del contraente, che viene conivolto allo stesso modo dalla esecuzione o dall’inadempimento del contratto come appunto nel caso della gestante, dove l’interesse della donna alla nascita del figlio è lo stesso dell’altro genitore e non v’è motivo di distinguere il titolo della responsabilità.

Se riguardo ad un fatto illecito astrattamente configurabile come reato sia pronunciato decreto di archiviazione, il giudice civile non può sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento e così escludere l’applicazione del più lungo periodo di prescrizione eventualmente previsto, poiché l’art. 2947 comma 3 c.c. seconda parte, non prevede l’archiviazione tra i presupposti che giustificano il regime ivi applicato. Il ragionamento presuntivo deve considerare tutti e non solo alcuni degli elementi indicativi emersi dall’istruttoria. Quanto all’indicazione della causa del decesso il certificato di morte non ha fede privilegiata. Il consenso può ritenersi informato qualora l’informazione data riguardi oltre l’intervento da eseguire, ma anche sui rischi e le ragioni della scelta. Tale in sintesi il contenuto dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 19188/20 , depositata il 15 settembre, che ora andiamo ad analizzare più da vicino. Fatti di causa. Questi, in sintesi i fatti di causa una donna viene ricoverata in ospedale a causa di alcuni sintomi connessi all’utilizzo di lassativi prescritti dal medico curante. Qui, i medici, effettuano un’ecografia e, per il sospetto che la massa così rilevata, di sette centimetri, sia una neoplasia, programmano per il giorno seguente un esame endoscopico precisamente una gastro-duodeno endoscopia dando avviso della necessità del suddetto esame alla donna e alle sue due figlie. Succede poi che l’esame viene interrotto nel momento in cui il medico operante nota una perforazione, ma la donna ma va in arresto cardiaco e, nonostante i tentativi compiuti per rianimarla, dopo un’ora e mezza decede. Le due figlie depositano una denuncia querela che avvia un’inchiesta per omicidio colposo qui il primo perito incaricato dal P.M., ritenuto di non dover effettuare l’autopsia, afferma l’incertezza delle cause del decesso. Il P.M. richiede l’archiviazione, ma le figlie della donna propongono opposizione e così il G.I.P. richiede al P.M. un supplemento di consulenza tecnica, che viene così disposta ma anche in questo caso la conclusione è simile mancando l’autopsia, non è possibile affermare con certezza le cause della morte il PM chiede nuovamente l’archiviazione. Segue nuova opposizione delle donne e un nuovo ampliamento delle indagini da parte del GIP, ma l’esito è sempre lo stesso. Le due donne si rivolgono così al tribunale civile dove addebitano ai medici l’avere procurato una perforazione gastrica nel corso dell’esame endoscopico a quel punto, il non avere soccorso o assistito adeguatamente la donna il non avere raccolto il consenso informato. Il tribunale rigetta la domanda, senza nemmeno procedere ad istruttoria, ma mandando la causa in decisione direttamente sulla questione preliminare della prescrizione della domanda e della mancanza di prova del nesso di casualità la decisione rileva, per un verso, per la mancata autopsia, il mancato assolvimento dell’onere probatorio circa il nesso causale e, per un altro, la prescrizione della domanda di risarcimento iure proprio essendo trascorsi cinque anni, trattandosi di responsabilità extracontrattuale e non contrattuale e non potendosi applicare il termine più lungo previsto da reato, non essendo questo stato accertato. In secondo grado, la Corte d’Appello giudice inammissibile l’appello ex art. 348- ter c.p.c. In cassazione il ricorso è affidato a sette motivi contro la sentenza di primo grado, come previsto dall’art. 348 ter co. 3 primo per. c.p.c. secondo cui Quando è pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione. . Primo motivo la prescrizione non è quinquennale. Il primo motivo contesta la violazione degli artt. 2043, 1218 e 2947 c.c. La questione posta riguarda la prescrizione del diritto al risarcimento iure proprio delle figlie dalla deceduta. Il tribunale ha ritenuto che si è compiuta la prescrizione per due ragioni, distinte da un punto di vista logico primo, il diritto al risarcimento è vantato a titolo extracontrattuale e non contrattuale non sono qui richiamabili gli effetti protettivi del contratto tra la madre e l’ospedale, in quanto questi si producono solo a vantaggio del nascituro e di suo padre secondo, il termine quinquennale previsto per le prescrizioni per il risarcimento del danno fatto illecito non può essere allungato ai sensi dell’art. 2947 c.c. in quanto il reato è stato escluso con il provvedimento di archiviazione. Le ricorrenti contestano tali ragioni in quanto primo, il contratto di spedalità” ha effetti protettivi verso tutti, senza distinzione tra padre e figlio nascituro da un lato e altri parenti secondo, la prescrizione prevista per il reato non si applica solo in caso di accertata insussistenza del reato e non in caso di archiviazione. I giudici ritengono fondato il secondo profilo. Gli effetti protettivi verso terzi della responsabilità contrattuale sono ammessi solo nel caso della gestante. Ed invero, quanto al primo, i giudici escludono che la responsabilità della ASL abbia natura contrattuale, il che presupporrebbe che il contratto stipulato dalla madre abbia effetti appunto protettivi verso terzi, cioè le figlie. Spiega la Corte che la figura del contratto con effetti protettivi è stata dalla sua giurisprudenza ammessa solo per il caso di contratto stipulato dalla gestante e dunque con effetti protettivi verso padre e figlio nascituro, mentre è esclusa per fattispecie diverse qui la Corte menziona i precedenti di Cass. nn. 10741/2009, 10812/2019, 5590/2015, 14258/2020 . Spiega in sintesi la corte, con l’approfondimento che ritiene idoneo ad escluderne l’applicazione al caso de quo, che la figura del contratto con effetti protettivi verso terzi presuppone che il terzo abbia l’identico interesse del contraente, che viene convolto allo stesso modo dalla esecuzione o dall’inadempimento del contratto come appunto nel caso della gestante, dove l’interesse della donna alla nascita del figlio è lo stesso dell’altro genitore e non v’è motivo di distinguere il titolo della responsabilità. Tale osservazione è sufficiente per escludere nel caso di specie l’applicazione della detta figura dato che qui l’inadempimento della ASL ha leso due beni distinti la vita della donna e il rapporto parentale delle due figlie. Il decreto di archiviazione non preclude l’allungamento della prescrizione del reato. Quanto al secondo profilo, invece, è corretto affermare che se riguardo ad un fatto illecito, che sia astrattamente configurabile come reato, sia pronunciato decreto di archiviazione, il giudice civile non può sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento , poiché l’art. 2947 comma 3 c.c. l’art. 2947, dopo avere previsto al comma 1 la prescrizione quinquennale per il risarcimento del danno da fatto illecito e al comma 2 la prescrizione biennale per il risarcimento del danno da circolazione dei veicoli, al comma 3 prevede che In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile non prevede l’archiviazione tra le cause di applicazione della prescrizione, nel nostro caso di cui all’art. 2947 comma1 c.c., cioè quinquennale qui la Corte richiama il precedente di Cass. n. 6858/2018 . La decisione che consente di escludere l’applicazione del più lungo termine di prescrizione previsto per il reato ipotizzato è solo la sentenza irrevocabile, la quale contenendo un accertamento negativo del reato, ha riflessi sull’azione civile impedendo i benefici che si è accertato insussistente. Diversamene, il decreto di archiviazione non impedisce al giudice civile di compiere una sua valutazione circa la sussistenza del reato al fine di individuare il termine di prescrizione applicabile ai sensi dell’art. 2947 c.c. Peraltro, osservano i giudici, nel caso de quo il provvedimento di archiviazione è stato emesso alla luce dell’assenza dell’autopsia, cioè preso atto che era difficile individuare le cause del decesso, e dunque secondo una valutazione probabilistica da parte del PM circa le possibilità di sostenere l’accusa nel dibattimento. Non si tratta dell’accertamento dell’insussistenza del reato. Esito che non può impedire al giudice civile di compiere la sua valutazione ai fini dell’applicazione dei termini della prescrizione. Se il giudizio è mandato in decisione su questioni preliminari, ma la decisione viene emessa per altre ragioni. Con il secondo motivo le ricorrenti contestano la violazione dell’art. 187 c.p.c. per il fatto che, avendo deciso di rinviare per la decisione su determinate questioni preliminari, il tribunale ha poi fondato la decisione su altre, e ciò dimostra che il rinvio era infondato per i giudici il motivo è fondato ma assorbito dall’accoglimento del primo e, vedremo più avanti, del terzo. Il ragionamento presuntivo deve considerare tutti e non solo alcuni degli elementi indicativi emersi dall’istruttoria. Con il terzo motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. circa la mancata prova del nesso eziologico affermata nella decisione. Il tribunale civile, in linea con quanto asserito nel decreto di archiviazione, ha asserito che l’omissione dell’autopsia ha impedito di accertare le cause del decesso e in particolare il nesso con l’esame endoscopico. Dunque, il tribunale ha concluso che non vi è prova del nesso di causalità. Osservano invece le ricorrenti che altri elementi erano da porre a base di una presunzione e cioè il fatto inoppugnabile che la perforazione non esistesse prima dell’intervento, che nessun elemento era a favore della tesi di un carcinoma gastrico che potesse incidere sulla permeabilità dei tessuti che invece risultavano, dato pacifico, ispessiti. Infine, le ricorrenti lamentano l’erronea applicazione della regola dell’onere della prova, per cui la prova della mancata imputabilità della causa lesiva veniva posta a loro carico. Il motivo, per i giudici, è fondato. Afferma la Corte che la regola da essa fissata per la prova sufficiente del nesso di causalità è quella del più è probabile che no”, per la quale il nesso causale si considera accertato qualora risulti che sia più probabile che il fatto antecedente abbia causato l’evento, piuttosto che no. Accertamento che può raggiungersi anche mediante presunzioni e non necessariamente tramite prove dirette. Non che il giudice non abbia fatto ricorso allo strumento delle presunzioni, dal momento che ha deciso sulla base delle valutazioni del decreto di archiviazione ma la regola è che devono prendersi in considerazione tutti e non solo alcuni degli elementi indicativi emersi dall’istruttoria e che gli elementi presi come indicativi devono essere gravi, precisi e concordanti. Il tribunale conclude per l’incertezza del nesso eziologico per via della mancata effettuazione dell’autopsia in sede penale, l’unico elemento posto a base della decisione, così violando le regole del giudizio induttivo. Ma tale ragionamento, che peraltro attribuisce alle ricorrenti un inadempimento sulla base di un atto estraneo alla loro sfera d’azione, qual è l’autopsia, è incompleto perché non prende in considerazione gli ulteriori elementi indiziari indicati dalle ricorrenti suindicati . Il giudice avrebbe dovuto porre a base della decisione presunzioni che tenessero conto di tutti gli elementi indicativi, anziché considerare come esclusiva fonte di conoscenza” un dato indicato nel decreto di archiviazione e considerato come dirimente. Il consenso informato è validamente richiesto quanto l’informazione è completa. I giudici accolgono anche il successivo motivo, con il quale le ricorrenti contestano che il giudice non ha pronunciato circa la domanda volando l’art. 112 c.p.c. di risarcimento per violazione delle norme sul consenso informato. I giudici accolgono la doglianza sulla violazione del consenso informato la sentenza non si esprime esplicitamente, e nemmeno implicitamente, visto che gli altri argomenti attengono al diverso ed autonomo bene della salute. Il consenso può ritenersi informato qualora l’informazione data riguardi oltre l’intervento da eseguire, ma anche sui rischi e le ragioni della scelta. Inammissibile il motivo riferito ad un elemento non a base della decisione, anzi con questa incompatibile. Il motivo quinto è giudicato inammissibile in quanto si tratta di un obiter che non ha alcun nesso con la decisione, basata sul difetto di prova della causa del decesso, anzi con questa incompatibile. Si tratta dell’inciso per cui il decesso era peraltro da attribuire alla neoplasia in atto”, elemento non provato e nemmeno allegato dalla ASL, rilevano le ricorrenti. Quanto all’indicazione della causa del decesso il certificato di morte non ha fede privilegiata. È invece accolto il sesto motivo, a mezzo del quale le donne contestano che il giudice abbia fatto riferimento a quanto asserito nel certificato di morte circa le cause del decesso, ritenendo che il documento fosse assistito da fede privilegiata e che dunque le informazioni ivi contenute facessero fede fino a querela di falso. Me le ricorrenti rilevano che non si tratta di un certificato emesso da un medico, ma da un ufficiale di stato civile. Il motivo per la Corte è fondato l’art. 2700 c.c. dispone che L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti . L’atto è stato sì redatto dall’ufficiale di stato civile ma non riguarda fatti avvenuti in sua presenza, né ha avuto diretta contezza delle cause che lo hanno provocato, ma si è limitato a recepire quanto riferitogli dai medici. Il settimo ed ultimo motivo, riguardante la liquidazione delle spese, è assorbito dall’accoglimento degli altri. La sentenza è così cassata ed il giudizio rinviato al tribunale, in diversa composizione per la decisone, anche in merito alla liquidazione delle spese.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 8 luglio – 15 settembre 2020, n. 19188 Presidente Travaglino – Relatore Cricenti I fatti di causa F.L. viene ricoverata in Ospedale a causa di alcuni sintomi legati all’uso di lassativi prescritti dal medico curante. Viene effettuato un esame ecografico, da cui emerge il dubbio su una massa di circa 7 centimetri che fa sospettare una neoplasia aspetto a pseudo rene , inducendo i sanitari dell’Ospedale di a programmare per il giorno successivo un esame endoscopico, ossia una gastro-duodeno endoscopia. I medici avvisano l’interessata e soprattutto le due figlie, che avevano accompagnato la F. in ospedale, e precisamente B.T. e D. , qui ricorrenti, della necessità di questo esame e lo eseguono come programmato. Se non che, nel corso della gastroscopia, il medico operante nota una perforazione delle pareti, ed interrompe immediatamente l’esame, ma in quello stesso istante in cui lo fa, la donna va in arresto cardiaco, si tenta di rianimarla, ma decede dopo circa un’ora e mezza. Le due figlie depositano denuncia-querela, che fa instaurare una indagine per omicidio colposo, nella quale il P.M. incarica inizialmente un primo perito, che, ritenendo di dover fare a meno dell’autopsia, conclude con una valutazione di incertezza circa le cause del decesso. Queste conclusioni inducono il P.M. ad una prima richiesta di archiviazione, con provvedimento del 21 novembre 2008 il decesso era avvenuto il omissis Le ricorrenti, figlie della deceduta, propongono allora opposizione, ed il Gip, accogliendo le loro osservazioni, richiede al P.M. un supplemento di consulenza tecnica, che il pubblico ministero dispone e che si conclude anche esso con l’affermazione che gli elementi disponibili non consentono una affermazione certa delle cause della morte, a causa della mancata esecuzione dell’autopsia. Il P.M. pertanto chiede nuovamente decreto di archiviazione. A questa decisione segue una ulteriore opposizione da parte delle persone offese, un ulteriore ampliamento di indagini disposte dal GIP ed infine la terza e definitiva richiesta di archiviazione, accolta con provvedimento del 12 luglio 2011. Le ricorrenti, allora, con citazione del 19 aprile del 2014 iniziano una causa civile, citando davanti al Tribunale di Torino la ASL , addebitando ai medici diversi profili di responsabilità a avere procurato una perforazione gastrica nell’esecuzione della endoscopia b non avere prestato poi i soccorsi necessari o l’assistenza necessaria quando la paziente era andata, a causa di quella perforazione, in arresto cardiaco c non avere richiesto ed ottenuto consenso informato. Il Tribunale di Torino manda la causa in decisione sulla questione preliminare di merito della prescrizione della domanda e della mancata prova del nesso di causalità, dunque senza procedere ad istruttoria, cosi decidendo che, da un lato, la mancata effettuazione della autopsia rendeva non assolto l’onere della prova quanto al nesso di causalità e che, per altro verso, la domanda di risarcimento iure proprio delle due ricorrenti era prescritta, in quanto avente titolo in una responsabilità extracontrattuale, e non già contrattuale, soggetta al termine quinquennale di prescrizione, e neanche a quello più lungo da reato, per via del mancato accertamento di quest’ultimo. La corte di appello, adita dalle ricorrenti, dichiara infine priva di possibilità di accoglimento l’impugnazione, giudicando inammissibile l’appello ex art. 348 ter c.p.c Ricorrono B.T. e D. con sette motivi, a quali si oppone la ASL con controricorso. Il ricorso ha ad oggetto la decisione di primo grado, essendo quella di appello resa ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c Le ragioni della decisione 1.- Il primo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 2043 e 1218 c.c., nonché art. 2947 c.c La questione posta con questo motivo attiene alla prescrizione del diritto al risarcimento iure proprio delle figlie della F. . Il Tribunale ha rinviato la causa in decisione ex art. 187 c.p.c. e dunque sulle questioni preliminari di merito, evitando l’istruttoria, perché ha ritenuto comunque prescritto il diritto delle attrici. La decisione di considerare prescritto il diritto è basata su due rationes, che sono indipendenti l’una dall’altra da un punto di vista logico, anche se ovviamente il rigetto di una delle due implica superfluità dell’esame dell’altra. Esse sono a il diritto al risarcimento del danno delle figlie della paziente deceduta è vantato a titolo di responsabilità extracontrattuale della Asl, e non già contrattuale. Le figlie non possono invocare a loro favore gli effetti protettivi nei confronti di terzi del contratto stipulato dalla loro madre con l’ospedale, in quanto gli effetti protettivi del contratto valgono, o meglio si producono, solo a vantaggio del nascituro e del di lui padre, mentre ogni altro parente, compresi come in questo caso i figli, non possono beneficiare di quegli effetti protettivi b il termine di prescrizione è dunque di cinque anni e non può beneficiare dell’allungamento previsto dall’art. 2947 c.c., in quanto il reato di omicidio colposo è stato escluso dal provvedimento di archiviazione. Queste due rationes decidendi sono contestate dalle ricorrenti, quanto alla prima, osservando che il contratto di spedalità ha effetti protettivi verso i parenti, senza distinzione tra padre e nascituro da un lato, gli altri parenti dall’altro anche questi ultimi sono da considerarsi ossia terzi protetti quanto alla prescrizione, che essa opera solo in caso di accertata insussistenza del reato e non già in caso di archiviazione. La seconda censura, quella relativa alla violazione dell’art. 2947 c.c., può essere accolta. Ma non perché la responsabilità della ASL sia di natura contrattuale, conclusione questa che presuppone che il contratto, stipulato dalla madre,ha effetti protettivi nei confronti delle figlie, che dunque possono agire da contratto anche esse. La figura del contratto con effetti protettivi verso terzi è utilizzata da questa corte solo con riguardo al contratto della gestante con l’ospedale, e dunque per riconoscere al padre del nascituro ed a quest’ultimo l’azione da contratto in caso di inadempimento, mentre è escluso che la figura possa servire in fattispecie diverse da quella Cass. 11.5.2009, n. 10741 Cass. 18.4.2019, n. 10812 Cass. 20.3.2015, n. 5590 Cass. 8.7.2020, n. 14258 . Le acquisizioni di questa giurisprudenza vanno chiarite. La figura del contratto con effetti protettivi verso terzi è giustificata con l’argomento che il terzo ha un interesse identico a quello dello stipulante, un interesse che viene coinvolto dalla esecuzione del contratto nello stesso modo in cui è coinvolto l’interesse della parte contrattuale, del creditore della prestazione. Nel contratto tra la struttura e la gestante, l’interesse di quest’ultima è la nascita del figlio la donna si affida alla struttura sanitaria o al medico allo scopo di avere assistenza al parto. L’esecuzione del contratto, si osserva, soddisfa o lede, in caso di inadempimento l’interesse dell’altro genitore allo stesso modo di come soddisfa o lede l’interesse della gestante contraente. Non v’è dunque motivo di riconoscere azione da contratto all’una ed azione da delitto all’altro. Il tema merita ovviamente approfondimenti maggiori, che non possono qui farsi, ma queste osservazioni bastano ad escludere che la figura possa ragionevolmente essere utilizzata nella fattispecie qui infatti l’interesse delle figlie non è il medesimo di quello dedotto in contratto dalla madre. Quest’ultima si era affidata alla struttura per la cura della salute, e l’inadempimento della obbligazione assunta dalla struttura ha leso due beni diversi la salute, per l’appunto, della donna o la vita, più precisamente , ed il rapporto parentale invece quanto alle figlie. Manca, quindi, la ragione che giustifica la figura degli effetti protettivi verso terzi l’identità dell’interesse coinvolto dalla esecuzione del contratto. Invece, è da accogliersi l’altra ragione del motivo in esame, ossia il vincolo che per la prescrizione deriva dalla archiviazione del procedimento penale. Infatti, qualora per un atto illecito, astrattamente configurabile come reato, sia intervenuto in sede penale decreto di archiviazione, il giudice civile non può sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento, con conseguente applicazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, seconda parte, poiché tale ultima norma non contempla l’archiviazione tra i presupposti che giustificano il regime ivi disciplinato Cass. 6858/ 2018 . Ossia, la decisione resa in sede penale che impedisce l’applicazione alla domanda civile del più lungo termine di prescrizione, quello proprio del reato ipotizzato, è solo la sentenza irrevocabile, in quanto contiene un accertamento negativo del reato, accertamento che ha riflessi dunque sull’azione civile, escludendo che essa possa, per l’appunto, beneficiare del termine proprio di un reato insussistente invece, il solo decreto di archiviazione non impedisce al giudice civile di compiere una propria valutazione circa la sussistenza o meno del fatto di reato, al fine di individuare il termine di prescrizione applicabile, che potrà essere o quello quinquennale di cui dell’art. 2947 c.c., comma 1, o quello maggiore eventualmente ricollegabile al reato, ai sensi della prima parte del comma 3, con decorrenza in ogni caso dalla data dell’illecito. Va ovviamente sottolineato che, nella presente fattispecie, tra l’altro, il P.M. ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione in quanto la mancata esecuzione dell’autopsia rendeva difficile stabilire le cause del decesso. Si tratta non già dell’accertamento dell’insussistenza del reato, bensì della valutazione probabilistica che il P.M. fa circa le possibilità di sostenere in dibattimento l’accusa, ed una valutazione del genere ovviamente non può impedire al giudice civile di valutare, nel proprio ambito, l’astratta sussistenza del reato ai fini della prescrizione. 2.- Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 187 c.p.c Come si è accennato prima, il giudice di merito ha ritenuto che la questione della prescrizione, oltre a quella che si vedrà oltre relativa all’assolvimento dell’onere della prova, fossero assorbenti, ed ha dunque rimesso la causa in decisione, senza procedere ad istruttoria, decidendo poi la causa su ragioni diverse in realtà aveva ritenuto di rinviare sulle questioni preliminari di merito della mancata specificazione della domanda di risarcimento, ma poi ha deciso la causa diversamente. Le ricorrenti si dolgono del fatto che, avendo deciso di rinviare per la decisione su certe questioni preliminari di rito, il Tribunale ha poi fondato la decisione su altre, a dimostrazione dunque che il rinvio era infondato. Il motivo, pur fondato, è però assorbito dall’accoglimento sia del primo, come abbiamo visto, che di quanto si dirà in ordine al terzo. 3.- Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano violazione degli artt. 1218, 2727 e 2697 c.c., in relazione alla decisione del Tribunale di ritenere non provato il nesso eziologico, non assolto l’onere della prova. Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto che, come risultante dal decreto di archiviazione in sede penale, l’omessa esecuzione della autopsia ha impedito di accertare le cause della morte, ed in particolare se essa sia riconducibile alla perforazione occorsa durante l’esame endoscopico. Ritiene il tribunale che alla luce di quel dato si può dire che non v’è prova alcuna del nesso di causalità. Questa affermazione è contestata dalle ricorrenti con l’argomento che, in realtà, v’erano agli atti elementi da porre a base di una presunzione, ed in particolare la circostanza che la perforazione non vi fosse prima dell’intervento, dato inoppugnabile che non v’era alcun elemento a favore di un carcinoma gastrico che potesse incidere sulla permeabilità dei tessuti che anzi i tessuti risultavano, dato altrettanto pacifico, come ispessiti e non già più deboli. Infine, le ricorrenti si dolgono dell’erronea applicazione della regola dell’onere probatorio, secondo cui la prova della mancata imputabilità della causa lesiva era a loro carico. Il motivo è fondato, in particolare per quanto attiene alla denuncia di violazione dell’art. 2727 c.c Per comprendere la fondatezza di questa censura occorre considerare che, da un punto di vista probatorio, la regola fissata da questa corte quanto alla prova sufficiente del nesso causale è quella del più probabile che no , in base alla quale si considera raggiunto l’accertamento del nesso causale solo che emerga che è più probabile che il fatto indicato come antecedente abbia causato l’evento, anziché no. Questo accertamento, ossia della probabilità che la causa dell’evento sia quella, può essere raggiunto anche mediante presunzioni, e non necessariamente attraverso prove dirette. Lo stesso Tribunale ha fatto uso di presunzioni per ritenere non raggiunta la prova del nesso causale, ricorrendo alle valutazioni contenute nel decreto di archiviazione, che altro non erano se non elementi da cui il giudice civile ha tratto la convinzione che non si potesse giungere all’affermazione della condotta dei sanitari come causa del decesso. Ma nell’uso di queste presunzioni, il Tribunale è incorso in violazione delle regole che presiedono al giudizio induttivo. Esse sono riassumibili come segue devono considerarsi tutti gli elementi indicativi emersi dalla istruttoria, e non solo alcuni di essi gli elementi assunti come indicativi devono poi essere gravi precisi e concordanti. Intanto, il Tribunale indica a presunzione della incertezza sul nesso eziologico la circostanza che non sia stata effettuata una autopsia nella indagine penale, la quale omissione ha reso incerta la valutazione dell’accaduto. E questo dato è assunto come l’unico su cui fondare la decisione ossia, il Tribunale giunge alla conclusione che non v’è prova del nesso di causa tra la morte e la condotta dei sanitari utilizzando come unico elemento l’argomento che ha giustificato l’archiviazione in sede penale che, non essendo stata effettuata autopsia non si potesse stabilire la causa del decesso, di cui di conseguenza non v’era prova sufficiente. Il ragionamento presuntivo, che tra l’altro utilizza a sostegno dell’inadempimento delle ricorrenti un elemento estraneo alla loro disponibilità, come l’autopsia, è incompleto in quanto esclude l’esame di ogni altro elemento indiziario proposto dai ricorrenti che ne danno conto in ricorso . L’inesistenza, prima della indagine endoscopica di una qualsiasi lesione, la mancanza di elementi per ritenere che vi fosse un cancro in atto, la qualità delle pareti gastriche, sono tutti dati di cui, nel raggiungere presuntivamente la convinzione che il nesso causale era da escludersi o non era sufficientemente provato , il Tribunale non ha tenuto conto alcuno. Il giudizio probatorio sul nesso causale avrebbe dovuto essere condotto con l’ausilio di presunzioni che tenessero conto di tutti gli elementi indicativi esistenti in atti ed utilizzabili per la decisione, anziché assumere come dirimente un dato indicato nel decreto di archiviazione e porlo come esclusiva fonte di conoscenza. 4.- Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c Secondo le ricorrenti, il Tribunale ha del tutto omesso di pronunciare sulla domanda di risarcimento per violazione del consenso informato. A dimostrazione di tale assunto, le ricorrenti citano proprio l’ordinanza di appello che rileva anche essa l’omissione di pronuncia, salvo ad emendarla con una propria. Il motivo è dunque fondato. Il Tribunale non ha pronunciato sulla domanda relativa alla violazione del consenso informato, neanche implicitamente, non potendo una qualche decisione in merito ritenersi implicata dalle altre, che attengono al diverso danno alla salute, il quale come è noto, è situazione autonoma rispetto al diritto tutelato dal consenso informato autonomia che impedisce di considerare la decisione su quest’ultima implicata da quella sull’altra. L’omissione è evidente dunque altresì alla luce del fatto che il consenso informato è validamente richiesto quando l’informazione è completa, ossia non è limitata al tipo di intervento da eseguire, ma è estesa alle ragioni ed ai rischi della scelta terapeutica, con la conseguenza che la decisione del giudice di merito circa il rispetto del diritto del paziente al consenso informato deve accertare che l’informazione abbia tali requisiti. 5.- Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c Secondo le ricorrenti il Tribunale nell’affermare che il decesso era peraltro riconducibile verosimilmente alla neoplasia in atto avrebbe posto a base della decisione un fatto non solo non provato, ma neanche allegato da controparte, violando in tal modo la regola per cui la decisione deve presupporre solo fatti emersi in giudizio. Il motivo è inammissibile. Infatti, l’affermazione contestata, secondo cui apparirebbe verosimilmente come causa della morte un cancro non costituisce la ratio della decisione impugnata, ma è piuttosto un suo obiter, non in grado di fondare la decisione, che ha la sua ragione nel difetto di prova circa la causa del decesso, accertamento, quest’ultimo, incompatibile con la tesi per cui la causa è invece nel cancro. 6.- Il sesto motivo denuncia violazione dell’art. 2700 c.c Il Tribunale ha dato rilievo al certificato di morte redatto dall’ufficiale dello stato civile circa le cause del decesso, nel quale veniva indicato il cancro tra le cause della morte. Nel valutare quel documento, il Tribunale ha ritenuto che esso fosse assistito da fede privilegiata e che dunque le affermazioni circa la causa del decesso facessero fede in difetto di una querela di falso. Le ricorrenti contestano quest’affermazione, osservando come non si trattasse di un certificato redatto dal medico, bensì dall’ufficiale di stato civile. Il motivo è fondato. Secondo l’art. 2700 c.c., l’atto pubblico fa fede della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto circostanza questa non in contestazione qui e del fatto che ciò che nel documento è attestato è avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha redatto l’atto. Quest’ultimo effetto non può essere attribuito al documento in questione, come invece ritenuto dal Tribunale, in quanto l’ufficiale dello stato civile non ha assistito ovviamente al fatto, nè ha avuto diretta contezza delle cause del decesso, ma si è limitato a recepire le indicazioni, circa quelle cause, provenienti dai medici. Con la conseguenza che, quanto alla indicazione, nel certificato di morte redatto dall’ufficiale dello stato civile, di una determinata causa di morte, quel certificato non ha fede privilegiata e può essere smentito con ogni mezzo. 7.- Il settimo motivo riguarda il regime delle spese della decisione impugnata ed è dunque assorbito. P.Q.M. La corte accoglie primo, terzo, quarto e sesto motivo, dichiara inammissibile il quinto, assorbiti il secondo ed il settimo. Cassa la decisione impugnata e rinvia al Tribunale civile di Torino in diversa composizione anche per le spese.