Omessi volutamente i nomi della moglie e della figlia sul manifesto funebre: nessun risarcimento

Chiusa in Cassazione un’assurda faida familiare tra la vecchia moglie e la nuova compagna dell’uomo ormai defunto. A scatenare il pandemonio anche il manifesto funebre, con l’omissione dei nomi di alcuni familiari. Dimenticanza voluta e grave, ma non sufficiente per riconoscere un risarcimento alle persone non indicate sul manifesto.

Muore il capofamiglia e scoppia la guerra la nuova compagna e la vecchia moglie – ormai separata – esemplare il manifesto funebre, dove vengono omessi volutamente il nome della coniuge ufficiale dell’uomo e quello della figlia. Questa dimenticanza è grave, senza dubbio, ma non sufficiente per consentire alle due donne di ottenere un adeguato ristoro economico Cassazione, ordinanza n. 797/20, sez. VI Civile - 3, depositata oggi . Manifesto. L’incredibile vicenda è ambientata in Campania. A scatenare il pandemonio è l’affissione del manifesto funebre per la scomparsa di un uomo a piangerne la morte sono ovviamente tutti i familiari, o, meglio, quasi tutti i familiari, poiché mancano a sorpresa i nomi della moglie – separata – e della figlia, mentre come consorte è indicata la donna che era la nuova compagna dell’uomo. A rendere ancora più assurda la situazione, poi, il fatto che la moglie ufficiale e la figlia abbiano avuto notizia della morte del loro congiunto solo attraverso il manifesto. Quella che è una vera e propria faida familiare diventa anche un caso giudiziario. Le due donne, moglie e figlia, citano in giudizio i membri della nuova famiglia del loro congiunto per ottenere un adeguato risarcimento. Evidente, secondo loro, il danno arrecato attraverso l’omissione dei loro nomi sui manifesti funebri. La pretesa viene però respinta prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, e anzi i giudici condannano le due donne al pagamento delle spese per entrambi i gradi di giudizio. Lesione. A chiudere definitivamente la questione è chiamata la Cassazione. Dinanzi ai giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, moglie e figlia sottolineano la gravità dell’offesa da loro subita, ponendo in evidenza il rilievo costituzionale da attribuire al nome” e il possesso di stato” da parte di entrambe rispetto all’uomo. E in questa ottica viene soprattutto richiamato il dato errato presente sul manifesto funebre la nuova compagna del loro familiare non ne era la moglie, e questo titolo era quindi usurpato, dovendo spettare solo alla donna che ne era ancora ufficialmente la consorte, seppur separata. Questa visione viene però respinta anche dai giudici della Cassazione, i quali mostrano di condividere la posizione assunta dalla Corte d’appello, posizione centrata sul fatto che il manifesto funebre non potesse, di per sé solo, ledere lo status di moglie e di figlia del defunto”. Impossibile, quindi, parlare di lesione del diritto al nome”, venendo così meno i presupposti per ipotizzare un risarcimento, anche perché non si è fatto riferimento ad alcun effettivo pregiudizio” subito dalle due donne.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 12 settembre 2019 – 16 gennaio 2020, n. 797 Presidente Frasca – Relatore Cirillo Fatti di causa 1. An. De Sa. e Mi. Al. convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Salerno, Si. Ca., Ar. De Sa., Fe. La Gr. e Ma. Lu. Mo. e - premesso di aver appreso della morte di An. De Sa., rispettivamente padre e marito delle attrici, solo grazie ad un manifesto funebre curato dai convenuti e affisso in Salerno e Mercato San Severino, essendo state in quel manifesto escluse dal novero dei parenti - chiesero il risarcimento dei danni relativi, anche in relazione al fatto che la Ca. veniva identificata come moglie del defunto senza esserlo, e che la Mo. e il La Gr. venivano identificati come figlia e genero del medesimo, omettendo i nomi delle attrici. Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda. Nelle more del giudizio venne a mancare Mi. Al. e la causa fu proseguita dalla figlia An. De Sa. anche in qualità di erede. Il Tribunale rigettò la domanda e condannò l'attrice al pagamento delle spese di giudizio. 2. La pronuncia è stata appellata dalla De Sa. in via principale e da Fe. La Gr. e Ma. Lu. Mo. in via incidentale e la Corte d'appello di Salerno, con sentenza del 18 settembre 2017, ha rigettato l'appello principale, ha accolto quello incidentale, ha riformato in parte la sentenza del Tribunale innalzando l'entità della condanna alle spese del giudizio di primo grado ed ha condannato l'appellante principale al pagamento delle ulteriori spese del giudizio di secondo grado. 3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Salerno ricorre An. De Sa. con atto affidato a quattro motivi. Resistono Si. Ca., Ar. De Sa. e Fe. La Gr. con tre separati controricorsi. Ma. Lu. Mo. non ha svolto attività difensiva in questa sede. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., e la ricorrente e Ar. De Sa. hanno depositato memorie. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 22 Cost., dell'art. 6 cod. civ., degli artt. 130 e 131 cod. civ. e dell'art. 132 del codice di procedura civile, oltre a omesso esame di un fatto decisivo. Dopo aver ricordato il rilievo costituzionale da attribuire al diritto al nome, la ricorrente osserva che la sentenza mancherebbe di motivazione in ordine alla circostanza del possesso di stato da parte di Mi. Al. e della ricorrente. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 130-131 cod. civ., degli artt. 2043 e 1226 cod. civ., oltre a omesso esame di un fatto decisivo. Sostiene la ricorrente che, al momento della morte del De Sa., la Ca. non era sua moglie, per cui del titolo di moglie avrebbe potuto fregiarsi solo la madre della ricorrente, perché legalmente separata ma non divorziata. Vi sarebbe, quindi, una lesione del diritto al nome, con conseguente diritto al risarcimento del danno, da liquidare anche in via equitativa. 3. I motivi, da trattare congiuntamente, sono, quando non inammissibili, comunque privi di fondamento. Premesso che la sentenza, con un accertamento in fatto non più discutibile in questa sede, ha ritenuto che il manifesto funebre non potesse, di per sé solo, ledere lo status di moglie e di figlia del defunto in capo alle attrici, i motivi insistono nel sostenere la lesione del diritto al nome ed il conseguente diritto al risarcimento del danno, ma nulla dicono in ordine all'effettivo pregiudizio subito e non dimostrano in alcun modo quale danno dovrebbe essere loro risarcito. Osserva il Collegio che il primo motivo, pur contenendo formalmente varie censure, si preoccupa di argomentare solo quella di violazione dell'art. 132 n. 4 cod. proc. civ., senza però considerare che le circostanze indicate nel motivo sono state comunque valutate dalla Corte d'appello. Rileva poi il Collegio che l'argomentazione di cui alla p. 10 del ricorso - secondo cui la motivazione della Corte d'appello sarebbe racchiusa in un rigo e mezzo {va infatti evidenziato che il manifesto, di per sé solo, non può ritenersi lesivo dello status di moglie e figlia del defunto De Sa. e perciò inesistente - trascura di considerare che la sentenza d'appello ha affiancato a tale considerazione l'affermazione per cui restavano ferme le argomentazioni del giudice di prime cure non superate dalla censura in esame . In questo modo la Corte d'appello ha enunciato una motivazione per relationem, che l'odierna ricorrente avrebbe dovuto dimostrare di avere adeguatamente censurato già con l'atto di appello alla stregua delle indicazioni di cui a Sezioni Unite, sentenza 20 marzo 2017, n. 7074 per cui, essendo i due motivi di ricorso affatto manchevoli sotto tale profilo, le censure sono anche viziate da inammissibilità. 4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 cod. civ., degli artt. 184 e 132 cod. proc. civ., nonché omesso esame di un fatto decisivo. La doglianza riguarda la motivazione della sentenza nella parte in cui ha ritenuto rinunciate le richieste di prova delle attrici in quanto non riproposte in sede di precisazione delle conclusioni in grado di appello. 4.1. Il motivo è inammissibile, posto che nulla dice né in ordine a quali fossero le prove non ammesse né, soprattutto, in ordine alla loro decisività ai fini dell'accoglimento della domanda, per cui la censura risulta inconferente rispetto alla decisione mentre la presunta violazione dell'art. 360, primo comma, n. 5 , cit. è chiaramente priva di consistenza. 5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., contestando la condanna alle spese che la Corte d'appello ha inasprito rispetto al primo grado. 5.1. Il motivo, del tutto generico nella sua formulazione, è infondato nella sostanza, posto che la Corte d'appello non ha fatto altro che applicare doverosamente le regole sulla soccombenza. 6. Il ricorso, pertanto, è rigettato. In considerazione della materia del contendere e dei rapporti esistenti tra le parti, appare equa la compensazione integrale delle spese del giudizio di cassazione. Sussistono, tuttavia, le condizioni di cui all'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.