Coltivatore aggredito da un cinghiale dell’adiacente oasi naturale: la Regione non risarcisce

L’assessorato all’agricoltura e foreste della Regione siciliana non risarcisce il danno ad un agricoltore conseguente alle lesioni subite a causa dell’aggressione di un cinghiale proveniente dalla riserva naturale adiacente al terreno di sua proprietà.

Interviene sul tema la Corte di Cassazione con ordinanza n. 5722/19, depositata il 27 febbraio. Il caso. La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento danni di un agricoltore conseguenti alle lesioni gravi subite a causa dell’aggressione di un cinghiale proveniente dall’oasi naturale adiacente al terreno di sua proprietà mentre questi era al suo interno a svolgere la sua attività di coltivatore. Così quest’ultimo ricorre in Cassazione denunciando violazione di legge. Il motivo di ricorso e la decisione di secondo grado. Sotto il profilo della responsabilità di cui all’art. 2043 c.c., la Corte territoriale riteneva che il ricorrente si fosse limitato a denunciare la violazione dell’obbligo di recintare l’oasi naturale da cui proveniva il cinghiale che lo ha attaccato, in assenza di una norma speciale che imponesse tale obbligo alla p.a Dunque, l’elemento fondamentale indicato dal coltivatore a fondamento della responsabilità dell’ente pubblico convenuto sarebbe di non aver posto in essere alcun idoneo accorgimento per arginare il moltiplicarsi degli esemplari, né per evitarne lo sconfinamento. L’ente pubblico è responsabile? Trattandosi di responsabilità aquiliana, spetta alla parte danneggiata indicare la causa efficiente del danno infatti, ricorda il Supremo Collegio che il danno cagionato dalla sauna selvatica non può essere risarcito in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c., ma alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c. e dunque richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile alla pubblica amministrazione. Tra l’altro, la gestione della fauna selvatica da parete della Regione non comporta che qualunque danno cagionato da essa sia ascrivibile all’ente stesso, occorrendo l’allegazione di una condotta omissiva efficiente che possa essere ricollegabile al danno cagionato. Sulla base di ciò, il ragionamento della Corte distrettuale sembra cogliere nel segno, in quanto non possono essere pretese dall’ente pubblico la recinzione o la segnalazione di tutti i perimetri boschivi. E dunque gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 8 gennaio 2018 – 27 febbraio 2019, n. 5722 Presidente Amendola – Relatore Fiecconi Rilevato che 1. M.C.C. , con ricorso notificato il 24, 11.016, impugna per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Messina del 7/7/16 con la quale, in accoglimento dell’appello principale dell’assessorato convenuto, e in riforma della sentenza di primo grado, è stata rigettata la domanda di risarcimento dei danni alla persona conseguenti alle gravi lesioni subite a causa dell’aggressione da parte di un cinghiale proveniente dall’oasi naturale, adiacente al terreno di sua proprietà, avvenuta in data 16/10/2005 mentre era intento a svolgere la sua ordinaria attività di coltivatore diretto. La Corte d’appello rigettava conseguentemente l’appello incidentale del ricorrente, volto a ottenere una diversa quantificazione dei danni. 2. Il ricorso è affidato a due motivi. L’assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Sicilia resiste con controricorso. Parte ricorrente ha prodotto memoria. Il Pubblico Ministero interveniva con memoria e concludeva per il rigetto del ricorso. Considerato che 1. Con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 il ricorrente denuncia violazione della legge Regione Sicilia n. 33/97 e violazione dell’art. 345 cod. proc. civ. denuncia anche il vizio di motivazione insufficiente e comunque e contraddittoria ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. 1.1. Il ricorrente denuncia l’errore della sentenza di merito impugnata nell’affermare che egli si sia limitato a denunciare la mancanza di una recinzione protettiva, quando invece nell’atto introduttivo era stato menzionato l’obbligo dell’Ente regionale di predisporre tutte le misure necessarie e idonee per evitare che gli stessi animali arrechino danni a persone o cose, come desumibile dall’enunciato di cui all’art. 4 della legge regionale in questione, ove si prevedono operazioni e interventi di controllo anche nelle zone nelle quali esiste il divieto di caccia delle specie di fauna selvatica denuncia che la corretta interpretazione della legge avrebbe dovuto condurre la Corte territoriale a conclusioni diverse, atteso che la previsione legislativa dell’intervento di controllo della fauna selvatica costituisce un obbligo cui gli enti preposti devono sottostare proprio perché viene imposto dalla legge stessa. In più nel caso di specie la sentenza gravata non avrebbe tenuto conto del caso eccezionale, documentato in atti, costituito dalla permanente, incontrollata proliferazione dei cinghiali, originariamente introdotti venti anni prima dall’assessorato regionale in pochi esemplari e per ragioni di studio, e poi abbandonati a se stessi, tanto da proliferare oltre misura e incidere sull’equilibrio ambientale che la stessa legge di protezione della fauna intende salvaguardare, arrecando invece costante pericolo di danno alle persone e cose. Denuncia poi violazione art. 345 c.p.c. nell’ammettere, quale nuovo argomento difensivo della parte appellata, il rilievo di mancata protezione della proprietà privata adiacente all’area naturale destinata al ripopolamento della fauna selvatica. 1.2. Il motivo è inammissibile. 1.3. La Corte d’appello ha ritenuto che sotto il profilo dell’art. 2043 c.c. il ricorrente si fosse limitato a denunciare la violazione dell’obbligo di recintare l’oasi naturale da cui proveniva il cinghiale che ha attaccato il ricorrente, pur in assenza della sussistenza di una norma speciale o di una norma di cautela generale che imponesse tale obbligo alla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda la deduzione di omessa attuazione di ogni misura idonea ad evitare che gli animali selvatici potessero arrecare danni a persone o cose la Corte ha ritenuto che il ricorrente avesse omesso di indicare quali misure dovessero essere adottate in concreto dall’amministrazione convenuta a salvaguardia della incolumità delle persone. In particolare, la Corte dava atto che il ricorrente si era doluto dell’assenza di alcune iniziative dell’ente preposto nell’arginare il moltiplicarsi esagerato degli esemplari, e che l’istruttoria aveva permesso di verificare che, in passato, nella stessa zona questi animali non esistevano sebbene la loro introduzione solo verosimilmente sia stata attribuita a un’iniziativa dei forestali, ma che tuttavia altro è il mancato monitoraggio sul numero degli esemplari dell’oasi altra è la deduzione, che resta affermazione fumosa e inconsistente , sulla mancata predisposizione di tutte le misure idonee e necessarie affinché gli animali selvatici non arrechino danni. Ha ritenuto che fosse, semmai, onere del proprietario auto-proteggere la proprietà con una recinzione più consistente di quella apposta, accogliendo un argomento difensivo dell’appellante sviluppato ne giudizio di appello. 1.4. In sintesi, l’elemento indicato dal ricorrente a fondamento della responsabilità dell’ente convenuto, non adeguatamente considerato dalla Corte di merito, sarebbe di non aver posto in essere alcun idoneo accorgimento per arginare il moltiplicarsi esagerato degli esemplari, né per evitarne lo sconfinamento al di fuori dell’area naturale destinata al ripopolamento. 1.5. In tale materia, costituisce onere della parte danneggiata indicare la causa efficiente del danno, trattandosi di responsabilità aquiliana. Sul punto vale quanto riferito da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7080 del 28/03/2006, ove il giudice di legittimità ha stabilito che il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda proposta nei confronti di una Regione per il risarcimento dei danni conseguenti alla collisone tra una vettura e un cinghiale, ritenendo non fossero emerse prove dell’addebitabilità del sinistro a comportamenti imputabili alla Regione o all’Anas, non potendo costituire oggetto di obbligo giuridico per entrambe la recinzione e la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi . 1.6. Secondo l’indirizzo prevalente, il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della L. 27 dicembre 1977, n. 968, appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione, ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova e richiede, pertanto, l’accertamento di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’Ente pubblico Cass. 1 agosto 1991, n. 8470 13 dicembre 1999, n. 13956 Cass. 14 febbraio 2000, n. 1638 Cass. 24 settembre 2002, n. 13907, Cass. 24 giugno 2003 n. 100008, Cass. 28 luglio 2004 n. 14241 v. Sez. 3, Sentenza n. 27673 del 2008 . 1.7. La situazione non è poi mutata con l’entrata in vigore della L. n. 157 del 1992, la quale ha ribadito che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale , posto che si tratta di espressione di una politica di sostegno dell’equilibrio ecologico che di per sé non impone alla pubblica amministrazione l’obbligo di attuare generali misure di protezione e di sorveglianza, fatti salvi i pericoli intercettati e segnalati in concreto e non adeguatamente considerati. Anche la Corte Costituzionale, interpellata in merito, ha escluso la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra il privato, proprietario di un animale domestico o in cattività , e la Pubblica Amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici, sotto il profilo che gli eventuali pregiudizi, provocati da animali che soddisfano il godimento della intera collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico, secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile, ex art. 2043 c.c. Corte cost., ord. n. 4 del 4 gennaio 2001 . 1 8. La gestione della fauna assegnata alla regione alla stregua della L. n. 157 del 1992 che all’art. 26 prevede la costituzione di fondo per il risarcimento dei danni alle coltivazioni cagionati dalla detta fauna , non comporta quindi che qualunque danno cagionato da essa sia addebitabile all’ente territoriale preposto, occorrendo l’allegazione, o quantomeno la specifica indicazione, di una condotta omissiva efficiente sul piano della presumibile sua ricollegabilità al danno ricevuto quale la anomala incontrollata presenza di molti animali selvatici sul posto - l’esistenza di fonti incontrollate di richiamo di detta selvaggina verso la sede stradale - la mancata adozione di tecniche di captazione degli animali verso le aree boscose e lontane da strade e agglomerati urbani etc., v. Sez. 1, Sentenza n. 9276 del 24/04/2014 . 1.9. Così inquadrata la questione sulla base della giurisprudenza che si è via via affermata, la sentenza impugnata dimostra di avere affrontato correttamente il tema da decidere, poiché non possono essere pretese dall’ente pubblico la recinzione o la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi indipendentemente dalle loro peculiarità concrete. Sarebbe stato, semmai, onere dell’attore dimostrare che il luogo del sinistro fosse all’epoca abitualmente frequentato da animali selvatici, con un numero eccessivo di esemplari tale da costituire un vero e proprio pericolo per le proprietà vicine, anche se adeguatamente protette, ovvero fosse stato teatro di precedenti incidenti tali da allertare le autorità preposte sulla sussistenza di un concreto pericolo per l’uomo. Gli articoli di cronaca prodotti quale prova del pericolo concreto, invece, risalgono al 2012, mentre l’incidente è occorso nel 2005, non potendosi quindi da questi soli elementi arguire, anche con l’ausilio di ragionamenti presuntivi o di massime di comune esperienza, che il ripopolamento attuato, all’epoca del sinistro, costituisse fonte di concreto pericolo per l’uomo. 1.10. Inoltre il ricorrente deduce che l’onere di autoproteggersi sia un argomento nuovo utilizzato dall’Ente gestore del territorio solo in sede di appello, ed erroneamente vagliato dal giudice nel decidere. Tale valutazione costituisce, invero, un’ argomentazione logica del tutto ammissibile ai fini della valutazione della responsabilità in tale ambito, e vale a contrastare la deduzione del ricorrente circa la sussistenza di un obbligo dell’amministrazione di recintare l’area di ripopolamento, riscontrabile e pretendibile come onere sussistente in capo non tanto alla pubblica amministrazione che persegue una politica di ripopolamento di animali selvatici in via di estinzione, bensì al proprietario dell’area adiacente all’area naturale, che ha piena facoltà di delimitare il proprio territorio al fine di autoproteggersi. 1.11. Infine, la deduzione di omissione di un fatto primario o secondario rilevante e decisivo, oggetto di discussione tra le parti, per rilevare quale violazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, non è conforme a quanto sancito da Cass. S.U. n. 8052/2014, proprio per il fatto che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 . Nel caso specifico, inoltre, la motivazione dà conto di tutte le circostanze portate all’esame del giudice, non rilevandosi alcuna omissione di fatti primari o secondari di valore decisivo. 2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5 violazione dell’art. 2043 c.c., artt. 116 e 115 c.p.c., in quanto Ndr testo originale non comprensibile incontrollato della fauna a causa della reintroduzione di alcuni elementi prima non presenti in zona, vi sarebbero dichiarazioni testimoniali corroborate dalle affermazioni del responsabile della ripartizione forestale attestanti la sussistenza di un pericolo per l’uomo e per i fondi vicini. In realtà, l’elemento di raffronto è costituito dalla copia di un’intervista rilasciata dal responsabile del corpo forestale a un giornale locale nel 2012 che la Corte d’appello ha ritenuto non attinente al caso di specie, non avente neanche valore di testimonianza, ma semmai di fatto notorio da cui trarre elementi di prova, adeguatamente valutato come non riferibile temporalmente ai fatti di causa. 2.1. Le critiche in merito alla valutazione dei mezzi di prova raccolti, effettuata dai giudici di merito, risultano del tutto insindacabili in cassazione, posto che la questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi in termini di erronea valutazione del materiale istruttorio, a meno che le prove non siano state disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali o il giudice abbia disatteso il regime della prova legale, tutti elementi che si pongono al di fuori della materia del contendere. Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c. in tema di valutazione delle prove, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012. vedi cassazione, sez. 6 sentenza 27000-2016 Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017 . 2.2. Tuttavia, come sopra detto al punto 1, nella pronuncia impugnata non si ravvisano elementi per ritenere sussistente un difetto di motivazione o un’ apparente motivazione rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. 3. Il ricorso è definitivamente inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore della parte resistente. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna ricorrente alle spese, liquidate in Euro 4000,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.