Privacy: nessun risarcimento per l’avvocato se non prova i pregiudizi concreti ricollegabili all’attività

Il danno non patrimoniale non può mai ritenersi in re ipsa ma deve essere debitamente allegato e provato da chi lo invoca per tali motivi non può essere accolta la richiesta risarcitoria di un avvocato che si limiti ad allegare il danno all’immagine ed alla reputazione subito, quale affermato professionista, senza dimostrare i pregiudizi ricollegabili all’attività professionale svolta.

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 19137/18 depositata il 19 luglio, ha confermato gli insegnamenti giurisprudenziali sull’onere probatorio in tema di danno non patrimoniale, facendo luce su un caso di erroneo trattamento dei dati personali da parte di una società finanziaria. Il caso. Più precisamente, con ricorso ex art. 700 c.p.c. un avvocato chiedeva al Tribunale di Catanzaro di ordinare l’immediata cancellazione del proprio nominativo dalla centrale CRIF, a cura e spese di una società finanziaria di recupero crediti ciò perché, a dire del legale, tale società gli aveva erroneamente attribuito il mancato pagamento di un finanziamento relativo all’acquisto di un computer, da lui mai effettuato. Il Tribunale concedeva la misura cautelare che veniva tempestivamente notificata alla finanziaria e, successivamente, il legale instaurava un giudizio per ottenere la condanna della società al risarcimento dei danni. In tale sede la convenuta si costituiva deducendo di essersi adoperata per la cancellazione del nominativo dell’attore presso la CRIF e rappresentando di aver provveduto alla segnalazione in questione perché un soggetto, qualificatosi con nome quasi identico a quello del legale istante, dopo aver stipulato un contratto di finanziamento per l’acquisto di un computer, non aveva provveduto a pagare i ratei per il rimborso. Declinava, dunque, ogni responsabilità, attribuendo l’errore all’esercizio commerciale che aveva incautamente provveduto alla raccolta dei dati personali errati del cliente. Il Giudice accoglieva la domanda dell’avvocato e condannava la finanziaria al risarcimento di euro 21.668,37, oltre interessi, compensando per un terzo le spese di lite e ponendole, per il residuo, a carico della soccombente. La decisione è stata, tuttavia, riformata dalla Corte di merito, con sentenza del 30.6.2015 ed avverso tale pronuncia è stato proposto ricorso in cassazione, ad opera del legale. La Cassazione. Il ricorso risulta affidato a tre motivi 1 violazione degli artt. 2043, 2050, 2059, 2697 e 2729 c.c., in uno con l’art. 15, d.lgs. 196/2003, per omessa adozione delle verifiche che il trattamento dei dati personali impone 2 violazione e falsa applicazione dell’ art. 1226 c.c. poiché, a dire del ricorrente, una volta accertata l’esistenza di un danno conseguenza rilevante ex art. 2059 c.c., tale norma è l’unico strumento di apprezzamento del danno risarcibile, concretamente disponibile 3 violazione del principio della soccombenza ex art. 91 c.p.c., quanto alla disposta compensazione delle spese legali, in rapporto alla auspicata cassazione della sentenza impugnata. La finanziaria ha resistito formulando, a sua volta, ricorso incidentale. La Corte, tuttavia, ha disatteso ogni richiesta. I primi due motivi sono stati analizzati congiuntamente, in quanto connessi la Cassazione, però, ha ribadito come il danno non patrimoniale necessita di prova e nel caso di specie l’attore si era limitato ad allegare un danno alla immagine, senza dimostrare i pregiudizi concreti ricollegabili all’attività professionale svolta, non di tipo imprenditoriale, né fornire prove dirette o indizi gravi, precisi e concordanti sul pregiudizio risarcibile derivante dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. La decisione di appello, quindi, risultava immune da vizi logici. Il terzo motivo, invece, è stato ritenuto in parte infondato, non potendo essere sindacata la scelta di disporre la compensazione delle spese di lite se non risulta violato il criterio secondo il quale gli oneri processuali debbono restare a carico della parte soccombente. Per altro verso è stato ritenuto pure inammissibile, nella parte in cui si censura la regolamentazione delle spese non con riferimento all’esito del giudizio di appello ma in relazione ad una ipotizzata e sperata cassazione della sentenza gravata. Stante il rigetto del ricorso principale, il ricorso incidentale ne è rimasto assorbito, essendo logicamente ad esso condizionato, con le spese processuali poste a carico del ricorrente principale.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 10 gennaio – 19 luglio 2018, n. 19137 Presidente Armano – Relatore Scrima Fatti di causa Con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. proposto nei confronti di Neos Banca e di Credit Gest, A.E. esponeva che era stato informato nel giugno del 2007 da tale D.B.C. , per conto della Credit Gest recupero crediti Neos Banca, dell’apertura a suo carico di una pratica di recupero crediti per il finanziamento relativo all’acquisto - da lui mai effettuato - di un computer aveva appreso che il suo nominativo era stato segnalato nella banca dati privata CRIF aveva provveduto a rappresentare sia alla Neos Banca che alla Credit Gest la sua estraneità alla vicenda, ottenendo da quest’ultima anche una nota di conferma aveva intimato alla CRIF di procedere alla immediata cancellazione del suo nominativo dalla banca dati aveva presentato nel maggio del 2008 alla finanziaria COMPASS una richiesta di finanziamento che era stata rigettata e, nel corso dell’istruttoria della relativa pratica di finanziamento, era stata consultata la banca dati costituita presso la Centrale Rischi C.R.I.F. da cui era emersa una valutazione negativa dei punteggi di credit scoring. Tanto premesso, l’Aceri chiese al Tribunale di Catanzaro l’immediata cancellazione presso la centrale CRIF del proprio nominativo ed ottenne il chiesto provvedimento cautelare, con vittoria di spese. A seguito della notifica del provvedimento cautelare, la Neos Banca comunicò all’A. di aver ottemperato al provvedimento giudiziale in data 6 luglio 2008 così nella sentenza impugnata p. 3 . L’A. instaurò, quindi, il presente giudizio per ottenere la condanna della Neos Banca S.p.a. al risarcimento dei danni. La convenuta si costituì deducendo di essersi già attivata per promuovere la cancellazione del nominativo dell’attore presso la Centrale Rischi CRIF rappresentò di aver provveduto alla segnalazione in questione perché un soggetto, qualificatosi come A. .i. .e.E. , dopo aver stipulato un contratto di finanziamento per l’acquisto di un computer - effettuato presso un esercizio commerciale convenzionato, che aveva provveduto alla raccolta e alla verifica della documentazione esibita dal richiedente -, non aveva provveduto a pagare le rate per il rimborso del mutuo e declinò ogni sua responsabilità. Il Tribunale adito, con sentenza n. 576/2011, accolse la domanda e, per l’effetto, condannò la Neos Banca S.p.a. al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Euro 21.668,37, in moneta corrente, oltre interessi al tasso legale dall’indebita segnalazione al soddisfo e compensò per un terzo le spese di quel grado, che pose, per la parte residua, a carico della soccombente. Avverso tale decisione Neos Banca S.p.a. propose appello, cui resistette l’A. . La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza pubblicata il 30 giugno 2015, in riforma della sentenza impugnata, rigettò la domanda e compensò tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito. Avverso la sentenza della Corte territoriale A.E. ha proposto ricorso per cassazione basato su tre motivi e illustrato da memoria. Accedo S.p.a., subentrata nei rapporti di Neos Banca S.p.a. a seguito di varie vicende societarie, rappresentate dettagliatamente in controricorso ha resistito con controricorso contenente pure ricorso incidentale fondato su un unico motivo. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso principale, deducendo Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2050, 2059, 2697 e 2729 c.c. e 15 D.Lgs. n. 196/2003 , il ricorrente sostiene che sarebbe incontroverso e non più discutibile in questa sede che la controparte abbia posto in essere una condotta profondamente negligente , avendo provveduto alla segnalazione presso il CRIF del suo nominativo senza l’adozione delle verifiche che il trattamento dei dati comunicati imponeva e senza il preventivo avviso imposto dalla regolamentazione di settore che la controparte non poteva essere sollevata da responsabilità addebitando il fondamento dell’erronea comunicazione all’esercizio commerciale convenzionato in quanto, come ribadito dal giudice dell’appello, la procedura di approvazione del finanziamento e ogni conseguente adempimento facevano carico ad essa soltanto che la condotta negligente della controparte risultava ancor più grave per non aver la stessa curato la tempestiva cancellazione del nominativo del ricorrente nonostante la pronta segnalazione del macroscopico errore e l’accoglimento della domanda cautelare proposta dal ricorrente ex art. 700 cod. proc. civ., e che la segnalazione presso la Centrale rischi, nonostante le formali rassicurazioni da parte della Neos Banca S.p.a., era rimasta presente e ben visibile sino al maggio 2009 e quindi per quasi due anni. Inoltre, deduce il ricorrente che, per effetto dell’erronea segnalazione presso il CRIF del suo nominativo, aveva dovuto subire la mortificante situazione del rifiuto del credito. Lamenta il ricorrente che la Corte di merito, pur ritenendo confermati tutti gli altri elementi costitutivi dell’illecito abbia ritenuto di dover valorizzare un’asserita deficienza probatoria relativa alle conseguenze dannose del fatto colpevole. Secondo il ricorrente, pur se il danno non patrimoniale non è in re ipsa, tuttavia la dimostrazione della sua concreta sussistenza può essere affidata a meccanismi di tipo presuntivo, rispetto ai quali l’onere probatorio si limita, in sostanza, a carico del danneggiato, all’allegazione di tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto. Assume l’A. che, nel caso all’esame, sarebbe stata ampiamente provata e documentata l’astratta percepibilità e la concreta e ripetuta percezione dell’erronea segnalazione di un profilo negativamente caratterizzato del tutto diverso da quello reale e che la perdita della reputazione professionale e personale del ricorrente intesa come perdita di valori non patrimoniali simile a quella di valori patrimoniali, rilevante ex art. 1223 cod. civ. in tema di danni patrimoniale - si sarebbe senz’altro verificata e il danno-conseguenza sarebbe dunque risultato presuntivamente provato . A conferma di tale conclusione il ricorrente deduce l’indiscutibile avvenuta compromissione dell’onorabilità del ricorrente, che i fatti accertati in sede di merito avrebbero determinato, evidenziando di svolgere la professione di avvocato e che conformemente ai principi internazionalmente riconosciuti principio di onorabilità di cui alla Carta dei principi fondamentali dell’Avvocato Europeo del 25 novembre 2006 e dell’art. 2.2. Cod. deontologico degli avvocati Europei del 28.10.1988 , anche al di fuori dell’esercizio della professione l’avvocato ha il dovere di comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella sua capacità di adempiere i doveri professionali e della dignità della professione art. 56 Cod. deontol. Forense 2007, vigente all’epoca dei fatti in causa , tanto che l’avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l’attività forense, quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l’immagine della classe forense art. 5, comma 2, Cod. deontol. Forense del 2007 . Sostiene il ricorrente che la lesione della reputazione professionale di un avvocato, consumata mediante falso, ripetuto e prolungato addebito di condotte disciplinarmente rilevanti addebito pubblicamente consultabile da una moltitudine indefinita di operatori economici e pubblicamente consultato, ripetutamente, tanto da determinare decisioni di non affidamento del credito puntualmente documentate nei giudizi di merito costituisce pregiudizio tutt’altro che futile capace di incidere ben oltre la soglia minima di tollerabilità imposta dalle regole di convivenza sociale . 2. Con il secondo motivo del ricorso principale l’A. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 cod. civ. nel caso di specie, sostenendo che tale norma, una volta accertata l’esistenza di un danno conseguenza rilevante ex art. 2059 cod. civ., offrirebbe l’unico strumento quello equitativo di apprezzamento del danno risarcibile concretamente disponibile. 3. I primi due motivi del ricorso principale, che essendo strettamente connessi, ben possono essere esaminati congiuntamente, vanno rigettati. Ed invero secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici Cass. 14/05/2012, n. 7471 Cass., ord., 24/09/2013, n. 21865 A quanto precede deve aggiungersi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta, pertanto, al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità Cass. 11/05/2007, n. 10847 Cass. 2/04/2009, n. 8023 Cass. 6/06/2012, n. 9108 v. anche Cass., ord., 8/01/2015, n. 101 . Ai principi sopra ricordati si è espressamente attenuta la Corte di merito la quale, per quanto rileva in questa sede, con riferimento ai danni non patrimoniali, ha pure affermato che, nel caso di specie, l’istante si limita ad allegare il danno all’immagine ed alla reputazione subito quale affermato professionista, ma non sono stati dimostrati pregiudizi concreti ricollegabili all’attività professionale svolta non di tipo imprenditoriale , precisando che occorrono in definitiva prove dirette o indizi gravi, precisi e concordanti per riconoscere un pregiudizio risarcibile derivante dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto e che nella specie esistono invece solo generici elementi indiziari non convergenti , pervenendo a tale conclusione in base ad un apprezzamento in fatto non censurabile in questa sede, se non nei ristretti limiti ora consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella formulazione ratione temporis, laddove, invece, nessuna censura motivazionale risulta proposta dalfA. . 3. Con il terzo motivo si lamenta violazione del principio della soccombenza ex art. 91, primo comma, cod. proc. civ., quanto alla disposta compensazione delle spese legali, sostenendosi che, l’auspicata cassazione della sentenza impugnata e, quindi, la conferma dell’accoglimento integrale della domanda di primo grado implica necessariamente la riforma della statuizione censurata con il mezzo all’esame. 3.1. Il motivo è per un verso infondato, non potendo essere sindacata la scelta di disporre la compensazione delle spese di lite tutte le volte in cui non sia stato violato il criterio secondo cui gli oneri processuali debbono restare a carico della parte soccombente, e, per altro verso, inammissibile, nella parte in cui si censura la regolamentazione delle spese non con riferimento all’esito del giudizio di secondo grado, nel quale tale regolamentazione trova il suo fondamento, ma in relazione ad una ipotizzata e sperata cassazione della sentenza impugnata che, oltre tutto, travolgerebbe la pronuncia sulle spese Cass. 27/10/2012, n. 17492 Cass. 30/06/2015, n. 13314 Cass. 311/05/2017, n. 13716 . 4. Il ricorso principale deve essere, pertanto, rigettato. 5. L’esame del ricorso incidentale, fondato su un unico motivo con il quale si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. e logicamente condizionato all’accoglimento del ricorso principale, resta assorbito dal rigetto di quest’ultimo. 6. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. 7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. P.Q.M. La Corte, pronunciando sui ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in favore della controricorrente ricorrente incidentale, in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.