Una mail basta per concludere il contratto di lavoro?

Il mero invio di una mail durante le trattative finalizzate all’assunzione non costituisce comportamento concludente della società ai fini del perfezionamento del contratto.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10565/21, depositata il 21 aprile. Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda attorea e dichiarava perfezionato tra le parti il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato. La Corte d’Appello ribaltava la pronuncia affermando che la mail inviata dalla società costituiva mera proposta di assunzione alla quale non era seguita alcuna esplicita accettazione né alcun comportamento concludente idoneo a ritenere concluso il contratto. Il soccombente ha proposto ricorso in Cassazione dolendosi per la violazione degli artt. 1321 e 1326 c.c. per aver la Corte territoriale escluso il raggiungimento del consenso tra le parti in ordine alla conclusione del contratto di lavoro. In altre parole, il ricorrente invoca la valenza di accettazione della proposta di assunzione della società. Il ricorso risulta inammissibile in quanto lamenta sostanzialmente un’erronea lettura della vicenda da parte del giudice di merito. Correttamente infatti la pronuncia di merito, sulla base della documentazione e delle dichiarazioni testimoniali acquisite, ha escluso l’avvenuta conclusione tra le parti del contratto di lavoro mancando un’accettazione esplicita ed anche un comportamento concludente che potesse rendere plausibile sul piano logico e giuridico la stipulazione del contratto. La condotta della società risulta dunque corretta non essendo stata diretta ad impedire il verificarsi dell’evento indicato come condizione sospensiva il rilascio di alcuni documenti ma come libera determinazione assunta nel corso delle trattative ancora pendenti, per il venir meno dell’ipotesi di opportunità di assunzione iniziale.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 dicembre 2020 – 21 aprile 2021, n. 10565 Presidente Raimondi – Relatore De Marinis Fatti di causa che, con sentenza del 28 gennaio 2016, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Milano rigettava la domanda proposta da F.G. nei confronti della Saipem S.p.A., avente ad oggetto la declaratoria dell’avvenuto perfezionamento tra le parti di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato della durata di mesi 6 rinnovabili per altri 6, con inquadramento in categoria I, retribuzione corrispondente e sede di lavoro in [] che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto, diversamente dal primo giudice, non concluso il contratto inter partes per essere la mail dell’1.3.2011 una mera proposta di assunzione cui non era seguita alcuna esplicita accettazione nè alcun comportamento concludente idoneo a persuadere dell’avvenuta conclusione del contratto, nè in questi termini valutabile l’avvio presso il consolato [] della pratica per il rilascio del visto per motivi di lavoro, da collocarsi viceversa in una fase prodromica e operante quale condizione mai verificatasi per non aver il consolato mai rilasciato quel visto, sicché il contratto non poteva dirsi concluso allorché il vano decorso del tempo determinava il mutamento delle esigenze aziendali in relazione alle quali la Saipem aveva ipotizzato l’assunzione che per la cassazione di tale decisione ricorre il F. , affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la Società che entrambe le parti hanno poi depositato memoria. Ragioni della decisione - che, con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e 1326 c.c., lamenta l’incongruità logica e giuridica del convincimento maturato dalla Corte territoriale in ordine all’inconfigurabilità nella specie di un consenso raggiunto tra le parti in ordine alla conclusione del contratto di lavoro - che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli arti. 1358 e 1359 c.c., il ricorrente lamenta da parte della Corte territoriale un’erronea lettura della vicenda relativa al mancato rilascio del visto di lavoro a favore del F. da parte del consolato [] che assume essere seguito all’intervento in tal senso presso il consolato della stessa Società nei confronti della quale la Corte stessa, per essere imputabile alla Società medesima il mancato verificarsi dell’evento, avrebbe dovuto considerare avverata la condizione sospensiva che entrambi gli esposti motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono ritenersi inammissibili risolvendosi le censure mosse nel riproporre da parte del ricorrente una propria versione dei fatti incentrata sulla valenza in termini di accettazione della proposta di assunzione della Società delle dichiarazioni rese a meri impiegati incaricati del ricevimento dei documenti per l’ottenimento del visto e per l’esecuzione delle visite mediche a fronte della ricostruzione della vicenda operata dalla Corte territoriale sulla base della documentazione e delle dichiarazioni testimoniali acquisite in sede istruttoria, tutte puntualmente richiamate e valutate, con apprezzamento incensurabile in questa sede, insuscettibili per il loro tenore di attestare l’avvenuta conclusione tra le parti del contratto di lavoro per accettazione esplicita e per comportamento concludente e tali da rendere plausibile sul piano logico e giuridico la ritenuta legittimità della condotta della Società, riguardata non come volta a impedire il verificarsi dell’evento indicato come condizione sospensiva e così l’efficacia del contatto concluso, ma come libera determinazione assunta nel corso delle trattative ancora pendenti per il venir meno, nelle more del rilascio del necessario visto, dell’opportunità dell’ipotizzata assunzione che il ricorso va dunque dichiarato inammissibile che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo che sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, ove spettante conformemente all’orientamento di cui a Cass., SS.UU., 20 settembre 2019, n. 23535 . P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.