Sulla tempestività del recesso in caso di licenziamento per avvenuto superamento del periodo di comporto

Nel caso di licenziamento del lavoratore per l’avvenuto superamento del periodo di comporto, il giudizio sulla tempestività del recesso non può derivare da un’applicazione rigida di criteri cronologici predeterminati, dovendo il giudice verificare caso per caso le circostanze significative in concreto mediante apposita valutazione di congruità.

Così si esprime la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 18960/20, depositata l’11 settembre. La Corte d’Appello di Reggio Calabria accoglieva il reclamo proposto da una società e rigettava la domanda di un suo dipendente che aveva chiesto l’accertamento dell’illegittimità del suo licenziamento per via dell’avvenuto superamento del periodo di comporto . A tal proposito, la Corte evidenziava che il lavoratore non aveva contestato l’effettività delle giornate di assenza per malattia, bensì la tardività del licenziamento a lui intimato a distanza di mesi dalla maturazione del periodo di comporto, mentre l’attuale ricorrente aveva ripreso il servizio senza chiedere altre aspettative per ragioni di salute ed alternando periodi di servizio e di malattia. Contro tale decisione, propone ricorso per cassazione il lavoratore, il quale, tra i diversi motivi, lamenta il fatto che il Giudice abbia ritenuto che la facoltà di recedere dal rapporto fosse stata esercitata legittimamente, trascurando che durante il compimento del periodo di comporto egli fosse rientrato in servizio, riprendendo per 3 mesi l’attività di lavoro con le consuete modalità. La Corte di Cassazione non accoglie la suddetta censura del lavoratore, condividendo l’orientamento giurisprudenziale che ha chiarito in quale modo la tempestività del recesso refluisca sulla sua legittimità nell’ipotesi in cui esso sia intimato a causa dell’avvenuto superamento del periodo di comporto. La Suprema Corte sottolinea, infatti, che il tal caso la tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, costituendo oggetto di una valutazione di congruità insindacabile in sede di legittimità quando sia motivata in modo adeguato dal giudice di merito caso per caso, facendo riferimento all’insieme delle circostanze significative. La Corte aggiunge che sarà il lavoratore invece a dover provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione del recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto . L’ipotesi delineata si differenzia dal licenziamento disciplinare che prevede l’immediatezza del recesso per garantire il diritto di difesa all’incolpato poiché nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole spatium deliberandi ”, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali . Ciò posto, la Corte rileva che nel caso di specie il Giudice di seconde cure ha illustrato chiaramente le motivazioni per cui il tempo intercorso tra il compimento del periodo di comporto ed il licenziamento non fosse significativo di una volontà tacita di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto, ma fosse finalizzata piuttosto a verificare la sussistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti . Nel caso in oggetto, proseguono i Giudici, la risoluzione del rapporto di lavoro consegue alla sopravvenuta impossibilità parziale dell’adempimento, non rilevando la mancata conoscenza del lavoratore del comporto e della durata complessiva delle malattie e non costituendo una violazione dei principi di correttezza e di buona fede circa l’esecuzione del contratto la mancata comunicazione da parte del datore dell’avvicinarsi del superamento del periodo di comporto, poiché tale comunicazione potrebbe servire al dipendente solo per avanzare alcune richieste sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione . Ciò affermato, la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 24 giugno – 11 settembre 2020, n. 18960 Presidente Raimondi – Relatore Garri Rilevato che 1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha accolto il reclamo proposto da Gierre s.r.l. ed ha rigettato la domanda di D.F. che aveva chiesto si accertasse la illegittimità del licenziamento a lui intimato dalla Gierre s.r.l. il 25-29 settembre 2015 per giustificato motivo oggettivo in relazione all'avvenuto superamento del periodo di comporto ai sensi dell'art. 32, comma 7 c.c.n.l. Mobilità Area Contrattuale Attività Ferroviarie e dell'art. 2110 c.c 2. Il giudice di appello, per quanto qui ancora interessa, ha rammentato che era oramai incontroverso tra le parti che il termine del comporto previsto dall'art. 32, comma 7 c.c.n.l. applicabile era di dodici mesi. Aveva inoltre accertato che tale termine era scaduto nel mese di OMISSIS per effetto della somma delle assenze per malattia accumulatesi dal OMISSIS al OMISSIS . 2.1. La Corte di merito ha evidenziato che il lavoratore non aveva contestato la effettività delle giornate di assenza per malattia dolendosi invece della tardività del licenziamento intimato a distanza di mesi dalla maturazione del periodo di comporto quando il lavoratore aveva ripreso servizio senza chiedere ulteriori aspettative per ragioni di salute ed alternando periodi di servizio e periodi di malattia. 2.3. Ha osservato poi che il tempo trascorso tra la maturazione del periodo di comporto e l'intimazione del licenziamento era giustificato dalla volontà della datrice di lavoro di verificare la compatibilità della malattia con la prosecuzione dell'attività che tuttavia, per effetto dell'ulteriore assenza di due mesi dovuta alla medesima malattia era poi apparsa definitivamente compromessa. 2.4. In tale prospettiva il giudice di appello ha escluso che lo spatium deliberandi fosse stato eccessivo evidenziando che, al contrario, la risoluzione del rapporto era stata comunicata solo una settimana dopo il rientro dall'ultima assenza protrattasi per due mesi durante il periodo estivo. 2.5. Ha concluso quindi che non era ravvisabile alcuna inerzia e che, anzi, l'attesa nel recedere era stata giustificata dalla verifica delle modalità di esercizio dell'attività lavorativa, nell'immediato ripresa e poi rarefatta durante il periodo estivo, durante il quale, nel mese di agosto, anche l'attività amministrativa della società era sospesa. 3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.F. affidato a quattro motivi ai quali resiste con controricorso la Gierre s.r.l Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso ed entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 380 bis 1. c.p.c Considerato che 4. Preliminarmente va dichiarata ammissibile la memoria depositata dalla Gierre s.r.l. in occasione dell'odierna adunanza camerale. Come risulta dagli atti di causa, infatti, in data 10 giugno 2020 la società controricorrente ha inviato per via telematica alla cancelleria una memoria che ha del pari notificato alla controparte via PEC in formato pdf p7m il 10 giugno 2020. Successivamente, in data 16 giugno 2020, la Gierre s.r.l. ha provveduto anche al deposito della memoria in formato cartaceo presso la cancelleria. 4.1. Va rammentato infatti che il presente procedimento, originariamente fissato per la decisione il 18 marzo 2020, ha sofferto del rinvio d'ufficio reso necessario dalla disciplina emergenziale collegata alla pandemia COVID 19. Ai sensi del D.L. 8 marzo 2020, n. 11, art. 1, comma 1 infatti, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono state rinviate d'ufficio a data successiva al 22 marzo 2020. Tale termine è stato successivamente differito prima al 15 aprile e poi all'11 maggio 2020 per effetto del disposto del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83 convertito dalla L. 24 aprile 2020, n. 27 e poi del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, art. 36, comma 1 convertito dalla L. 5 giugno 2020, n. 40 . 4.2. Per l'effetto con provvedimento n. 47 del 31 marzo 2020, adottato ai sensi del citato D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 6 è stato disposto che tutte le cause già fissate per la trattazione in adunanza camerale fino al 31 maggio 2020 fossero rinviate a nuovo ruolo per essere nuovamente fissate in adunanza camerale a decorrere dal 22 giugno 2020 nel rispetto dei termini di legge cfr. i provvedimenti del Primo Presidente della Cassazione nn. 47 e 55 del 31.3 e 10.4.2020 . 4.3. Osserva allora il Collegio che trattandosi di una nuova fissazione dell'adunanza camerale, d'ufficio rinviata per effetto di una disposizione di legge, i termini da rispettare sono quelli dettati, nello specifico, dall'art. 380 bis.1 c.p.c Tale norma dispone, da un canto, che dell'udienza è data comunicazione agli avvocati delle parti almeno venti giorni prima e, dall'altro, che ai difensori è concesso termine, fino a dieci giorni prima, per depositare memorie illustrative. In sostanza la disposizione autorizza le parti a meglio illustrare le rispettive posizioni e le difese già svolte in prossimità dell'adunanza fissata per la decisione. Non è prevista alcuna decadenza ma solo un lasso temporale adeguato per consentire alla Corte di esaminare le memorie. Nè vi sono ragioni per ritenere che tale illustrazione sia preclusa nel caso in cui la parte, che in un primo momento non abbia inteso avvalersene, differita la decisione voglia illustrare le difese già svolte eventualmente richiamando, come nel caso in esame, i più recenti sviluppi della giurisprudenza. 4.4. Quanto al deposito telematico della memoria va rilevato che il citato D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 11 bis ha disposto che fino al 31 luglio 2020 anche per la Corte di Cassazione il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Con il Protocollo d'intesa intervenuto tra la Corte di Cassazione, la Procura Generale presso la Corte di Cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense si è disposto che le memorie ai sensi degli artt. 380 bis, 380 bis 1 e 380 ter c.p.c. potranno essere trasmesse mediante invio dal proprio indirizzo di posta elettronica certificata alle PEC delle cancellerie della Corte di Cassazione ed alla PEC dei difensori delle altre parti processuali risultanti dai pubblici registri. 4.5. Nel caso di specie la società controricorrente ha nel termine di dieci giorni inviato alla PEC della controparte la memoria che ha trasmesso anche in cancelleria. Il successivo deposito della copia cartacea della memoria è adempimento ulteriore e di cortesia rispetto ad un deposito già ritualmente e tempestivamente effettuato nel termine di dieci giorni dalla data fissata e comunicata alle parti dell'adunanza camerale. 5. Venendo quindi all'esame dei motivi di ricorso ritiene il Collegio che il primo motivo - con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per avere la sentenza d'ufficio evidenziato che il lavoratore non si era avvalso dell'aspettativa per motivi di salute, sebbene nulla al riguardo fosse stato allegato dalla società la quale non solo non lo aveva avvisato dell'esistenza di tale opportunità ma, neppure, lo aveva avvertito che il periodo di comporto stava per scadere - è infondato. 5.1. Il vizio di ultrapetizione può essere ravvisato nel caso in cui il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell'azione petitum o causa petendi , emetta un provvedimento diverso da quello richiesto petitum immediato , oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso petitum mediato , così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori cfr. Cass. 21/03/2019 n. 8048 ed anche Cass. 11/04/2018 n. 9002 e 24/09/2015n. 18868 . In sostanza la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., riguarda il petitum che va determinato con riferimento a quello che viene domandato sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l'attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto. Tuttavia, tale principio non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all'applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte cfr. Cass. 24/03/2011 n. 6757 e 13/06/2002n. 8479 . 5.2. Nel caso in esame la Corte si è limitata ad utilizzare un argomento motivazionale che deriva dalla lettura effettuata dal giudice del c.c.n.l. ma che non si è riverberata nè sul petitum nè sulla causa petendi che è rimasta invariata. Il bene della vita riconosciuto è rimasto il medesimo ed il provvedimento chiesto con il ricorso è proprio quello riconosciuto. 6. Con il secondo motivo il ricorrente deduce che la Corte di merito, in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avrebbe omesso di prendere in esame le risultanze della prova testimoniale, ammessa in appello, relative alla nocività delle mansioni svolte. 6.1. Sostiene il ricorrente che la Corte, pur avendo correttamente dato atto che la parte aveva rinunciato a far accertare la nocività delle mansioni svolte, avrebbe dovuto tenere conto comunque delle risultanze dell'istruttoria disposta e delle circostanze di fatto accertate, dalle quali erano emerse le caratteristiche dell'attività svolta. 7. Anche il secondo motivo di ricorso non può essere accolto. Ed infatti non può porsi nel giudizio di cassazione una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riguardo alla valutazione del materiale istruttorio - compiuta dal giudice di merito. Solo allorchè si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione è ravvisabile la violazione di legge Cass. 17/01/2019 n. 1229 e 27/12/2016n. 27000 . Rientra infatti nella discrezionalità del giudice di merito la scelta delle prove da porre a fondamento della sua decisione ed in virtù del principio del libero convincimento, che è posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c. ed opera interamente sul piano dell'apprezzamento di merito, è insindacabile in sede di legittimità la scelta di valorizzare alcuni elementi di prova invece che altri. La mancata valutazione di elementi di prova può divenire rilevante ove si concreti in un omesso esame di un fatto storico , che abbia formato oggetto di discussione e che appaia decisivo ai fini di una diversa soluzione della controversia, censurabile nei limiti consentiti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 cfr. Cass. n. 23940 del 12/10/2017 . 7.1. Tanto premesso il ricorrente non chiarisce la decisività delle circostanze di fatto che assume essere risultate provate e che sarebbero state trascurate dal giudice di appello. Conseguentemente la censura è inammissibile poichè pretende, nella sostanza, una diversa valutazione degli elementi di prova che non è consentita a questa Corte per le ragioni dette. 8. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, comma E-ter dell'art. 2110 c.c., comma 2, dell'art. 32, comma 6 c.c.n.l. mobilità area AF del 20 luglio 2012 e degli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. 8.1. Ad avviso del ricorrente la sentenza, in violazione delle disposizioni denunciate, avrebbe ritenuto tempestivo il recesso sebbene, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto, la condotta tenuta dal datore di lavoro - che aveva riammesso in servizio il lavoratore ed aveva lasciato trascorrere un considerevole periodo di tempo - doveva essere interpretata come una rinuncia a volersi avvalere della facoltà di risolvere il rapporto per superamento del comporto. Sottolinea il ricorrente che la condotta datoriale, per poter essere considerata corretta, avrebbe dovuto essere preceduta, e non lo era stata, dalla comunicazione al lavoratore che il periodo di comporto stava per scadere dalla verifica dell'idoneità alle mansioni all'atto della ripresa del servizio e, in caso di accertata idoneità, dall'avviso che ad ulteriori assenze sarebbe potuto conseguire il licenziamento dalla comunicazione della possibilità di avvalersi dell'aspettativa prevista dall'art. 32, comma 9 c.c.n.l. in esito al decorso della quale, poi, avrebbe potuto essere licenziato. 9. Con l'ultimo motivo di ricorso, poi, è censurata la sentenza per avere - in violazione dell'art. 2110 c.c., comma 2, dell'art. 32, comma 6 e art. 11 c.c.n.l. mobilità area AF del 20 luglio 2012 e degli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - ritenuto che la facoltà di recedere dal rapporto era stata legittimamente esercitata, trascurando di considerare che, nel corso del compimento del periodo di comporto, il ricorrente era rientrato in servizio riprendendo per tre mesi l'attività lavorativa con le modalità di sempre compreso il superamento dell'orario di lavoro e la prestazione di attività anche diverse rispetto a quelle sue proprie . 10. Le censure non possono essere accolte. Ritiene il Collegio di dover dare seguito a quella giurisprudenza di questa Corte che ha ben chiarito in che modo la tempestività del recesso refluisca sulla sua legittimità nel caso in cui lo stesso sia intimato in relazione all'avvenuto superamento del periodo di comporto. 10.1. E' stato condivisibilmente evidenziato infatti che in questo caso il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata, che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative. Sarà il lavoratore invece a dover provare che l'intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto. A differenza del licenziamento disciplinare, che postula l'immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all'incolpato, del licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole spatium deliberandi , in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali. In tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa cfr. Cass. 12/10/2018 n. 25535 e anche Cass. 28/03/2011 n. 7037 . 10.2. Nel caso in esame il giudice di appello ha dato conto con chiarezza delle ragioni per le quali il tempo trascorso tra il formale compimento del periodo di comporto ed il licenziamento non era significativo di una volontà tacita, manifestata per fatti concludenti, di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto ma era piuttosto finalizzata a verificare in concreto l'esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti del lavoratore a conservare la posizione lavorativa e del datore di lavoro a ricevere una prestazione utile . 10.3. Nè il datore di lavoro, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, era tenuto a comunicare al lavoratore l'approssimarsi del compimento del comporto ovvero ad indicare strumenti alternativi all'assenza per malattia. Nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi cosiddetta eccessiva morbilità , la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva. Non rileva, pertanto, la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cd. esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, ove come nella specie non risulti esistente un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione cfr. Cass. 17/08/2018 n. 20761 e Cass. 28/06/2006 n. 14891 . 11. In conclusione per le ragioni su esposte il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio, che seguono la soccombenza, sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell'art. 13, comma 1 bis citato D.P.R., se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre a spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell'art. 13, comma 1 bis citato D.P.R., se dovuto.