Il licenziamento ritorsivo può essere dimostrato dal lavoratore anche con presunzioni

In tema di licenziamento ritorsivo, l’onere della prova grava sul lavoratore, ben potendo il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo.

Lo ha ribadito la Suprema Corte con la sentenza n. 11705/20, depositata il 17 giugno. La Corte d’Appello di Napoli confermava la decisione di prime cure con cui era stata dichiarata la nullità del licenziamento , considerato ritorsivo , intimato da una società nei confronti di un lavoratore. La natura ritorsiva veniva ritenuta sussistente sulla base delle prove testimoniali e documentali acquisite ritenendo che la tale dimostrazione potesse essere raggiunta anche tramite presunzioni , quali l’inesistenza del motivo addotto a giustificazione del recesso. La società datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione. La sentenza impugnata risulta coerente con il consolidato principio secondo cui il licenziamento per ritorsione diretta o indiretta – assimilabile a quello discriminatorio – costituisce un ingiusta ed arbitraria reazione del datore di lavoro ad un comportamento del lavoratore. Da qui la nullità del licenziamento stesso, laddove il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova anche con presunzioni . È stato inoltre ribadito che l’ onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore , ben potendo, tuttavia, il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio , compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso . In conclusione la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 16 gennaio – 17 giugno 2020, n. 11705 Presidente Nobile – Relatore Negri Della Torre Fatti di causa 1. Con sentenza n. 7544/2017, depositata il 10 novembre 2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede, pronunciando nel giudizio di opposizione, aveva dichiarato la nullità, in quanto ritorsivo, del licenziamento per giusta causa intimato da Napoli Servizi S.p.A., in data 15/12/2014, al proprio dirigente B.F. , con conseguente ordine di reintegrazione in servizio dello stesso e condanna della società al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012. 2. La Corte ha, in primo luogo, ritenuto ingiustificato e pretestuoso il licenziamento, alla stregua delle risultanze delle prove, testimoniali e documentali, acquisite lo ha inoltre ritenuto di natura ritorsiva, osservando come il non agevole assolvimento dell’onere della prova al riguardo, da parte del lavoratore, possa essere conseguito anche attraverso l’utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario l’inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del recesso o di alcun motivo ragionevole e nella specie - ha osservato ancora la Corte - la sentenza reclamata aveva tratto dai fatti noti infondatezza e genericità degli addebiti contenzioso in corso per una questione retributiva progressiva emarginazione del dirigente e quasi totale sua esautorazione dalle funzioni ricoperte, realizzatasi nel periodo immediatamente precedente il licenziamento la conseguenza, del tutto ragionevole, che il recesso avesse avuto natura effettivamente ritorsiva. 3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Napoli Servizi S.p.A., affidandosi a tre motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso. 4. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 e 2954 c.c. e segg., L. n. 604 del 1966, artt. 4 e 10, L. n. 300 del 1970, art. 18, L. n. 108 del 1990, art. 3, L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 34 c.c.n.l. 2/1/2014 per i dirigenti del terziario si censura la sentenza impugnata per non avere considerato che il difetto di prova degli addebiti contestati al dirigente comporta esclusivamente che il licenziamento dello stesso è privo di giustificazione, con l’effetto di costituire il diritto alla indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, ma non può condurre a ritenerne la natura ritorsiva, con la conseguente applicazione del più incisivo regime di tutela stabilito dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 si censura inoltre la sentenza per non essersi avveduta, nel fare ricorso al procedimento presuntivo ai fini dell’indagine circa la natura ritorsiva del licenziamento, che la presunzione costituisce un mezzo di prova dei fatti e non di qualificazione dei medesimi ovvero degli intenti psicologici ad essi sottesi. 2. Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame del fatto decisivo per il giudizio, ed oggetto di discussione fra le parti, costituito dalla collocazione del licenziamento del dirigente nel quadro dei provvedimenti giudiziari della Corte dei Conti e del Tribunale di Napoli che lo avevano riguardato. 3. Con il terzo viene dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 18, L. n. 108 del 1990, art. 3, L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42 e art. 34 c.c.n.l. cit., nonché vizio di motivazione per omesso esame della documentazione prodotta in sede di merito, tale da comprovare la fondatezza degli addebiti, indipendentemente dalle risultanze della prova testimoniale, e da escludere di conseguenza il carattere ritorsivo del licenziamento. 4. Il primo motivo è infondato. 5. La Corte di appello di Napoli ha invero fatto esatta applicazione del principio di diritto, secondo il quale il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato della L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3 - costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni Cass. n. 17087/2011 . 6. In particolare, si è osservato, in detta pronuncia, come il licenziamento ritorsivo sia stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità data l’analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 cfr., da ultimo, Cass. 18 marzo 2011 n. 6282 . Ciò posto, va ribadita la regola che l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. Trattasi di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole . 7. In aderenza a Cass. n. 17087/2011 conf. n. 24648/2015 è stato di recente ribadito che l’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore, ben potendo, tuttavia, il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso Cass. n. 23583/2019 . 8. Il secondo motivo risulta inammissibile, in virtù della preclusione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c. c.d. doppia conforme e a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato in data successiva all’entrata in vigore della norma. 9. Nè la ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse Cass. n. 5528/2014 conformi n. 19001/2016 n. 26774/2016 n. 20994/2019 . 10. Il terzo motivo risulta egualmente inammissibile. 11. Esso, infatti, svolge - nella sostanza della censura proposta, incentrata per intero sull’omesso esame della documentazione prodotta dalla società datrice di lavoro - una critica di ordine puramente motivazionale, alla quale possono applicarsi le medesime considerazioni sub 8 e 9. 12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.