Imposizione contributiva da parte di Cassa Forense solo per i redditi prodotti dall’attività professionale

Benché il mancato invio del cd. modello 5 costituisca per l’avvocato iscritto all’albo illecito disciplinare, tale circostanza non legittima l’iscrizione d’ufficio alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, in quanto la stessa può dirsi legittima solamente se vi sia prova dello svolgimento continuativo della professione.

Ciò è stato affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 28449/19, depositata il 5 novembre. Il noto contenzioso. In primo grado è stato accolto il ricorso di un avvocato iscritto all’albo con cui era stata contestata l’iscrizione d’ufficio alla Cassa Nazionale di Assistenza e Previdenza Forense per inadeguata prova dell’esercizio continuativo dell’attività forense. Anche la Corte di Appello ha confermato tale impostazione, rigettando l’appello proposto dalla Cassa, che ha articolato in più motivi le doglianze avanzate dinnanzi alla Corte di Cassazione. L’avvocato in questione, chiedendo l’accertamento negativo dell’esistenza del presupposto dell’esercizio continuativo della professione, aveva in giudizio dedotto di aver svolto in maniera saltuaria la professione forense per il periodo oggetto di causa, producendo i modelli reddituali inferiori ai limiti legali per gli anni 2002-2003 e 2004 e di poco superiore per il 2001, contestando l’avvenuta iscrizione d’ufficio effettuata dalla Cassa nel 2007 per superamento del limite temporale, dando atto di non avere nei termini effettuato la prescritta dichiarazione all’Ente previdenziale. Le tesi di Cassa Forense. L’Ente Previdenziale ha censurato la pronuncia d’appello sotto vari profili e, in particolare, sostenendo - la violazione degli artt. 112 e 437, comma 2, c.p.c., in quanto la corte territoriale avrebbe ritenuto provato l’espletamento di attività meramente saltuaria da parte dell’avvocato sulla scorta di circostanze dallo stesso allegate solo in secondo grado - la violazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto la Corte avrebbe ritenuto raggiunta la prova della saltuarietà in assenza di idonei elementi, tenuto conto che dal superamento del limite reddituale per il 2001 l’onere probatorio sarebbe ricaduto sull’avvocato - la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., avendo rilevato d’ufficio la decadenza ex art. 3 l. n. 319/1975 - la violazione dell’art. 22 l. n. 576/1980 e la falsa applicazione del novellato art. 3 l. n. 319/1975, avendo ritenuto il termine decadenziale previsto per la cancellazione d’ufficio da parte della Cassa in caso di carenza di continuità nell’esercizio della professione applicabile anche alla diversa ipotesi di iscrizione d’ufficio. I chiarimenti della Corte. La Cassazione, mediante una pronuncia densa di riferimenti procedurali, ha respinto il ricorso, ritenendolo totalmente infondato e precisando come la sentenza gravata abbia, in realtà, rigettato l’appello applicando l’art. 22 l. n. 576/1980, cioè quella ratione temporis vigente. Tale norma, infatti, prevede va l’obbligo di iscrizione alla Cassa sia ai fini assistenziali che previdenziali per coloro che esercitino la professione forense con carattere di continuità, attribuendo all’Ente il potere di revisione degli iscritti con riferimento a tale requisito nel solo arco del quinquennio. L’errore della Cassa. Ad avviso della Suprema Corte il fatto che l’avvocato violi l’obbligo di comunicare i propri dati reddituali condotta rilevante ai fini disciplinari non comporta integrazione del presupposto stesso necessario per l’iscrizione alla Cassa, essendo quest’ultima gravata dell’onere di fornire la prova della natura continuativa e prettamente forense dell’attività produttiva dei redditi. Richiamando un precedente di qualche anno fa cfr. Cass., Lav., n. 7559/14 , la Cassazione ha rammentato come l’obbligo degli avvocati – iscritti automaticamente, per quanto concerne l’ambito assistenziale, in ragione dell’iscrizione all’albo – di versare, a fini previdenziali, la maggiorazione percentuale su tutti i redditi rientranti nel volume di affari ai fini IVA si riferisca solamente ai redditi derivanti da attività professionale, restando esclusi quelli percepiti in conseguenza di diversa attività svolta, salvo che non venga fornita la prova della loro riconducibilità all’attività stricto sensu forense. In concreto, quindi, avendo il professionista già in primo grado, contestato la continuità della propria attività forense, nel documentale non superamento del minimo reddituale per 2002-2003 e 2004, pur a fronte del lieve superamento del tetto reddituale per il 2001 appena euro 292,00 e in assenza di prove circa la riferibilità di tale eccedenza alla professione forense, l’iscrizione ufficiosa perpetrata dalla Cassa risulta illegittima. La Corte, inoltre, ha precisato l’irrilevanza concreta, ai fini del decidere, della questione relativa alla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice di merito della decadenza quinquennale, dal momento che tale argomento era stato utilizzato nella sentenza d’appello solamente ad abundantiam .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 settembre – 5 novembre 2019, n. 28449 Presidente Manna – Relatore Calafiore Fatti di causa 1. La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 6071 del 2013, ha rigettato l’appello proposto dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense CNPAF nei confronti dell’avvocato S.V. , avverso la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata di accoglimento del ricorso proposto dallo stesso avvocato al fine di contestare l’iscrizione d’ufficio alla Cassa per affermato esercizio continuativo della professione nel periodo compreso tra l’anno 2001 ed il 2004. 2. La Corte territoriale ha ritenuto che la Cassa non avesse adeguatamente provato la pretesa continuità nell’esercizio della professione essendo all’uopo insufficiente il superamento minimo del reddito prodotto rispetto a quello previsto e solo nell’anno 2001, neppure era stata dimostrata dalla CNAPF la tempestività del rilievo d’ufficio L. n. 576 del 1980, ex art. 22. 3. Avverso tale sentenza ricorre CNAPF proponendo sei motivi di ricorso illustrati da memoria. 4. L’avvocato S.V. ha resistito con controricorso ed il suo procuratore ha depositato dichiarazione e certificato di morte del proprio assistito chiedendo disporsi l’interruzione del processo. Ragioni della decisione 1. Preliminarmente va disattesa la richiesta di interruzione del processo avanzata dal procuratore del ricorrente, in conseguenza del decesso del medesimo avvenuto in data 5 agosto 2019, posto che nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo. Cass. n. 1757 del 2016 Cass. n. 24635 del 2015 . 2. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 576 del 1980, art. 22, L. n. 319 del 1975, art. 2 e della Delib. Comitato dei delegati della CNPAF 30-31 maggio 1997, posto che tali norme sono state interpretate dalla giurisprudenza nel senso di ritenere sussistente l’obbligo di iscrizione alla Cassa al superamento del limite reddituale previsto dalla Delibera, per cui la sentenza impugnata. 3. Il secondo motivo ha per oggetto la violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 437 c.p.c., comma 2, dal momento che la sentenza impugnata ha affermato che l’avvocato S. aveva dimostrato di aver svolto l’attività forense solo in modo saltuario con ciò considerando una circostanza allegata dallo stesso avvocato solo in secondo grado. Inoltre, solo in appello la medesima parte aveva allegato di aver prodotto redditi inferiori ai minimi per gli anni 2003 e 2004, posto che in primo grado le difese, rigettate dal primo giudice e non riproposte, avevano avuto riguardo alla fruizione di benefici fiscali derivanti dal provvedimento emesso ai sensi del D.P.C.M. 18 dicembre 1992, art. 1, comma 9, ed alla affermata violazione della L. n. 241 del 1990. 4. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 , in ragione del fatto che la statuizione della Corte d’appello relativa al raggiungimento della prova della saltuarietà dell’esercizio della professione era priva di valide prove, trascurando di considerare che, a fronte del superamento del reddito per l’anno 2001, l’onere della prova della saltuarietà gravava sull’avvocato S. e non su CNPAF e che lo stesso aveva indicato fonti di prova, testimoniali e documentali, estranee a tale tema. Non era neanche stato contestato il mancato invio dei modelli 5 relativi agli anni 2003 e 2004. 5. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , in ragione del fatto che la sentenza impugnata aveva rigettato il motivo d’appello proposta da CNPAF in ordine alla ritenuta tardività dell’iscrizione d’ufficio per il decorso del termine di cinque anni fissato dalla L. n. 319 del 1975, art. 3, dal superamento del reddito, con ciò rilevando d’ufficio la decadenza che è eccezione rilevabile solo dalla parte. Non sarebbe corretto, infatti, ritenere che tale questione fosse presente nel tema processuale in quanto interna all’applicabilità della L. n. 576 del 1980, art. 22. 7. Con il quinto motivo si denuncia la violazione della L. n. 576 del 1980, art. 22 e la falsa applicazione della L. n. 319 del 1975, art. 3, come modificato dalla L. n. 576 del 1980, art. 22, comma 7 ciò in ragione della applicazione del termine di decadenza disposto dell’art. 22 cit., riferito al potere della Cassa di procedere alla cancellazione di periodi di assicurazione in ipotesi di carenza di continuità nell’esercizio della professione, anche alla diversa ipotesi dell’esercizio del potere di iscrizione d’ufficio, ma anche in ragione del fatto che era stato considerato quale dies a quo per il decorso di tale termine l’anno in cui viene superato il reddito minimo 2001 e non la data in cui l’interessato ha presentato il modello 5 10 luglio 2003 . 7. Con il sesto motivo la Cassa deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 576 del 1980, art. 17, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3 , in ragione del fatto che la sentenza avrebbe, erroneamente stante l’autonomia delle stesse, ritenuto implicitamente assorbite le questioni relative alla pretesa applicazione delle sanzioni conseguenti alla omessa comunicazione, relativamente agli anni 2002-2005, dell’ammontare dei redditi dichiarati a fini IRPEF nonché del volume d’affari ai fini IVA. 8. I motivi, in quanto connessi, vanno trattati congiuntamente e sono infondati. 9. È opportuno evidenziare che la sentenza impugnata, per quanto si legge, ha rigettato l’appello di CNPAF che aveva impugnato la sentenza di primo grado in quanto la stessa non aveva rilevato l’improcedibilità della domanda ex art. 443 c.p.c., aveva errato nell’attribuire alla Cassa l’onere di provare il presupposto per l’iscrizione d’ufficio ed in quanto affetta da ultrapetizione sulla base di due concorrenti ed autonome ragioni. 10. Sulla premessa dell’infondatezza del motivo d’appello legato alla violazione dell’art. 443 c.p.c., ormai non rilevante in quanto non oggetto di ricorso in cassazione, la sentenza impugnata ha affrontato il merito della materia devoluta in quel grado ed ha - circoscritto il periodo rilevante ai fini del giudizio all’arco temporale compreso tra il 2001 ed il 2004 - rilevato che la norma applicabile era quella individuata dal primo giudice e cioè la L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 22, che prevede l’obbligo di iscrizione alla Cassa soltanto a titolo pieno, cioè a fini sia assistenziali che previdenziali, per chi esercita la professione forense con carattere di continuità, ai sensi della L. n. 319 del 1975, richiamando giurisprudenza di legittimità - rilevato che al fine di garantire tale precetto, soccorre la L. n. 319 del 1975, art. 3, come modificato dall’art. 22 cit., che ha attribuito alla Giunta esecutiva della Cassa il potere di revisione degli iscritti con riferimento al requisito della continuità nell’esercizio della professione nell’arco del quinquennio - nel caso di specie, l’avvocato S. aveva chiesto l’accertamento negativo dell’esistenza del presupposto dell’esercizio continuativo della professione, affermato dalla Cassa, ed aveva provato di aver esercitato solo saltuariamente la professione forense aveva inviato i modelli reddituali tutti inferiori ai limiti per gli anni 2002-2003 e 2004 e di poco superiore nell’anno 2001 - la Cassa, limitandosi a produrre la copia della dichiarazione dei redditi del solo anno 2001, non aveva soddisfatto l’onere probatorio sulla stessa incombente quanto al presupposto di legittimità dell’iscrizione d’ufficio ed in considerazione della contestazione dell’effettivo esercizio continuativo della professione da parte dall’avvocato S. - per altro verso, poiché l’iscrizione d’ufficio era avvenuta nel maggio del 2007, relativamente all’affermato superamento del reddito per l’anno 2001, si era anche consumato il potere di verifica riconosciuto alla Cassa nell’arco di un quinquennio al fine di accertare periodicamente la sussistenza del requisito dell’esercizio continuativo della professione che non poteva essere esercitato senza limitazione temporanea - questo argomento, inoltre, contrariamente all’assunto dell’appellante, non costituiva ultrapetizione posto che il tema dibattuto era proprio quello della corretta applicazione del potere previsto dall’art. 22 cit. 11. La tesi sostenuta dalla ricorrente, segnatamente laddove si denuncia la violazione della L. n. 576 del 1980, art. 22 e dell’art. 17 della stessa legge facendo derivare la prova del presupposto dell’iscrizione alla Cassa dalla affermata violazione dell’obbligo di comunicazione dei dati reddituali in base alla sola iscrizione del professionista nell’albo degli avvocati, non è fondata nei sensi voluti dalla ricorrente. 12. Deve osservarsi che, pur trovando un tale rilievo appiglio nelle norme citate e nella giurisprudenza di questa Corte, lo stesso non è risolutivo nella fattispecie, in quanto resta insuperata la parte della decisione impugnata attraverso la quale è stata rilevata l’infondatezza della pretesa contributiva della Cassa di previdenza per la mancanza di prova della natura continuativa e prettamente forense dell’attività professionale produttiva dei compensi accertati in favore dell’opponente avv. S. . 13. Di certo, come le sezioni unite di questa Corte hanno statuito Sez. U, n. 20219 del 19/11/2012 , costituisce illecito disciplinare, a norma della L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 17, la condotta dell’avvocato iscritto all’albo che ometta di inviare alla Cassa nazionale forense le comunicazioni relative all’ammontare dei redditi professionali dichiarati ai fini IRPEF e dei volumi di affari dichiarati ai fini IVA, anche se il professionista non sia iscritto alla Cassa, nè abbia l’obbligo di domandare l’iscrizione ad essa a fini previdenziali - avvenendo d’ufficio l’iscrizione a fini assistenziali per tutti gli iscritti agli albi - e di versare conseguentemente il contributo soggettivo, poiché il sistema normativo riferisce il dovere di comunicazione del reddito e del volume di affari indistintamente a tutti gli avvocati, a differenza dei praticanti, per i quali l’obbligo è espressamente previsto solo se gli stessi siano iscritti alla Cassa . 14. Tuttavia, in casi analoghi al presente, si è osservato Cass. Sez. lav, n. 7559 del 2014, Cass. n. 5975 , che l’obbligo per gli iscritti alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori di versare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume d’affari ai fini dell’I.V.A. si riferisce soltanto ai redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale. Pertanto, restano esclusi i redditi percepiti da un avvocato in conseguenza della diversa attività svolta e. quindi, in difetto di prova circa il fatto che gli stessi possano ricondursi in qualche modo all’esercizio di attività professionale”. 15. Si tratta di orientamento consolidato visto che già in passato si era avuto modo di affermare Cass. Sez. lav. n. 629 del 19/1/1993 che la L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 11 modificato dalla L. 2 maggio 1983, n. 175, art. 2 , il quale prevede, nel suo comma 1, l’obbligo per gli avvocati e procuratori nonché per i praticanti procuratori di versare alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori una maggiorazione percentuale o contributo integrativo su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’I.V.A. , va interpretato alla stregua del sistema della legge e della ratio della medesima - nel senso che oggetto di tale imposizione contributiva come del contributo soggettivo previsto dall’art. 10 della stessa legge sono soltanto i redditi prodotti dallo svolgimento dell’attività professionale, con esclusione di qualsiasi altro provento di carattere avventizio non collegabile all’esercizio della professione stricto sensu . 16. Ciò premesso quanto alla corretta interpretazione dei presupposti fattuali richiesti dalle disposizioni di cui si lamenta la violazione, i motivi che lamentano violazione delle regole processuali che disciplinano le fonti della prova o i poteri di acquisizione d’ufficio della medesima artt. 115 e 437 c.p.c. sono infondati ed essi non risultano idonei ad intaccare la decisione impugnata. 17. La ricorrente richiama l’attenzione di questa Corte sulle difese assunte dalla controparte e con rituale richiamo ed allegazione del ricorso di primo grado e della memoria di costituzione in appello, ha in effetti dimostrato che l’avvocato S. non ha mai prodotto le dichiarazioni relative ai redditi prodotti, anche se ha affermato di averlo sempre regolarmente fatto vd. pag. 2 ricorso primo grado allegato al ricorso per cassazione ed in seno alla memoria di costituzione in appello ha semplicemente specificato gli importi delle dette dichiarazioni vd. pag. 8 memoria di parte appellata allegata al ricorso per cassazione . Tali evidenze, peraltro, non fanno che rafforzare la posizione difensiva dell’avvocato che ha al tempo stesso palesemente contestato di aver svolto con continuità attività forense e di averne tratto redditi superiori ai minimi. A fronte di tali specificazioni, evidentemente non contestate nella loro portata monetaria, la sentenza impugnata ha ritenuto l’insufficienza del mero lieve sforamento rilevabile per l’anno 2001 pari a circa 292 Euro in quanto non necessariamente riferibile a proventi derivanti da attività forense e, quindi, ha concluso che effettivamente non si fosse raggiunta la prova dell’esercizio continuativo della professione e della riferibilità alla medesima dei redditi prodotti e denunciati. 18. La sentenza non ha deciso al di fuori delle allegazioni delle parti, nè si è verificato un illegittimo ampliamento dei fatti dedotti in primo grado trattandosi di mere difese costituite da specificazioni su dichiarazioni rese proprio alla Cassa ed in suo possesso. 19. Le censure svolte dalla ricorrente, in definitiva, si traducono in una inammissibile istanza di rivisitazione del merito probatorio adeguatamente valutato dalla Corte d’appello la quale, con motivazione congrua ed esente da vizi di tipo logico-giuridico, ha esaminato in punto di fatto il contenuto del modello fiscale relativo all’anno 2001 versato in atti dalla Cassa ed ha valutato le ulteriori allegazioni, pervenendo al convincimento che dai medesimi, emergeva solo una minima eccedenza quantitativa rispetto ai minimi previsti per il solo anno 2001, senza che fosse possibile da ciò trarre la conclusione dell’esistenza di redditi derivanti necessariamente dall’esercizio continuativo della professione forense. 18. Con l’accertamento, non censurabile per quanto sin qui detto, dell’insussistenza dello svolgimento continuativo della professione, unico presupposto legittimante l’iscrizione d’ufficio alla Cassa di cui qui si discute, diviene irrilevante l’esame dei motivi relativi alla correttezza ed alla ultrapetizione derivante dalla circostanza che, ad abundantiam, una volta accertata l’insussistenza del presupposto della continuità nell’esercizio della professione forense, la sentenza impugnata abbia pure rilevato la tardività del rilievo sui redditi che condusse all’iscrizione d’ufficio. 19. Va, infatti, riaffermato il principio secondo il quale non sussiste violazione del divieto dell’ ultra petita ex art. 112 c.p.c., nell’ipotesi in cui il giudice, fermo restando l’obbligo di pronunciarsi su quanto richiesto, integri ad abundantiam con proprie argomentazioni le richieste di parte Cass. n. 2572 del 20 marzo 1999, Cass. 14089 del 2002, Cass. 2146 del 2006 20. Da ultimo, va rilevata l’infondatezza della censura relativa alla omissione di pronuncia sulla pretesa sanzionatoria relativa all’affermata mancata presentazione del Modello 5 negli anni oggetto di interesse, posto che la sentenza impugnata ha ritenuto che l’avvocato S. avesse inviato i detti moduli, come sopra riferito, dunque, implicitamente, tale capo di domanda è stato rigettato e non omesso. 21. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo e con distrazione in favore dell’avvocato A. M. che ha reso la prescritta dichiarazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge con distrazione delle spese in favore dell’avvocato A. M Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.