Gli indumenti di lavoro senza funzione protettiva non sono oggetto di specifico obbligo di lavaggio da parte del datore

Respinte le richieste risarcitorie di alcuni lavoratori commisurate al costo del lavaggio degli indumenti da lavoro forniti dall’azienda, poiché, in base alle risultanze di apposita c.t.u., essi non avevano la funzione di proteggerli da uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza ovvero la salute durante il lavoro.

Questa la decisione della Suprema Corte n. 21662/19, depositata il 23 agosto. La vicenda. La Corte d’Appello di Venezia riformava parzialmente la decisione emessa in sede di primo grado di giudizio, con cui erano state respinte le domande degli attori finalizzate ad ottenere il risarcimento dei danni commisurati al costo del lavaggio degli indumenti da lavoro forniti dall’azienda con asserite funzioni di DPI dispositivi di protezione individuale . La Corte accoglieva solo per alcuni attori le domande, mentre per il resto le respingeva, ritenendo che dovesse per questi ultimi escludersi il carattere di DPI degli indumenti forniti. Gli appellanti esclusi”, dunque, decidono di proporre ricorso per cassazione. La funzione degli indumenti da lavoro forniti dall’azienda. Va evidenziato, in via preliminare, che il Giudice di merito aveva disposto apposita c.t.u. al fine di stabilire le mansioni dei singoli appellanti, per accertarne il concreto rischio di cui all’art. 40 d.lgs. n. 626/1994, al termine della quale veniva accertato che le tute in dotazione non erano destinate in modo specifico alla protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, bensì allo scopo di tutelarli da un rischio generico di imbrattamento. Con riguardo alle suddette osservazioni, la Corte di Cassazione disattende le doglianze dei ricorrenti, rilevando che in materia di tutela delle condizioni di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro, non rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dall’art. 40 d.lgs. n. 626/1994, le tute, di stoffa o monouso, fornite dal datore di lavoro, quando esse, per la loro consistenza, svolgono esclusivamente la funzione di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all’espletamento dell’attività lavorativa, e non anche quella [] di proteggere il lavoratore contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, sicché rispetto ad esse non è configurabile, in mancanza di specifiche previsioni contrattuali, un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di sistematico lavaggio Alla luce di quanto esposto, gli Ermellini respingono il ricorso dei lavoratori.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 4 dicembre 2018 – 23 agosto 2019, n. 21662 Presidente Bronzini – Relatore De Gregorio Fatto e diritto LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore, OSSERVA quanto segue. La Corte d’Appello di Venezia con sentenza del sei febbraio dieci maggio 2014, in parziale riforma dell’impugnata pronuncia, emessa dal locale giudice del lavoro -che aveva rigettato le domande degli attori, volte ad ottenere il risarcimento dei danni commisurati al costo del lavaggio degli indumenti da lavoro, forniti dall’azienda, con asserite funzioni di dispositivi di protezione individuale D.P.I., da qui in avanti brevemente indicati come DPI accoglieva per alcuni attori le domande e limitatamente a determinati archi temporali, con la condanna della convenuta appellata S.p.a. VERITAS al pagamento in favore dei predetti della somma mensile di 15,00 Euro, oltre accessori di legge, mentre per il resto le domande venivano respinte, sia per l’intervenuta prescrizione di tutti i diritti azionati, riferiti al periodo anteriore al febbraio dell’anno 1991, sia perché doveva escludersi il carattere di DPI degli indumenti forniti agli altri appellanti. La Corte veneziana, inoltre, rigettava anche il motivo di appello incidentale, con il quale la società aveva reiterato l’eccezione di duplice giudicato di cui alle precedenti sentenze nn. 396/2002 e 660/2004, pronunciate dal Tribune della stressa città lagunare, poiché tali pronunce si erano limitate a dichiarare la nullità dei rispettivi atti introduttivi dei due giudizi per difetto della editctio actionis, donde la loro inidoneità alla formazione di giudicato in senso sostanziale rispetto alle successive domande proposte con separato ulteriore ricorso, respinto poi nel merito dalla sentenza n. 39 in data 20 gennaio / 31 marzo 2010, in seguito appellata e parzialmente quindi riformata dalla pronuncia de qua. Per quanto qui più direttamente interessa, la Corte territoriale aveva disposto c.t.u. per stabilire le mansioni dei vari singoli appellanti al fine di accertare il concreto rischio D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 40. La consulenza, secondo la sentenza d’appello, accertava in base alla prodotta documentazione, le specifiche mansioni inerenti a ciascun appellante, e rilevava che in generale le tute in dotazione non erano destinate specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori, avendo soltanto lo scopo di tutelarli da un rischio generico di imbrattamento, con l’eccezione tuttavia per l’abbigliamento fornito agli operatori addetti ad interventi sulle tubazioni in cemento-amianto e a quelli adibiti dal 1997 alla rete con indumenti ad alta visibilità eccezioni non riguardanti, invece, i lavoratori in parte qua rimasti soccombenti . Di conseguenza, recepite le risultanze della c.t.u., secondo la Corte di merito solo per questi casi, eccezionali, era ipotizzabile la rilevanza di pertinenti DPI, con conseguente fondatezza della pretesa risarcitoria, da inadempimento contrattuale, per il mancato lavaggio nei limiti temporali considerati. Per gli altri lavoratori, invece, le domande andavano rigettate. Avverso la sentenza d’appello hanno quindi proposto ricorso per cassazione AN.Al. egli altri 41 lavoratori nominati in epigrafe, come da atto in data sei novembre 2014 notificato alla destinataria a mezzo posta il successivo giorno sette , affidato ad un solo articolato motivo, cui ha resistito VERITAS S.p.a. mediante controricorso del 16 / 17 dicembre 2014 , in seguito illustrato da memoria CONSIDERATO che con l’anzidetto motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 43, e del D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 377 379, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omesso esame in ordine ad alcuni aspetti della c.t.u., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, censurando la parte dell’impugnata sentenza, che non aveva esteso il diritto al risarcimento dei costi, sostenuti per il lavaggio degli indumenti utilizzati da essi lavoratori sino al 31 luglio 2000, a tutti gli interessati, essendo stato limitato ai soli addetti alla rete, che eseguivano interventi sulle tubazioni di cemento-amianto, e agli addetti che utilizzavano indumenti ad alta visibilità e operavano al di fuori del centro storico. Infatti, secondo i ricorrenti, in base alla succitata normativa di cui al D.Lgs. n. 626 e al D.P.R. n. 547, qualsiasi indumento utilizzato dai lavoratori, per il solo fatto di essere indossato durante un’attività a rischio di contatto con agenti patogeni, dovrebbe costituire DPI a prescindere dalle caratteristiche e dalla qualità di protezione intrinseche dell’indumento stesso. La stessa Corte d’Appello aveva chiesto al c.t.u. di valutare se le mansioni svolte fossero in grado di esporre i lavoratori istanti ad un rischio specifico di compromissione della salute, tenendo conto dell’abbigliamento di lavoro in considerazione delle mansioni svolte. Il consulente incaricato, prof. B. , aveva risposto, quindi al quesito, nel senso, secondo i ricorrenti, che essi risultavano esposti a differenti e spesso contemporanei tipi di rischio riguardo ai quali avevano in dotazione diversi strumenti di protezione e che con questi strumenti avevano anche in dotazione le tute da lavoro. Aveva, pertanto, errato la Corte territoriale, laddove aveva ritenuto che l’abbigliamento da lavoro in dotazione alle diverse mansioni non era destinato specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma che aveva semplicemente lo scopo di proteggere da un rischio generico d’imbrattamento. Ma proprio attraverso l’imbrattamento i lavoratori correvano il più alto rischio di contrarre malattie gli indumenti, pertanto, sebbene non aventi la funzione specifica di protezione della salute, di fatto la svolgevano perché erano gli unici forniti dal datore di lavoro. Dunque, necessariamente le tute da lavoro non potevano non avere funzione protettiva, oltre a quella distintiva. Gli indumenti forniti, quindi, potevano risultare non adeguati a fornire adeguata tutela, ma dovevano essere senza dubbio considerati come attrezzature destinate ad essere indossate e tenute dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro. Non si trattava di un rischio ipotetico, dettato dalle particolari tipologie di una giornata lavorativa, ma di costante quotidianità, stante il contatto non solo con tubazioni di cemento / amianto, ma anche con agenti imbrattanti patogeni di varia natura. Il contatto con agenti imbrattanti, pertanto, secondo i ricorrenti, era costante e non limitato ai momenti in cui venivano indossati i DPI. Era erroneo il ragionamento volto a sostenere che un indumento, solo perché destinato a comune e generica funzione protettiva, dovesse essere classificato come ordinario indumento da lavoro e perciò cessasse di costituire dispositivo di protezione individuale, con conseguente onere di tenuta e lavaggio a carico di parte datoriale. Diversamente opinando, si giungerebbe a conclusioni inaccettabili, che vanificherebbero la portata della norma. Al datore di lavoro, infatti, basterebbe soltanto fornire indumenti ordinari affinché gli stessi, inidonei a fornire la protezione necessaria, possano considerarsi esclusi dal novero dei dispositivi individuali di sicurezza, con conseguente esonero del datore di lavoro dal connesso obbligo di provvedere al lavaggio dei medesimi le anzidette doglianze vanno disattese in base alle seguenti ragioni, tenuto conto soprattutto di quanto accertato e valutato, con adeguate argomentazioni, dalla competente Corte di merito, peraltro senza errori in punto di diritto, come pure riconosciuto in effetti anche a pagine 19 / 20 dello stesso ricorso Correttamente la Corte d’Appello di Venezia ha preso le mosse dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40, il quale al comma 1 recita Il giudice di secondo grado ha anche giustamente evidenziato che il legislatore al comma 2 esclude esplicitamente dai dispositivi di protezione individuale gli indumenti non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori con la conseguente necessità di accertare se l’abbigliamento da lavoro in dotazione fosse destinato a proteggere i lavoratori da un rischio specifico di compromissione della salute avendo riguardo alle mansioni lavorative svolte. Ciò in quanto, solo gli indumenti con tale finalità comportano l’obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla manutenzione e all’igiene D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 43 Sulla base di tali premesse la Corte d’Appello ha disposto una c. t. u. volta ad accertare se le mansioni svolte dai singoli lavoratori appellanti siano state tali da esporli ad un rischio specifico di contaminazione La valutazione circa l’idoneità o meno degli indumenti a costituire dispositivi di protezione sembra seguire il seguente iter logico Una volta stabilito che per il tipo di mansione svolta il lavoratore è esposto ad un rischio di contaminazione, la conseguenza naturale non può che essere che l’indumento utilizzato nell’esecuzione della predetta mansione deve essere considerato alla stregua di un dispositivo di protezione individuale peraltro, il ricorso appare carente nelle enunciazioni di quanto acquisito in istruttoria non risultano riprodotti i documenti e i verbali delle prove assunte nei distinti procedimenti nn. 243/04 e 185/05, solo menzionati a pag. 11 del ricorso, ed analogamente dicasi per il verbale di accordo sindacale in data 21 aprile 1997, appena citato a pag. 13 dello stesso ricorso per cassazione, parimenti riguardo ai motivi di appello, anch’essi non riprodotti, ma sommariamente riassunti, laddove in effetti analogamente non sono stati riportati i 32 capitoli di prova, volti a dimostrare le mansioni svolte dai lavoratori ed i compiti che li ponevano quotidianamente in contatto con gli agenti patogeni. Nemmeno è stata integralmente riprodotta la relazione di c.t.u. disposta ed espletata in appello, della quale si lamenta però anche l’omesso esame di alcuni aspetti ex art. 360 c.p.c., n. 5 , con conseguenti inammissibilità a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 inoltre, non risulta alcuna precisa confutazione in diritto circa eventuali specifici errori in proposito commessi dalla Corte distrettuale nell’esaminare la portata dell’anzidetta normativa, la cui violazione appare dunque genericamente dedotta dai ricorrenti, i quali invero non hanno precisato alcun errore d’interpretazione, così come nemmeno alcuna palese irrazionalità o illogicità risulta specificamente denunciata dai ricorrenti in ordine al ragionamento decisorio seguito dalla Corte di merito, la quale anzi si è preoccupata di accertare fatti e mansioni con apposita c.t.u., all’esito della quale le domande sono state motivatamente e distintamente accolte, o rigettate, con riferimento alle singole posizioni individuali ed in relazione ai diversi rispettivi periodi di tempo però sulla base e nei limiti degli elementi probatori offerti dalle parti e perciò senza svolgere attività esplorative, cfr. pag. 6 della sentenza qui impugnata, mentre nella successiva pagina 7 si precisava che le mansioni svolte da ciascun appellante risultavano dal documento n. 10 da loro già prodotto in primo grado e dal documento n. 5 depositato dalla società convenuta resistente, sicché il c.t.u. aveva potuto individuare e analizzare le diverse posizioni lavorative in relazione alle varie mansioni svolte da ogni attore, distinguendo gli operatori di rete, gli addetti all’officina, quelli al magazzino ed ancora i lavoratori degli impianti di acqua potabile. Di conseguenza, il c.t.u. aveva svolto indagine esauriente con metodo scientificamente corretto, giungendo a conclusioni che non erano state in alcun modo contestate dalle parti , nel senso che l’abbigliamento da lavoro in dotazione agli addetti alle diverse mansioni non era destinato a proteggere specificamente la salute e la sicurezza dei lavoratori, avendo semplicemente lo scopo di proteggere da un rischio generico di imbrattamento, poiché non aveva alcuna capacità di protezione dagli agenti chimici o biologici in caso di contaminazione accidentale, non potendo costituire barriera efficace contro tali agenti pericolosi. Il consulente, tuttavia, aveva evidenziato che facevano eccezione e dovevano essere considerati alla stregua di DPI le tute utilizzate da coloro che eseguivano interventi sulle tubazioni in cemento-amianto, perciò dai lavorati che non operavano nel centro storico di Venezia -dove non vi erano tubazioni di tale materiale fino all’aprile 1992, quando vennero fornite tute usa e getta per l’esecuzione di tali operazioni. Il c.t.u., altresì, aveva evidenziato che facevano eccezione e dovevano, quindi, essere considerati DPI gli indumenti ad alta visibilità forniti agli addetti alla rete dal 1997, trattandosi di indumenti fosforescenti con il compito specifico di proteggere dal rischio d’investimento stradale per gli operanti sulla rete, ma con esclusione di quelli assegnati al centro storico di Venezia, dove non vi era traffico veicolare, peraltro fino al settembre dell’anno 2000, poiché in data 29-09-2000 -in base a quanto pure si legge a pag. 9 della sentenza de qua era stato concluso accordo di lavaggio degli indumenti, come attestato dalla medesima società, di guisa che la domanda doveva intendersi come riferita all’intero periodo in cui era stato eseguito il lavaggio casalingo, sicché i predetti lavoratori avevano diritto al risarcimento del danno per l’inadempimento, contrattuale di parte datoriale, in ordine all’obbligo di provvedere alla manutenzione dei DPI d’altro canto, alle pagine 16 e 17 del ricorso per cassazione, sono riportate le seguenti conclusioni del c.t.u., che nemmeno appaiono incompatibili, secondo la citata sentenza, con quanto sopra riferito le mansioni svolte dagli appellanti, , sono state tali da esporre i lavoratori ad un rischio specifico di compromissione della salute ed in particolare proteggersi dai quali disponevano di specifici dispositivi di protezione individuale. L’abbigliamento in dotazione le tute da lavoro non era invece destinato specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori, avendo semplicemente lo scopo di proteggere da un rischio generico di imbrattamento in quanto per sua natura non poteva costituire una barriera efficace fanno però eccezione al riguardo gli indumenti supplementari ad alta visibilità forniti agli addetti a partire dal 1997 e le tute da lavoro utilizzate da coloro che eseguivano non nel centro storico di Venezia interventi sulle tubazioni in cemento amianto fino a che dall’aprile 1992 sono state fornite per l’esecuzione di Queste operazioni tute usa e getta , che invece vanno considerati alla stregua di dispositivi di protezione individuale pertanto, non residuano in questa sede di legittimità, spazi d’intervento per sindacare quanto accertato e valutato in punto di fatto dalla Corte di merito, che peraltro non risulta aver omesso nel suo esame circostanze utili e decisive, rilevanti nei sensi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 secondo il testo vigente, in relazione alla sentenza de qua risalente all’anno 2014 , con motivazione non inferiore al c.d. minimo costituzionale nei sensi indicati da Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014 e successiva conforme giurisprudenza di questa S.C. , immune inoltre da errori di diritto in proposito v. in part. Cass. lav. n. 2625 del 5/2/2014, secondo cui in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, non rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dalla L. 19 settembre 1994, n. 626, art. 40, le tute, di stoffa o monouso, fornite dal datore di lavoro, quando esse, per la loro consistenza, svolgono esclusivamente la funzione di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all’espletamento dell’attività lavorativa, e non anche quella pur astrattamente configurabile di proteggere il lavoratore contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, sicché rispetto ad esse non è configurabile, in mancanza di specifiche previsioni contrattuali, un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di sistematico lavaggio il ricorso, dunque, va rigettato, con conseguente condanna dei soccombenti al rimborso delle relative spese, ricorrendo, inoltre, le condizioni di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, atteso l’esito del tutto negativo della proposta impugnazione. P.Q.M. la Corte RIGETTA il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle relative spese, che liquida a favore della società controricorrente in complessivi Euro 6000,00 per compensi professionali ed in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.