I mancati stipendi scatenano la rabbia del lavoratore: niente licenziamento per le frasi volgari rivolte al presidente della cooperativa

Eccessivo, e quindi illegittimo, secondo i Giudici, il provvedimento adottato dall’azienda. L’episodio incriminato va ridimensionato le frasi volgari pronunciate non erano né minacciose né ingiuriose. Rilevante anche il collegamento col fatto che il lavoratore protestava per il mancato percepimento delle retribuzioni.

Sfogo verbale del lavoratore che, rabbioso per il mancato percepimento delle retribuzioni, si rivolge in malo modo nei confronti del presidente della cooperativa. Episodio censurabile, ovvio, ma non così grave, secondo i giudici, da giustificare il licenziamento Cassazione, sentenza n. 21549/19, sez. Lavoro, depositata oggi . Frasi. Chiara la visione della società datrice di lavoro l’episodio incriminato, cioè il fatto che il dipendente abbia rivolto frasi ingiuriose e minacciose nei confronti del presidente della cooperativa , è così grave da spingere all’allontanamento definitivo del lavoratore. Di parere opposto, però, sono i Giudici di merito, che prima in Tribunale e poi in Appello dichiarano l’illegittimità del licenziamento. In particolare, in secondo grado viene escluso che la reazione del lavoratore, avuta al cospetto del presidente, dal tono apparentemente intimidatorio, avesse carattere di minaccia, per quanto le parole usate in dialetto fossero volgari ed animate ma non ingiuriose e dunque non idonee ad essere univocamente considerate come potenzialmente funzionali a limitare la libertà morale del presidente . Allo stesso tempo, i giudici ritengono che le parole usate – ca dentro mi sto zitto, ma fuori parliamo da pari a pari” – neanche potevano concretare gravi atti di insubordinazione poiché le espressioni provenivano da un lavoratore che protestava per il mancato pagamento delle retribuzioni . Inadempimento. In sostanza, tra primo e secondo grado viene ritenuta evidente la sproporzione - e quindi l’illegittimità – del licenziamento deciso dalla società datrice di lavoro. E questa visione è condivisa anche dai giudici della Cassazione, che respingono difatti il ricorso proposto dai legali della cooperativa, ricorso finalizzato a porre in evidenza la presunta gravità del comportamento tenuto dal lavoratore. Per i magistrati del ‘Palazzaccio’ si è correttamente escluso che la condotta del lavoratore fosse tale da incutere timore , soprattutto perché le frasi volgari proferite ed indirizzate al presidente della cooperativa non avevano carattere minaccioso o ingiurioso , né potevano essere comunque ricondotte all’ipotesi di illecito disciplinare di grave insubordinazione nei confronti del datore di lavoro. Peraltro, va osservato che, comunque, è evidente anche l’esistenza di una correlazione tra il comportamento tenuto dall’uomo con il persistente inadempimento retributivo della società nei confronti del lavoratore .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 aprile – 21 agosto 2019, numero 21549 Presidente Nobile – Relatore Curcio Fatti di causa 1. Con sentenza del 30.8.2017 la corte d'appello di Catanzaro in sede di giudizio di rinvio ha accolto parzialmente il gravame della società Coopmar Soc. Cooperativa avverso la sentenza del Tribunale di Palmi del 1.7.2011 soltanto in punto riduzione del risarcimento del danno liquidato all'appellato Sa. Ca., confermando l'illegittimità del licenziamento comunicato al lavoratore dalla società in data 3.5.2005 per giustificato motivo soggettivo, previa contestazione di aver proferito frasi ingiuriose e minacce nei confronti del Presidente della cooperativa. 2. In particolare la sentenza di primo grado era stata riformata dalla corte d'appello di Reggio Calabria con sentenza dell'8.2.2013 che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento. La corte di cassazione, con sentenza numero 6165/2016, ha accolto il quarto motivo di gravame del Ca. , ritenendo assorbiti gli altri, affermando il principio di diritto secondo cui a la pronuncia di espressioni sconvenienti non seguita dal passaggio a vie di fatto non realizza la fattispecie disciplinare di cui all'articolo 35 lettera a.bis del CCNL Porti, applicato in azienda, del diverbio litigioso o oltraggioso seguito da via di fatto avvenuto all'interno dell'Azienda b il datore di lavoro non può comminare la sanzione risolutiva quando questa costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL in relazione ad una determinata infrazione, c la gravità dell'infrazione non può ricavarsi unicamente dai precedenti disciplinari che costituiscono solo un parametro di valutazione che non può essere utilizzato per dare concretezza ad un addebito inidoneo ad integrare giusta causa o giustificato motivo di licenziamento . 3. Sulla base di tale principio la corte di rinvio, esaminate anche le questioni dichiarate assorbite dalla cassazione, ha escluso che la contestazione contenesse qualsiasi addebito collegato alla simulazione della malattia ed ha escluso altresì che la reazione del lavoratore, avuta al cospetto del Presidente , dal tono apparentemente intimidatorio, avesse carattere di minaccia, per quanto le parole usate in dialetto fossero volgari ed animate, ma non ingiuriose e dunque non idonee ad essere univocamente considerate come potenzialmente funzionali a limitare la libertà morale del presidente. 4. L'impugnata sentenza ha poi rilevato che le parole usate neanche potevano concretare gravi atti di insubordinazione , come richiede la contrattazione collettiva , atteso che le espressioni provenivano da un lavoratore che protestava per il mancato pagamento delle retribuzioni. 5. E' stato infine escluso che si potesse tener conto della caratura criminale del dipendente emersa grazie all'arresto avvenuto nel 2013, a distanza di 8 anni dal licenziamento, stante l'inidoneità dei crimini commessi a qualificare retrospettivamente la condotta sanzionata con tale provvedimento. 6. La corte ha quindi confermato l'illegittimità per sproporzione del licenziamento, accogliendo l'appello solo con riferimento alla riduzione del risarcimento, non dovuto per il periodo relativo alla carcerazione. 7. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Coopmar affidato ad un solo articolato motivo, a cui ha opposto difese il Ca. con controricorso, atti illustrati poi da memorie ex articolo 378 c.p.c. Ragioni della decisione 8. Con l'unico motivo di gravame la Coopmar deduce la violazione dell'articolo 612 c.p. , degli artt. 2016 e 2119 c.c., degli artt. 1 e 3 legge numero 604/66 e dell'articolo 35 del CCNL Porti del 2001 avrebbe errato la corte di rinvio ritenendo che le frasi proferite dal Ca. non integrassero gli estremi oggettivi del delitto di minacce , in quanto non contenenti alcuna prospettazione di un male ingiusto nel confronti del rappresentante dell'azienda debitrice. Secondo la ricorrente tale argomentazione contrasterebbe con la consolidata interpretazione della norma penale e comunque la corte non avrebbe tenuto conto oltre che del contenuto minaccioso delle frasi , ora mi stai facendo nchianari i cazzi ed ancora ca dentro mi sto zitto , ma fuori parliamo da pari a pari , anche del contesto in cui le stesse erano state proferite, dello stato di alterazione del lavoratore e della violenza verbale con cui aveva zittito il dirigente. 9. Inoltre, e soprattutto, la corte di rinvio non aveva tenuto conto di tutta la documentazione prodotta dalla difesa dello stesso Ca. relativa ai procedimenti penali a cui questi era stato sottoposto le armi e la droga rinvenute in casa a seguito di una perquisizione e che evidenziavano la pericolosità del soggetto collegato ad ambienti della criminalità organizzata. La corte distrettuale avrebbe quindi dovuto comprendere la particolare valenza dei toni minacciosi usati dal dipendente e non avrebbe dovuto adottare un'interpretazione così riduttiva del reato di cui all'articolo 612 c.p.c. errando poi anche nell'affermare che al giudice non è consentito di convertire il licenziamento per giusta causa senza preavviso in un licenziamento per g.m.s. con preavviso , essendo riservata al datore di lavoro la potestà di infliggere la sanzione ai sensi dell'articolo 2106 c.c., potendo solo il datore di lavoro applicare una sanzione più lieve di quella prevista dal codice disciplinare in presenza di un'infrazione rientrante in una fattispecie che prevede una sanzione più grave. 10. Pertanto nel caso in esame il giudice era chiamato non ad operare una conversione del licenziamento intimato per giustificato motivo in licenziamento per giusta causa, ma soltanto a verificare la sussistenza dei fatti contestati e la corrispondenza degli stessi ad una sanzione estintiva del rapporto. 11. Il motivo non merita accoglimento. Va premesso che la sentenza rescindente numero 6165 del 2016, in accoglimento del quarto motivo, ritenuto potenzialmente decisivo, ha affermato il principio di diritto prima riportato, concentrandosi sull'ipotesi di cui all'articolo 35 lett.a bis del CCNL che fa riferimento alla condotta inadempiente costituita dal diverbio litigioso seguito da vie di fatto ed ha invece ritenuto assorbiti gli altri quattro motivi, svolti dalla ricorrente società. 12. La corte di merito in sede di rinvio ha pertanto correttamente analizzato tali ulteriori censure, essendo obbligata a pronunciarsi sulle stesse, in quanto espressamente riproposte dalla Coopmar in tale giudizio cfr sul punto Cass. numero 19015/2010, Cass. numero 30184/2018 . 13. Con il presente ricorso, tuttavia, la società ricorrente finisce in realtà per richiedere una nuova valutazione dei fatti, rispetto a quello effettuato dalla corte distrettuale, operazione che è preclusa in questa sede ed infatti come più volte statuito da questa corte il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l'apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, cfr Cass. numero 7921/2011, Cass. 9097/2017 . 14. In sostanza la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia escluso il tenore minaccioso delle frasi proferite dal lavoratore non individuando in esse la condotta criminosa prevista e punita dall'articolo 612 c.p.c. pur avendo appreso dalla documentazione in atti, tra cui la sentenza penale del 2014, quale fosse lo spessore criminale del Ca., condannato per possesso di armi da guerra e per ricettazione. 15. Tuttavia la corte distrettuale ha escluso che la condotta del lavoratore fosse tale da incutere timore, esaminando tutti gli elementi fattuali indicati nella lettera di contestazione, ossia le frasi proferite ed indirizzate al presidente della cooperativa, non ravvisando il carattere minaccioso o ingiurioso non solo in termini di reato, ma anche escludendo che tale condotta potesse essere comunque ricondotta all' ipotesi di illecito disciplinare di grave insubordinazione, prevista dalla contrattazione collettiva. La sentenza ha altresì evidenziato l'esistenza di una correlazione tra il comportamento tenuto dal Ca. con il persistente inadempimento retributivo j della società nei confronti del lavoratore. 16 Deve infatti rilevarsi che ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare, irrogato per un fatto che astrattamente può configurare una ipotesi di reato, la valutazione della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa, come anche di giustificato motivo soggettivo, deve esser comunque compiuta alla stregua della ratio dell'articolo 2119 c.c. o dell'articolo 3 legge numero 604/1966 e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, come delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, così che lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali cfr. Cass. numero 12163/1997, Cass. 20731/2007 , Cass. numero 37/2011 . 18 Nel caso in esame, inoltre , la società datrice di lavoro ha ritenuto di comminare la sanzione disciplinare espulsiva, ma di fatto valutando la condotta contestata quale notevole inadempimento, sanzionandola con il licenziamento con preavviso ai sensi dell'articolo 3 citato, non risultando peraltro richiamata, nella lettera di contestazione trascritta in ricorso, la specifica ipotesi di licenziamento per giusta causa prevista dall'articolo 35 lett.b del CCNL lavoratori dei porti, che contempla espressamente condotte concretatesi nel compimento di azioni che costituiscono delitto a termini di legge , fattispecie a cui la società si richiama solo nel motivo di gravame. 19 Deve pertanto escludersi che la corte territoriale abbia fatto malgoverno dell'interpretazione dell'articolo 612 c.p. e del concetto di minaccia non ravvisandone la sussistenza e , conseguentemente, non ravvisando neanche l'esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento. Va infatti ribadito che comunque il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da effettiva e non apparente motivazione. 20 Inammissibile deve poi ritenersi l'articolato motivo nella parte in cui censura la sentenza per non avere la corte tenuto conto della caratura criminale del lavoratore condannato per gravi reati con sentenza penale del 2013 poi divenuta irrevocabile, e dunque del maggiore carattere intimidatorio delle frasi e del comportamento tenuto dal Ca. in sede di colloquio con il presidente della cooperativa. La doglianza infatti è priva di specificità, atteso che viene ricondotta pur sempre alla violazione di legge ai sensi dell'articolo 360 c.1, numero 3 c.p.c., sebbene non sia indicata quale norma di legge o del contratto collettivo nazionale abbia violato la corte distrettuale nell'escludere, anche per ragioni temporali, che tale aspetto potesse comprovare e comunque avvalorare la valenza intimidatoria della condotta tenuta nel 2005, epoca del licenziamento. Si tratta invero di un'argomentazione che in realtà tende a censurare l'iter motivazionale della sentenza impugnata sostanzialmente denunciandone, in maniera inammissibile, una contraddittorietà. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con condanna della società soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater D.P.R. numero 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.