In caso di soppressione della posizione lavorativa non è possibile privare il dipendente delle mansioni

Posto che, in caso di soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente, quest’ultimo possa essere ricollocato o, su accordo, demansionato, laddove nell’organigramma aziendale non ci siano mansioni inferiori da colmare, ciò giustifica il licenziamento ma non la privazione delle mansioni.

Così si è pronunciata la Cassazione con l’ordinanza n. 10023/19, depositata il 10 aprile. Dipendente privato delle mansioni. La Corte d’Appello confermava la decisone del Tribunale che aveva condannato una società datrice di lavoro a risarcire il dipendente per il danno patrimoniale e non patrimoniale derivatogli dalla privazione delle mansioni avvenuta per il periodo precedente il licenziamento. Avverso la decisione della Corte territoriale la società ha proposto ricorso in Cassazione, deducendo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., per avere la sentenza impugnata errato nell’affermare che il demansionamento costituisce atto illecito anche nel periodo in cui le parti, a seguito della soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente, cerchino con quest’ultimo un accordo per la conservazione del rapporto. La privazione delle mansioni non è alternativa al demansionamento. La Corte rileva che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente obbliga il datore all’assegnazione al lavoratore di altre mansioni professionalmente equivalenti disponibili nell’azienda nonché, previo consenso del lavoratore, anche di mansioni che abbiano un contenuto professionale inferiore. Laddove non ci fosse la possibilità di assolvere al suddetto obbligo di repechage , allora verrebbe integrato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. La privazione totale delle mansioni, invece, non può essere una alternativa al licenziamento. Nel caso concreto, i Giudici rilevano che dagli atti del giudizio non risulta nell’organigramma aziendale la disponibilità di mansioni inferiori da colmare e neppure una proposta concreta al lavoratore con i relativi modi di svolgimento di quanto deciso nella trattativa. Posto che l’impossibilità di ricevere la prestazione può essere causa di risoluzione del rapporto ma non di esecuzione dello stesso in violazione dei diritti del dipendente, la Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - L, ordinanza 8 gennaio – 10 aprile 2019, n. 10023 Presidente Doronzo – Relatore Spena Rilevato che con sentenza del 21 marzo 2017 numero 10729 la Corte d’Appello di Roma, per quanto ancora in discussione, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva condannato la società COTRAL - COMPAGNIA TRASPORTI LAZIALI in prosieguo COTRAL spa a risarcire il dipendente S.C. per il danno, patrimoniale e non patrimoniale, derivatogli dalla privazione delle mansioni, avvenuta dal luglio 2005 fino al licenziamento che a fondamento della decisione la Corte territoriale riteneva non fondata la deduzione dell’appellante COTRAL spa secondo cui il mantenimento del rapporto di lavoro era avvenuto esclusivamente nell’interesse del lavoratore, in quanto a seguito della soppressione della posizione lavorativa da questi rivestita nella organizzazione aziendale giornalista addetto all’ufficio stampa il rapporto si era svolto al solo fine di cercare una soluzione concordata, che potesse preservarne l’occupazione. Sul punto il giudice dell’appello osservava che il datore di lavoro poteva legittimamente porre fine al rapporto di lavoro a fronte di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ma che, ove non avesse esercitato tale potestà, non poteva mantenere in vita un rapporto nel quale la professionalità del lavoratore fosse pregiudicata dalla totale assenza di mansioni. La disciplina delle mansioni all’epoca vigente avrebbe consentito l’attribuzione al lavoratore, con il suo consenso, di mansioni inferiori - quando tale scelta fosse stata l’unica in grado di preservare l’occupazione - ma non il mantenimento di un rapporto svuotato totalmente di contenuto professionale che avverso la sentenza ha proposto ricorso COTRAL SpA, articolato in un unico motivo, cui ha opposto difese S.C. con controricorso che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti -unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio - ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. che le parti hanno depositato memoria. Considerato che con l’unico motivo la parte ricorrente ha dedotto - ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, - violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato che il demansionamento costituisce atto illecito anche nel periodo in cui le parti, dopo la soppressione del posto di lavoro, cercano di raggiungere un accordo per la conservazione del rapporto. La società, premesso che per costante orientamento di questa Corte è legittimo il patto di modificazione delle mansioni diretto ad evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha assunto che per il periodo della relativa trattativa non è illecito il totale demansionamento. Nella fattispecie di causa esso era dovuto alla soppressione del posto occupato dal lavoratore, unico giornalista dipendente dell’azienda la trattativa era stata lunga sia perché ciascuna delle parti doveva valutare le proposte dell’altra sia perché il lavoratore era stato per diversi periodi assente per malattia. La conservazione del rapporto di lavoro era stata vantaggiosa per il lavoratore sicché la società non aveva commesso alcun illecito che ritiene il Collegio si debba respingere il ricorso che, invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la soppressione della posizione lavorativa occupata dal dipendente obbliga il datare di lavoro alla assegnazione al lavoratore di altre mansioni professionalmente equivalenti - ove disponibili nella organizzazione aziendale - nonché- previo consenso di quest’ultimo - anche di mansioni di contenuto professionale inferiore cd. patto di demansionamento . La eventuale impossibilità di assolvere al suddetto obbligo di repechage costituisce elemento integrativo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento in termini Cass. sez. lav. 2 maggio 2018 n. 10453 . La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063 resa in fattispecie di sostanziale privazione di mansioni in un rapporto di pubblico impiego privatizzato , non può essere invece una alternativa al licenziamento. Parte ricorrente assume, da un canto, che la privazione delle mansioni era avvenuta in pendenza della trattativa per il patto di modificazione delle mansioni ed, in memoria, che sussisterebbe una ipotesi di impossibilità a ricevere la prestazione e non già una fattispecie di demansionamento. Sotto il primo profilo - premesso che della necessità di un accordo può parlarsi soltanto in relazione ad una eventuale possibilità di assegnazione a mansioni inferiori - la parte ricorrente non indica da quali atti del giudizio di merito risulterebbe la disponibilità nella organizzazione aziendale di mansioni inferiori, la loro proposta al dipendente ed i modi di svolgimento della successiva trattativa per la conservazione del posto di lavoro. Sicché la censura risulta priva di decisività. Quanto all’assunta impossibilità di ricevere la prestazione, la Corte territoriale ha correttamente osservato, in coerenza con i principi qui ribaditi, che essa può essere causa di risoluzione del rapporto di lavoro e non già di esecuzione dello stesso in violazione dei diritti anche di rilievo costituzionale del lavoratore che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere respinto con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. che non vi è luogo a provvedere sulle spese del controricorso per mancanza della prova della sua notificazione, non essendo stato prodotto l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione postale che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater , - della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.