Nessuna prova della condizione ‘stressogena’. Esclusa l’ipotesi mobbing

Respinta la richiesta di risarcimento avanzata da un dipendente, ormai in pensione, di un Caf. Manca, secondo i Giudici, la prova che le singole condotte tenute dalla struttura abbiano avuto come obiettivo quello di emarginare e ledere il lavoratore.

Condotte discutibili, se valutate singolarmente, quelle adottate dal datore di lavoro nei confronti del dipendente. Allargando l’orizzonte, però, manca un fil rouge che le unisca e faccia emergere il mobbing – con condizioni stressogene – lamentato dal lavoratore, che, perciò, vede respinta la propria richiesta di risarcimento Cassazione, ordinanza n. 9664/19, sez. Lavoro, depositata il 5 aprile . Prova. Sotto i riflettori un Caf, citato in giudizio da un vecchio dipendente, ormai in pensione, per una presunta condotta mobbizzante . L’uomo punta ad ottenere un adeguato risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito nel periodo 1996-2004, risarcimento quantificato in poco più di 1.000 euro. Per i Giudici di merito, però, la richiesta è priva di fondamento, poiché manca la prova di una protratta e sistematica emarginazione del dipendente, mossa da un intento persecutorio, né di un suo demansionamento , viene spiegato in Appello. Tale decisione è confermata dalla Cassazione. Inutile il ricorso proposto dal legale del pensionato. Fondamentale l’osservazione secondo cui non vi è un elemento certo che possa far presumere che le singole condotte denunciate dal lavoratore fossero connotate da una sua emarginazione o da un intento persecutorio da parte del datore di lavoro . Di conseguenza, si può escludere che il comportamento datoriale sia stato caratterizzato da iniziative idonee a ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative ‘stressogene’ .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 13 dicembre 2018 – 5 aprile 2019, n. 9664 Presidente Nobile – Relatore Garri Rilevato che 1. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda proposta da Pi. Fr. nei confronti della datrice di lavoro CAF ACLI s.r.l. tesa ad ottenere la condanna della società al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, quantificato in Euro 1.056.512 in relazione alla condotta mobbizzante tenuta dal 1996 al 31.12.2004 data di collocamento in quiescenza oltre che la condanna al risarcimento del danno conseguente al mancato versamento dei contributi previdenziali dal 2004 in poi. 2. La Corte di merito ha accertato che non era stata raggiunta la prova di una protratta e sistematica emarginazione del dipendente, nel lungo periodo in considerazione, mossa da un intento persecutorio né di un demansionamento del lavoratore. Quanto alla domanda di risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 2116 cod. civ., il giudice di appello ha accertato che la convenuta aveva depositato, sin dal primo grado, documentazione attestante il pagamento dei contributi da riferire anche a soggetti diversi appartenenti al cd. sistema ACLI, tanto in vista della costituzione di una rendita ai sensi dell'articolo 13 della L. n. 1338 del 1962. Ha poi rilevato che nessuna contestazione era stata mossa al riguardo dal Fr. e che la sussistenza dei requisiti per la costituzione di una rendita ai sensi dell'articolo 13 citato esclude i presupposti per il risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 2116 cod. civ. azionato. 3. Per la cassazione della sentenza ricorre Pi. Fr. che articola due motivi ai quali resiste con controricorso il C.A.F. ACLI s.r.l. che ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell'articolo 380 bis 1. Cod. proc. civ Considerato che 4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata, in relazione all'articolo 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per avere la Corte di merito erroneamente ricostruito il contenuto delle deposizioni di alcuni dei testi escussi attribuendo agli stessi affermazioni mai pronunciate. In particolare il teste Fo., Direttore Generale del CAF ACLI in servizio fino al 2002, non avrebbe mai riferito di essere stato anch'egli assegnatario di un badge per la rilevazione delle presenze. Del pari il teste Ol. non avrebbe mai affermato che il trasferimento del Fr. nella sede di Viale Trastevere fosse coinciso con il trasferimento dell'intera struttura. L'errata ricostruzione del contenuto delle dichiarazioni testimoniali aventi ad oggetto circostanze decisive e di particolare rilievo, secondo il ricorrente, avrebbe viziato la sentenza in particolare se si tiene conto del fatto che il giudice di primo grado aveva limitato le prove articolate ed aveva poi erroneamente ricostruito il contenuto di quelle assunte. A tale erronea ricostruzione va aggiunta poi l'ulteriore errata indicazione della data del pensionamento del ricorrente da collocare nel 2012 e non, come affermato dalla sentenza nel 2004. 5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., degli artt. 1218 e 2087 cod. civ Ancora una volta il ricorrente censura, sotto tale diverso profilo, l'utilizzazione del materiale probatorio versato in giudizio ed il mancato ingresso dell'ampia prova testimoniale articolata. 6. Le censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate. 6.1. Con il primo motivo, pur essendo invocata una nullità della sentenza in relazione all'articolo 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ. nella sostanza il ricorrente si lamenta di una errata interpretazione da parte del giudice di appello delle dichiarazioni di alcuni dei testi escussi a suo avviso travisate nel contenuto. Ma di tali rilievi, solo in parte aderenti al contenuto delle dichiarazioni, riportate solo per stralcio, non è chiarita la decisività nel complesso della motivazione che tiene conto anche di altri elementi di fatto emersi nel corso dell'istruttoria e dai quali la Corte ha conclusivamente tratto il convincimento dell'insussistenza di una qual si voglia forma persecutoria o vessatoria. 6.2. Le medesime censure formulate nella diversa prospettiva della violazione di legge sono del pari inammissibili. 6.3. La sentenza della Corte territoriale non è incorsa infatti nella violazione delle disposizioni in tema di distribuzione dell'onere della prova 2697 cod. civ. . Premesso che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l'esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro cfr. Cass. 06/08/2014 n. 17698 21/05/2018 n. 12437 . La Corte territoriale esattamente applicando tale regola e sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite in giudizio ha escluso che fosse stata offerta la prova che le singole condotte denunciate fossero connotate da un'emarginazione o di un intento persecutorio del datore di lavoro, nella sostanza escludendo che il comportamento datoriale sia stato caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative stressogene . 6.4. Quanto al lamentato progressivo demansionamento la Corte territoriale ha seppur sinteticamente verificato che era mancata una allegazione puntuale delle mansioni svolte in precedenza sulla quale misurare il denunciato demansionamento ed ancora una volta si tratta di una valutazione riservata al giudice del merito delle allegazioni e poi delle prove. 6.5. Le censure nella sostanza si risolvono in una diversa valutazione del materiale probatorio che non è consentita a questa Corte. 7. In conclusione e per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'articolo 13 comma 1 bis del citato D.P.R P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 6.700,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'articolo 13 comma 1 bis del citato D.P.R