Patologia derivante da trauma post rapina avvenuta sul posto di lavoro: infortunio o malattia professionale?

Il disturbo post traumatico da stress derivante dall’esposizione a fattori traumatici estremi, come una rapina avvenuta sul posto di lavoro, deve essere inquadrato come infortunio sul lavoro e non come malattia professionale. La rapina, infatti, essendo un atto doloso compiuto da terzi, è configurabile come causa violenta e concentrata, potenzialmente dannosa per la salute di chi la subisce e cioè quale causa di infortunio del lavoratore.

Così la Cassazione con l’ordinanza n. 8301/19, depositata il 25 marzo. Rapina sul posto di lavoro. Il Tribunale accoglieva la domanda di una lavoratrice tesa alla corresponsione di un indennizzo pari al 10% di inabilità in conseguenza all’infortunio occorsole durante una rapina verificatasi mentre prestava servizio sul luogo di lavoro, da cui era derivato un trauma psico emotivo con disturbo post traumatico da stress. La decisione veniva impugnata dall’INAIL innanzi alla Corte d’Appello. Quest’ultima, dando atto che l’assicurata aveva proposto appello incidentale volto ad accertare un’inabilità del 15%, ha ritenuto fondata la doglianza dell’Istituto relativa all’inapplicabilità della normativa introdotta dal d.lgs. n. 38/2000 alla fattispecie, preso atto che si trattava di infortunio e non di malattia professionale, avvenuto peraltro in data anteriore rispetto all’entrata in vigore della disciplina di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000. Dunque, il 10% di inabilità non poteva essere ritenuto sufficiente per ottenere la prestazione economica richiesta, ricadendo la fattispecie nella disciplina del d.p.r. n. 1124/1965, che a tal fine richiedeva almeno l’11% di inabilità. Avverso tale decisione propone ricorso la lavoratrice lamentando l’errata qualificazione dell’evento in termini di infortunio e la consequenziale inapplicabilità dell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000. Configurabile l’infortunio sul lavoro. La Corte, ritenendo infondato il ricorso, richiama l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la nozione legale di causa violenza lavorativa comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell’ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi nel primo caso un infortunio sul lavoro o nel secondo caso una malattia professionale . Nel caso di specie, rilevano i Giudici, non ci sono dubbi sul fatto che la rapina, quale atto doloso compiuto da terzi, sia configurabile come causa violenta e concentrata, potenzialmente dannosa per la salute di chi la subisce, e cioè quale causa di infortunio ex art. 2 del t.u. n. 1124/1965, con ogni conseguenza derivante dall’introduzione dell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000. Inoltre, la non immediata percezione delle reali origini dello stato invalidante non rileva certamente nella qualificazione dell’evento come malattia professionale. Svolte le sopradette considerazioni, la Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 22 gennaio – 25 marzo 2019, n. 8301 Presidente D’Antonio - Relatore Calafiore Rilevato che Con sentenza n. 4483 del 2013, la Corte d’appello di Roma ha accolto l’appello proposto dall’INAIL nei confronti di B.A.M. avverso la sentenza del Tribunale di Civitavecchia che aveva accolto la domanda della stessa tesa alla corresponsione dell’indennizzo in capitale di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, pari al 10 % di inabilità in conseguenza dell’infortunio da cui era derivato un trauma psico emotivo con disturbo post traumatico da stress occorsole il omissis nel corso di una rapina effettuata all’interno dell’ambiente di lavoro la Corte, dando atto che l’assicurata aveva proposto appello incidentale tendente all’accertamento di un grado di inabilità pari al 15%, ha ritenuto fondata la doglianza dell’Istituto relativa alla inapplicabilità alla fattispecie della normativa introdotta dal D.Lgs. n. 38 del 2000, posto che si trattava di infortunio, e non di malattia professionale, avvenuto prima del 25 luglio 2000 ai sensi della L. n. 388 del 2000, art. 73, comma 3, per cui il 10% di inabilità non poteva ritenersi sufficiente ad ottenere la prestazione trattandosi di fattispecie ricadente nella previgente disciplina di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965 che richiedeva almeno l’11 % di inabilità inoltre, la Corte ha ritenuto corretta e condivisibile la c.t.u. medico legale espletata avverso tale sentenza ricorre per cassazione B.A.M. sulla base di tre motivi a violazione e o falsa applicazione del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 nonché dell’art. 137 t.u. n. 1124 del 1965 b omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio che si identifica nel momento in cui sono stati identificati gli agenti causali, le eventuali concause, l’epoca in cui è stata diagnosticata la malattia c motivazione apparente per aver troppo sinteticamente fatto mero rinvio alla c.t.u. resiste l’Inail con controricorso Considerato che il primo motivo di ricorso, con il quale sostanzialmente si censura la qualificazione dell’evento in termini di infortunio e la consequenziale affermata inapplicabilità ratione temporis della normativa introdotta dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, è infondato secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte cfr., per tutte, Cass. 26 maggio 2006 n. 12559 e numerose successive conformi , la nozione legale di causa violenta lavorativa comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell’ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi nel primo caso un infortunio sul lavoro o nel secondo una malattia professionale nel caso di specie, è indubbio che la rapina quale atto doloso del terzo si configuri come causa violenta e concentrata, potenziale generatrice di danni alla salute della vittima, e cioè quale causa di un infortunio ai sensi dell’art. 2 del tu. n. 1124 del 1965, con ogni conseguenza relativa all’applicazione del criterio di successione di legge derivante dalla introduzione del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 diversa rilevanza, peraltro, ha la considerazione di una eventuale non immediata percezione delle reali origini dello stato invalidante che potrebbe rilevare ad esempio quanto alla individuazione del dies a quo della prescrizione ex art. 112 del t.u. n. 1124 del 1965, ma non certo a determinare di per sé la qualificazione dell’evento in termini di malattia professionale il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi dalla critica alla motivazione della sentenza impugnata perché criptica e comunque basata sulla errata interpretazione della consulenza tecnica al fine della qualificazione dell’evento assicurato come malattia, sono infondati vale sottolineare che, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, costituisce motivo di ricorso per cassazione l’omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti v. l’interpretazione data dalle Sezioni unite della Corte con la sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 e numerose successive conformi e l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie in sede di legittimità non è data ora come del resto non era altrimenti data allora, vigente il testo precedente dell’art. 360 c.p.c., n. 5 la possibilità di censurare che la prova di un dato fatto sia stata tratta o negata dall’apprezzamento o dalla obliterazione di un determinato elemento istruttorio, atteso che una tale critica ha ad oggetto non già un fatto storico, ma l’attività di valutazione del corredo probatorio, che solo al giudice di merito compete nella specie, peraltro, le censure formulate al fine di censurare il giudizio sulla percentuale di inabilità accertata, comunque, non incrinano la decisione gravata per avere la parte evocato in modo del tutto generico la mancata considerazione di effetti impeditivi dello svolgimento delle mansioni di cassiera derivanti dallo stato di stress generato dalla rapina subita le doglianze svolte, nei termini in cui sono state illustrate dalla parte ricorrente, mirano ad una nuova complessiva disamina delle risultanze processuali, investendo la Corte di legittimità di questioni di merito, costituenti, peraltro, mero dissenso tecnico diagnostico, il cui esame è, per definizione, escluso in questa sede il ricorso va, dunque, rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità devono essere poste a carico della ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.