Le sanzioni contributive sono dovute solo se il licenziamento è nullo (o inefficace)

In tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento occorre distinguere, ai fini delle sanzioni previdenziali, tra la nullità o inefficacia del licenziamento, che è oggetto di una pronuncia dichiarativa, e l’annullabilità del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, che è oggetto di una sentenza costitutiva. Solo nel primo caso sono dovute dal datore di lavoro le sanzioni civili per omissione contributiva.

A ribadirlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 2019 depositata il 24 gennaio 2019. Il caso. La Corte di Appello di Roma rigettava l’impugnazione proposta da un datore di lavoro contro la pronuncia con cui il locale Tribunale aveva confermato la cartella esattoriale emessa dall’INPS, in relazione alle sanzioni civili dovute per omissione contributiva per il mancato versamento della contribuzione sociale dovuta rispetto ad una lavoratrice nel periodo 2003-2006. I Giudici di merito ritenevano che l’efficacia retroattiva della sentenza costitutiva di annullamento del licenziamento della lavoratrice, giudicato illegittimo, determinava la prosecuzione di diritto anche del rapporto previdenziale, con conseguente affermazione dell’obbligo contributivo oggetto della cartella opposta. Contro tale pronuncia la società ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando un unico motivo. La buona fede datoriale merita tutela. In particolare, ad avviso della ricorrente, era erronea la valutazione della Corte di merito circa la debenza delle sanzioni richieste dall’Istituto, atteso che l’obbligazione contributiva era venuta meno con la cessazione per licenziamento del rapporto e non poteva che risorgere solo all’atto del suo ripristino a seguito della sentenza che ordinava la reintegrazione della lavoratrice . Inoltre, nell’avviso della medesima ricorrente, sarebbe stato impossibile versare i contributi prima della sentenza che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, così come non poteva non tenersi conto del legittimo affidamento posto dalla parte datoriale sulla regolarità della decisione del primo Giudice che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento. Motivi che vengono condivisi dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, accoglie il ricorso. Le SS.UU. si sono recentemente espresse al riguardo. Rileva infatti la Corte come il tema oggetto di giudizio, oggi normato dalla vigente formulazione dell’art. 18 Stat. Lav., sia stato oggetto della pronuncia delle sue Sezioni Unite sentenza n. 19665/2014 le quali - dirimendo un contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità - statuivano il principio esposto in massima precisando altresì come, nell’ipotesi di accertamento della nullità o inefficacia del licenziamento, il datore di lavoro, oltre a ricostruire la posizione del lavoratore ora per allora”, deve pagare le sanzioni civili per omissione ex art. 116, comma 8, lett. a della legge n. 388/2000 , mentre nell’ipotesi di annullamento del recesso lo stesso datore di lavoro non è soggetto a tali sanzioni, trovando applicazione la comune disciplina della mora debendi ” nelle obbligazioni pecuniarie fermo che, per il periodo successivo all’ordine di reintegra, sussiste l’obbligo di versare i contributi periodici . In ogni caso si tratterebbe di una semplice omissione, non già di evasione contributiva. Inoltre, ribadisce la Corte, nell’ipotesi di nullità o inefficacia del licenziamento le sanzioni dovute sono comunque quelle relative alla fattispecie di omissione contributiva, e non già evasione, atteso che mancherebbe in ogni caso quella che l’art. 116 [.] qualifica come intenzione specifica di non versare i contributi” atteso che l’omissione contributiva è invece conseguenza della ritenuta, dal datore di lavoro legittimità del licenziamento . Nella specie il licenziamento era stato solo” annullato. Nel caso di specie risulta pacifico che il recesso comunicato alla lavoratrice fu annullato poiché illegittimo ragion per cui, considerando il suesposto principio di diritto, ha ragione la ricorrente a dolersi della decisione con la quale la Corte di merito le ha respinto l’opposizione alla cartella esattoriale contenente l’intimazione di pagamento di un importo per somme aggiuntive ed interessi di mora, solo per il fatto che il pagamento dei contributi era avvenuto dopo la sentenza di annullamento del licenziamento .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 7 novembre 2018 – 24 gennaio 2019, n. 2019 Presidente Patti – Relatore Calafiore Rilevato Che La Corte d’appello di Roma sentenza N. 10843/2012 ha rigettato l’impugnazione proposta da Capgemini Italia s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva in parte dichiarato inammissibile ed in parte rigettato l’opposizione proposta dalla medesima società nei confronti della cartella esattoriale contenente l’intimazione di pagamento dell’importo di Euro 16.894,17 per interessi di mora e somme aggiuntive dovuti al ritardato pagamento dei contributi afferenti al periodo gennaio 2003 - giugno 2006 la Corte d’appello ha ritenuto che l’efficacia retroattiva della sentenza costitutiva di annullamento del licenziamento della dipendente L.S. , giudicato illegittimo, determinava la non interruzione de iure anche del rapporto di previdenza con consequenziale affermazione dell’obbligo contributivo oggetto della cartella opposta per la cassazione della sentenza ricorre la società Capgemini Italia spa con unico articolato motivo, illustrato da memoria l’Inps, anche quale mandatario di S.C.C.I. s.p.a. ha rilasciato procura speciale in calce alla copia notificata del ricorso. Considerato Che con l’unico motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18 in disposto combinato con la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 217, lett. a , in connessione coi commi da 217 a 225 ed assume che, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, nessuna sanzione avrebbe potuto esserle irrogata al momento della scadenza dell’obbligazione contributiva, in quanto questa era venuta meno a causa della cessazione del rapporto di lavoro e non poteva risorgere che all’atto del ripristino dello stesso, per cui l’insussistenza di fatto e di diritto del rapporto lavorativo, in conseguenza del licenziamento, escludeva in radice la possibilità di ravvisare un’omissione contributiva fino al concreto ripristino del rapporto in ogni caso, sarebbe stato impossibile pagare i contributi prima della riforma della sentenza che aveva ritenuto legittimo il licenziamento, così come era da escludere la retroattività degli effetti della sentenza di secondo grado anche con riguardo alla decorrenza dell’obbligo contributivo ed inoltre non poteva non tenersi conto del legittimo affidamento posto dalla parte datoriale sulla regolarità della determinazione del primo giudice che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento il motivo, in continuità con quanto affermato da questa Corte di cassazione con la sentenza n. 2970 del 2018 richiamata dalla ricorrente quale precedente specifico, è fondato come già affermato, infatti, successivamente alla decisione oggi impugnata si è avuta, nella materia oggetto di causa, una pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte Sez. Un. n. 19665 del 18.9.2014 secondo la quale in tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento, ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, anche prima delle modifiche introdotte dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 nella specie, inapplicabile ratione temporis , occorre distinguere, ai fini delle sanzioni previdenziali, tra la nullità o inefficacia del licenziamento, che è oggetto di una sentenza dichiarativa, e l’annullabilità del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, che è oggetto di una sentenza costitutiva nel primo caso, il datore di lavoro, oltre che ricostruire la posizione contributiva del lavoratore ora per allora , deve pagare le sanzioni civili per omissione L. 23 dicembre 2000, n. 388, ex art. 116, comma 8, lett. a nel secondo caso, il datore di lavoro non è soggetto a tali sanzioni, trovando applicazione la comune disciplina della mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, fermo che, per il periodo successivo all’ordine di reintegra, sussiste l’obbligo di versare i contributi periodici, oltre al montante degli arretrati, sicché riprende vigore la disciplina ordinaria dell’omissione e dell’evasione contributiva con tale decisione le Sezioni Unite hanno chiarito che le sanzioni civili da omissione contributiva sono dovute in caso di licenziamento inefficace o nullo omissione e non già evasione contributiva perché in ogni caso mancherebbe quella che l’art. 116, comma 8, lett. b che qualifica come intenzione specifica di non versare i contributi atteso che l’omissione contributiva è invece conseguenza della ritenuta, dal datore di lavoro legittimità del licenziamento nella fattispecie è pacifico che il licenziamento fu annullato in quanto ritenuto illegittimo e che fu emesso ordine di reintegra, dopodiché l’Inps intimò il pagamento dell’importo di Euro 16894,68 per somme aggiuntive ed interessi di mora a causa del ritardato pagamento, dopo la pronunzia giudiziale di annullamento del licenziamento, dei contributi relativi al periodo compreso fra lo stesso licenziamento ed il suo annullamento pertanto, considerato il principio di diritto sopra espresso dalle Sezioni Unite e tali essendo i presupposti di fatto della presente vicenda, deve dedursi che ha ragione la ricorrente a dolersi della decisione con la quale la Corte di merito le ha respinto l’opposizione alla cartella esattoriale contenente l’intimazione di pagamento di un importo per somme aggiuntive ed interessi di mora, solo per il fatto che il pagamento dei contributi era avvenuto dopo la sentenza di annullamento del licenziamento in definitiva, il ricorso va accolto e l’impugnata sentenza va cassata, con rinvio del giudizio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione che valuterà la sussistenza dell’obbligo alla luce del principio sopra riportato. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda anche la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.