Ancora sulla responsabilità del datore di lavoro per la patologia causata dall’amianto

Torna all’attenzione dei Giudici di legittimità il tema delle vittime dell’amianto”, quei lavoratori che hanno contratto crudeli malattie sul posto di lavoro e che chiedono anzi, i cui eredi chiedono il risarcimento del danno.

Del tema si è occupata la sentenza n. 291/17 della Corte di Cassazione depositata il 10 gennaio. La vicenda. La Corte d’appello, in riforma della sentenza di prime cure, condannava la Fincantieri navali Italiani s.p.a. al pagamento di un risarcimento a favore della moglie e dei figli di un dipendete della società deceduto a causa di mesotelioma pleurico contratto per esposizione a polveri di amianto nell’espletamento delle sue mansioni lavorative negando ogni dubbio sulla sussistenza del nesso di causalità tra la morte del lavoratore e l’esposizione alla sostanza. Danno differenziale. Ricorre per la cassazione del provvedimento la Fincantieri deducendo che l’attore avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di un danno differenziale vista la copertura INAIL. La censura non risulta fondata in quanto il giudice di merito si è conformato alla costante giurisprudenza per cui, in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali, l’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro e la limitazione della stessa al danno differenziale è applicabile all’ambito della copertura assicurativa, ossia al danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, rimanendo dunque escluso il danno alla salute e il danno morale ex art. 2059 c.c. di cui il lavoratore, in presenza dei relativi presupposti, mantiene il diritto. Natura della responsabilità. Ugualmente infondata è la censura con cui il ricorrente lamenta il riconoscimento di una responsabilità oggettiva in quanto al momento dei fatti non sussisteva un divieto di utilizzo dell’amianto posto che risultava accertato che la società non aveva addirittura rispettato quanto previsto da un d.P.R. del 1955 sull’uso delle mascherine protettive. Misure preventive. Viene infine negato ogni fondamento anche all’ulteriore doglianza relativa all’omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso relativo alla mancata adozione da parte del lavoratore delle mascherine protettive previste dall’art. 21, d.P.R. n. 303/1956. Considerando che, all’epoca, l’adozione delle mascherine era necessaria solo per le lavorazioni comportavano rischi di inalazione di polveri, nel caso di specie è pacifico che i lavoratori utilizzavano mascherine inidonee e che, a causa dell’omissione delle necessarie verifiche del datore di lavoro, talvolta operavano anche in assenza delle mascherine stesse. È dunque innegabile che la società abbia omesso anche le minime misure preventive previste all’epoca dei fatti in violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. assumendosi così il rischio di eventuali patologie. Infatti, come ha affermato la giurisprudenza, qualora sia accertato che il danno subito dal lavoratore è causato dalla nocività dell’attività lavorativa è onere del datore di lavoro dimostrare di avere adottato, anche in assenza di specifica disposizione normativa, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, assumendo in caso contrario il rischio di eventuali patologie. Per questi motivi il ricorso viene rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 19 ottobre 2016 – 10 gennaio 2017, n. 291 Presidente Di Cerbo – Relatore Bronzini Svolgimento del processo P.M.T., R.B. e R.S. appellavano la sentenza del Tribunale di Ancona che aveva rigettato la domanda da loro proposta come eredi e congiunti di R.A. per il decesso di quest’ultimo il omissis conseguente a mesotelioma pleurico contratto per esposizione a polveri di amianto nell’espletamento delle mansioni di allestimento degli impianti elettrici navali svolte alle dipendenze di Fincantieri navali italiani spa. La Corte di appello, in riforma della sentenza impugnata, condannava la società appellata al pagamento in favore di P.T. della somma di Euro 168.302,000, in favore di R.B. della somma di Euro 93,302,00 e di analoga somma in favore di R.S. , oltre rivalutazione. La Corte territoriale osservava che non era in discussione la sussistenza del nesso causale tra la morte di R.A. e la pregressa esposizione alle polveri come emergeva dal riconoscimento dell’Inail, dagli atti del procedimento penale, dalla documentazione medica, dai materiali impiegati e dagli ambienti ove le lavorazioni si erano svolte, nonché dall’istruttoria svolta in primo grado. La società datrice di lavoro non aveva offerto la prova di aver adottato ex art. 2087 c.c. tutte le cautele necessarie ad evitare l’evento gli aspiratori messi a disposizione dei lavoratori ex art. 21 D.P.R. n. 303/1956 erano inidonei vista la loro scarsa potenza ed efficienza anche in relazione al basso voltaggio ed alla limitata areazione degli ambienti all’interno della navi in costruzione sul punto le dichiarazioni dei testi in ordine alle misure cautelative adottate erano del tutto generiche . Non era stata peraltro neppure dimostrata un’ effettiva vigilanza da parte del datore di lavoro in ordine all’adozione delle maschere come dichiarato dai testi. Non si poneva affatto, nel caso in esame, la questione della conoscibilità della pericolosità delle polveri di amianto in quanto la norma prescrittiva dell’adozione della maschere di protezione era certamente in vigore. Circa il petitum , tenuto conto che la percentuale del danno biologico era pari al 60% in relazione alla malattia che aveva portato al decesso, del periodo di i.t.p. indotto dai successivi ricoveri, in applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano, il danno veniva determinato in Euro 260.000,00 quale danno conseguente ai postumi stabilizzati e in Euro 8.000,00 per il periodo di inabilità. Doveva altresì essere considerata la condotta datoriale e la consapevolezza per un periodo di tempo non trascurabile della causa della malattia e del suo inevitabile decorso, eventi idonei ad incidere nella sfera personale con liquidazione equitativa del danno in Euro 32.000,00 dalle somme predette andava sottratto quanto già corrisposto dall’INAIL. Inoltre andava liquidato il danno per perdita del congiunto che andava liquidato equitativamente, tenuto conto delle circostanze del caso età adulta dei figli e piuttosto avanzata del coniuge con convivenza solo del coniuge al momento del decesso in Euro 110.000,00 per il coniuge e in Euro 35.000,00 per ciascuno degli eredi. Pertanto la società appellata veniva condannata alle somme complessive a titolo di risarcimento prima ricordate. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Fincantieri con 4 motivi illustrati da memoria resistono gli appellati con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 13 d.lgs. n. 38/2000 e dell’art. 10, comma 1 e 2, del D.P.R. n. 1124/1965. Parte ricorrente in primo grado avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di un danno differenziale vista la copertura INAIL per l’evento di cui è processo e spiegare le ragioni della eventuale insufficienza della liquidazione INAIL. Il motivo appare infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte, che si condivide e cui si intende dare continuità, secondo il quale In tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato, e la limitazione dell’azione risarcitoria di questi al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale a norma dell’art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, riguarda, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, soltanto l’ambito della copertura assicurativa, ossia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica e non anche il danno alla salute, o biologico, e il danno morale di cui all’art. 2059 cod. civ., entrambi di natura non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della responsabilità del datore di lavoro Cass. n. 777/2015 parte ricorrente non allega neppure peraltro che la questione sia stata riproposta in appello. In ogni caso l’esistenza di un danno ulteriore rispettato a quello risarcito dall’INAIL è stato ampiamente dimostrato e quanto già corrisposto dall’INAIL è stata puntualmente sottratto dal dovuto. Con il secondo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087, 1218 e 2697 c.c., e dell’art. 21 D.P.R. n. 303/1956 e dell’art. 115 c.p.c All’epoca dei fatti non sussisteva un divieto di utilizzo dell’amianto che è stato introdotto molto dopo sotto la spinta di direttive Cee. Diversamente opinando si rientrerebbe in un caso di responsabilità oggettiva e non per colpa non prevista dal nostro sistema. Era stata dimostrata l’adozione della misure all’epoca previste dall’art. 21 D.P.R. n. 303/1956 mascherine . Il motivo appare infondato. Non appare necessario entrare in merito alla circostanza dedotta nel motivo per cui all’epoca dei fatti non vi era una proibizione assoluto di utilizzazione dell’amianto negli ambienti di lavoro anche se corre l’obbligo ricordare che la più recente giurisprudenza di questa Corte ha fatto retroagire di molto l’epoca in cui deve ritenersi nota la particolare pericolosità dell’amianto con conseguente adozione di misure rafforzate per prevenire il rischio cfr. Cass. n. 10425/2014 Cass. n. 18503/2016 posto che la sentenza impugnata ha accertato che la società non aveva rispettato quanto previsto addirittura dal D.P.R. del 1955 in ordine all’adozione di mascherine protettive, sia per l’inidoneità delle stesse sia perché non era stata verificata attraverso una doverosa vigilanza l’effettiva utilizzazione di queste come era emerso dalla prova per testi, sicché la doglianza sviluppata come censura di diritto in realtà appare una censura di merito diretta ad una rivalutazione del fatto come tale inammissibile in questa sede. Con il terzo motivo si allega l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. La Corte di appello non aveva accertato che l’adozione degli accorgimenti di cui all’art. 21 D.P.R. n. 303/1956 avrebbe evitato l’evento. Il motivo è infondato posto l’adozione di mascherine protettive costituiva all’epoca la specifica misura da adottare nel caso di lavorazioni che comportassero rischi di inalazione di polveri nel caso in esame è emerso che i lavoratori operavano con mascherine inidonee e talvolta addirittura senza mascherine visto che la società aveva omesso le verifiche necessarie pertanto emerge ex actis che il datore di lavoro non ha adottato neppure quelle misure minime previste all’epoca per contrastare l’inalazione di polveri di amianto e quindi non ha rispettato l’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. assumendosi i rischi di eventuali tecnopatie come affermato da questa Corte cfr. Cass. n. 10425/2014 in tema di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l’esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie . Con l’ultimo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 2697 c.c. il danno non patrimoniale andava rigorosamente dimostrato. Il motivo è inammissibile in quanto si sostanzia in critiche generiche ed avulse dal contenuto motivazionale della sentenza che ha indicato l’entità del danno, liquidato in via equitativa, indicandone specificamente i parametri che non vengono neppure richiamati e tantomeno discussi nel motivo. Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite liquidate come al dispositivo-seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 100,00 per esborsi, nonché in Euro 8.500,00 oltre spese generali al 15% ed interessi come per legge.