Truffa telematica su conto corrente: sulla responsabilità della banca depositaria

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23330 depositata il 19 settembre 2019, si occupa della natura del contratto di deposito bancario, decidendo nel merito una fattispecie di truffa informatica ai danni del MIUR e di Poste Italiane.

In particolare, Poste Italiane, dopo aver risarcito il MIUR delle ingenti somme illegittimamente sottratte dal suo conto corrente, agisce in surroga nei confronti della banca depositaria delle stesse, ottenendone la condanna alla restituzione. Il caso. Una società di investimento avente sede in Egitto realizzava una truffa informatica a danno al MIUR, sottraendo rilevanti fondi per oltre € 13.000.000 da questo depositati sul proprio conto corrente presso Poste Italiane. Poste Italiane, dopo aver risarcito il MIUR per la truffa telematica, agiva in surroga convenendo innanzi al Tribunale di Roma la società di investimento e la banca egiziana presso cui le somme erano confluite. Poste Italiane chiedeva la condanna di entrambe alla restituzione dei fondi sottratti al MIUR e costituenti il provento della truffa informatica. Il Tribunale di Roma, riqualificava la domanda spiegata da Poste Italiane come domanda di rivendica, escludendo qualsiasi responsabilità della banca depositaria nell'illecito trasferimento dei fondi di proprietà del MIUR, ritenendo che potesse emettersi nei confronti di questa solo una condanna alla restituzione della res oggetto di rivendica, da eseguirsi in forma specifica relativamente alle somme residue esistenti sul conto. La Corte d'Appello, decidendo il gravame avanzato da Poste Italiane, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riteneva che la riqualificazione della domanda spiegata da Poste italiane come azione di rivendica fosse passata in giudicato e condannava la sola società di investimento alla restituzione di quanto oggetto di rivendicazione, pari alle somme residue esistenti sul conto. Ad avviso della Corte territoriale era da escludersi la condanna della banca depositaria la quale era stata nel frattempo destinataria di un provvedimento di sequestro penale da parte dell'autorità egiziana. Poste Italiane, ricorreva per Cassazione formulando sette motivi di impugnazione. La Corte di Cassazione, respinti i primi sei motivi di ricorso tutti vertenti sull’asserita nullità della sentenza di secondo grado, accoglie, invece, l’ultimo con il quale Poste Italiane lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 948, 1834 e 2930 c.c. ritenendo che la Corte di Appello avrebbe dovuto riconoscerle, quale surrogante del MIUR, il diritto di ricevere dalla banca egiziana il pagamento di una somma pari al saldo del conto corrente sussistente al tempo della richiesta di restituzione i.e. pari a circa € 13.000.000 e non già la restituzione della sola somma residua giacente sul conto. Sugli effetti del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado in punto di riqualificazione della domanda. I Giudici di legittimità osservano, in primo luogo, che la Corte d’Appello, una volta accertata con autorità di giudicato la titolarità delle somme in capo al MIUR e la fondatezza della domanda di rivendicazione proposta da Poste Italiane quale surrogante, avrebbe dovuto farne discendere gli effetti propri della relativa situazione giuridica soggettiva disponendo la condanna della banca egiziana al pagamento a favore di Poste Italiane - in luogo del formale titolare del conto corrente - dell'importo di oltre € 13.000.000 presente nel conto al tempo della domanda giudiziale, non limitando la condanna alle somme rimaste in giacenza. Sull’azione di rivendica. La Corte di Cassazione chiarisce che l’azione di rivendica ex art. 948 c.c. comporta l’obbligo di restituzione della res oppure quello di pagamento di un equivalente in danaro, a carico di quei soggetti che, a diverso titolo, siano venuti in possesso della res medesima e l'abbiano illegittimamente acquisita nel loro patrimonio. Nella fattispecie l'azione era stata dunque correttamente avanzata da Poste Italiane nei confronti di tutti i soggetti che, nell’acquisire e disporre della res fungibile, se ne erano illegittimamente affermati titolari, trasferendo poi i fondi sui propri conti correnti. Aggiungono gli Ermellini che non trova applicazione nel caso in esame – diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale – il disposto di cui all’art. 103 l.fall. che è norma eccezionale. La rivendica di cose fungibili è infatti ammissibile, non sussistendo, diversamente da quanto avviene nelle procedure concorsuali, un interesse a bilanciare il diritto soggettivo del rivendicante con la posizione di par condicio di altri eventuali creditori. Sulla natura del contratto di deposito bancario. I Giudici di legittimità si soffermano inoltre sulla natura del contratto di deposito bancario, regolato dall’art. 1834 c.c., oggetto di ampio dibattito in dottrina a per taluni autori esso rientra nella categoria dei depositi c.d. irregolari, dal quale si distinguerebbe per il solo fatto che il depositario è una banca b per altri, questo presenterebbe maggiori analogie con il contratto di mutuo c per altri ancora, questo sarebbe un negozio complesso, che pur partecipando della struttura dell'uno e dell'altro contratto, è dotato di una propria autonomia. Tale ultima tesi, ad avviso della Corte di cassazione, appare maggiormente condivisibile se è vero che, così come nel deposito irregolare, anche nel deposito bancario la consegna comporta l'acquisto in capo al depositario della proprietà della somma ed il sorgere dell'obbligo di restituzione del tantundem , è altresì innegabile che solo quest'ultimo è costruito come un contratto d'impresa caratterizzato da profili speculativi, in cui l'interesse della banca alla raccolta ed alla gestione del risparmio concorre con l'interesse del privato alla custodia ed alla remuneratività della somma versata, cui si accompagna l'obbligo di restituzione del tantundem o di parte di esso nel corso del rapporto. Il contratto di conto corrente regolato dall'art. 1834 c.c si configura, pertanto, quale tipico negozio di durata, in cui la permanenza della somma presso l'istituto depositario comporta la soddisfazione degli interessi di entrambe le parti, ovvero dell'interesse della banca di acquisire la disponibilità del fondo conferito per gestire il risparmio raccolto in operazioni finanziarie e del contrapposto interesse del cliente di essere remunerato di tale utilizzo di capitale, tramite la percezione di utilità aggiuntive gli interessi corrispettivi che gli vengono periodicamente riconosciuti e accreditati, con diritto di restituzione del tantundem a semplice richiesta in questo senso cfr. Cass n. 788/2012 . Sulla legittimazione passiva alla domanda di rivendica. Precisano ulteriormente i Giudici di Cassazione che, se in ipotesi, un soggetto deposita sul conto bancario intestato alla sua persona denaro non proprio, egli commetterà un illecito in danno del titolare effettivo delle somme ma, in confronto della banca, sarà comunque ritenuto come il soggetto titolare del credito e del correlativo potere di disposizione delle somme accreditate e acquisite dalla banca cfr. Cass. n. 1392/1969 . Ove la titolarità formale si scinda da quella reale, l'azione di rivendica rivolta a tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, compresa la banca depositaria che ne è divenuta inconsapevolmente proprietaria, è dunque giustificata dal fatto che nei confronti dell'uno o, dell'altro soggetto debba essere accertato chi sia l'effettivo titolare delle somme conferite nel conto di deposito bancario, passate nella disponibilità della banca, per potere individuare il destinatario del diritto restitutorio del tantundem , arricchito degli incrementi connaturati al contratto di deposito bancario. D’altronde la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che la mera titolarità formale di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate cfr. Cass. n. 1149/2004 . Pertanto, poiché nel caso specifico la titolarità della res rivendicata riguarda somme che, per quanto determinate nel loro ammontare, sono fungibili e in grado di confondersi nel patrimonio della banca depositaria, la rivendica dell'ammontare delle stesse da parte di chi ne è stato spogliato è certamente compatibile con l'azione di cui all'art. 948 c.c., qualora sia accertato che la somma rivendicata corrisponda a quella confluita in detto conto e al tempo della domanda sia ancora nella disponibilità della banca nello stesso ammontare ciò in quanto l'azione è intesa ad accertare la effettiva titolarità del diritto di disposizione della somma depositata . Conseguentemente, conclude la Corte, sia l'esercizio dell'azione di rivendica in via surrogatoria, che l'intervento di un vincolo esterno pignoramento o sequestro giudiziario o conservativo eventualmente impediente la restituzione delle somme, sono elementi non idonei a incidere sulla causa giuridica dell'obbligo restitutorio della banca, che trova ragione nel rapporto di conto corrente, anche se instaurato con il falsus titolare, perché il vincolo giudiziale determinatosi impedisce solo al titolare formale della somma depositata di richiederne nell'immediato la restituzione alla banca depositaria, ma non la rende tout court indisponibile per il soggetto legittimo titolare delle somme, se non a sua volta destinatario del provvedimento di sequestro o di pignoramento Cass. n. 17945/2003 . Pertanto l'azione di rivendica, ove miri a ottenere nei confronti della banca depositaria il riconoscimento della titolarità delle somme depositate e individuate nel loro preciso ammontare, confluite nel conto di deposito bancario, è intesa a far conseguire al legittimo titolare il possesso della res ivi depositata, e l'esercizio dei relativi diritti, compreso quello di ricevere la restituzione del tantundem dell'importo depositato, comprensivo dei frutti o proventi nel frattempo maturati. Da tutto ciò consegue che l'obbligo di restituzione dell'importo di danaro individuato nel suo preciso ammontare al tempo della domanda, ove avvenga per via esecutiva ex art. 2930 c.c. nei confronti della banca depositaria in conseguenza dell'azione di rivendica esercitata ex art. 948 c.c. dal legittimo titolare, è suscettibile di esecuzione forzata per l'intero ammontare rivendicato ed esistente nel conto corrente al tempo della domanda giudiziale cfr. Cass. n. 22457/2017 . In ragione di quanto sopra, la Suprema Corte accoglie il ricorso di Poste Italiane annullando la sentenza della Corte di appello di Roma e decidendo nel merito ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c. condanna la banca depositaria egiziana a restituirle l’importo di oltre € 13.000.000.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 4 aprile – 19 settembre 2019, n. 23330 Presidente Travaglino – Relatore Fiecconi Ritenuto in fatto 1. Con ricorso notificato il 10 luglio 2017 a mezzo PEC che e l’11 luglio 2017 a mezzo ufficiale POSTE ITALIANE S.P.A. la quale agisce in via di surroga dopo aver risarcito il MIUR per una truffa telematica ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma numero 135-2017 dell’11 gennaio 2017, emessa nella controversia avviata dalla ricorrente nei confronti della NATIONAL BANK OF EGYPT NBE e la società EGYPTIANS FOR INVESTMENT AND TOURISM, per ottenere la restituzione di fondi sottratti al MIUR, pari a Euro 13.100.000, costituenti il provento di una truffa informatica effettuata mediante 10 bonifici disposti nel mese di dicembre 2007 per un totale di Euro 13.100.000 dal conto bancoposta on-line del MIUR, confluiti prima sul conto di CAFFÈ SELMI SRL di e poi sul conto della società EGYPTIANS FOR INVESTMENT AND TOURISM, intrattenuto presso la NATIONAL BANK OF EGYPT NBE . POSTE ITALIANE ha affidato ricorso a 7 motivi cui ha resistito la NBE con controricorso notificato l’11 settembre 2017. Le parti hanno prodotto memorie. 2. La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Roma che, dopo aver inquadrato l’azione come azione di rivendica, aveva condannato la banca, in solido con la società titolare del conto in cui erano confluiti detti fondi già oggetto di sequestro penale disposto dall’autorità giudiziaria egiziana , al pagamento in favore di Poste Italiane di una somma equivalente al saldo del conto corrente, j respingeva le eccezioni di inammissibilità dell’appello e l , nel merito, in parziale riforma della sentenza, condannava NBE, unica appellante, alla restituzione della somma oggetto di rivendicazione, pari alle somme residue esistenti sul conto. La Corte territoriale rilevava che la riqualificazione, operata d’ufficio dal Tribunale, della domanda spiegata da Poste italiane come domanda di rivendica, condivisibile o meno che fosse, era comunque passata in giudicato e che, posto che lo stesso Tribunale aveva escluso qualsiasi titolo di responsabilità della banca depositaria nell’illecito trasferimento dei fondi di proprietà del MIUR, poteva emettersi nei confronti della banca solo una condanna alla restituzione della res oggetto di rivendica, da eseguirsi in forma specifica relativamente alle somme residue esistenti sul conto. L’autorità egiziana, difatti, nel frattempo, aveva condannato per il reato di riciclaggio i soggetti responsabili della truffa informatica, condannandoli al pagamento del doppio della somma di Euro 13.041.660,00 confluita nel conto corrente della banca, per la quale era stato disposto sequestro penale. Considerato in diritto 1. Con il 1 motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la ricorrente afferma la nullità della sentenza per avere la Corte di appello ritenuto ammissibile l’appello proposto dalla banca benché la motivazione addotta dall’appellante a sostegno dell’impugnazione fosse priva dei requisiti previsti dall’art. 342 c.p.c. con il 2 motivo sostiene, in via subordinata, sulla base dei rilievi già svolti nel 1 motivo, che la Corte d’appello avrebbe violato o falsamente applicato l’art. 342 c.p.c. ex art. 360 c.p.c., n. 3 con il 30 motivo deduce la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4 per asserita violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata a pagina 23 e 24 della comparsa di costituzione, ove si rileva che l’appello non contiene specifiche doglianze avverso una delle rationes decidendi su cui si fondava la decisione di 1 grado, che era logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, e in particolare sulla circostanza che la condanna solidale sarebbe stata disposta dal tribunale in ragione della posizione di surroga nei diritti del MIUR assunta dall’attrice, che la poneva quale successore di un rapporto obbligatorio. Rileva inoltre che dalla pronuncia non si comprende come possa dedursi un vincolo solidale tra i pretesi debitori nelle vicende che attengono unicamente al lato attivo di tale rapporto, che implica solamente il subentro di Poste Italiane nell’esercizio dei diritti spettanti al MIUR, e non può in alcun modo comportare una immutazione di tali diritti. Con il 4 motivo, collegato al 3 motivo, deduce la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per asserita violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4 con il 5 motivo deduce la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4 sotto il profilo della motivazione contraddittoria, riposta nel fatto che sia stata attribuita a Poste Italiane la titolarità delle somme, poi disconosciuta nel dispositivo. Con il 6 motivo la ricorrente ex art. 360 c.p.c., n. 3 denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2900 c.c., dell’art. 324 e 336 c.p.c. e art. 1201 c.c. quale violazione dei principi sull’interpretazione delle sentenze. Con il 7 motivo la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di artt. 948, 1834, 2930 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poiché la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere alla surrogante il diritto di ricevere dalla banca il pagamento di una somma pari al saldo del conto corrente degli importi acquisiti anche a seguito di trasferimenti tra diversi conti presso diverse banche, e non già la restituzione della somma residua giacente sul conto. 2. I primi due motivi sono infondati e, vertendo sulla medesima questione inerente alla formulazione dell’atto di appello, vista sotto diversi profili di nullità della sentenza, vengono trattati congiuntamente. 2.1. La Corte di merito ha rilevato che nella specie l’appello della NBE resistente soddisfa sostanzialmente i criteri di specificità che sono a base dei requisiti di forma dettati dalla norma di cui all’art. 342 c.p.c., indicando espressamente le statuizioni e i passaggi motivazionali della sentenza appellata oggetto di censura, e ha scrutinato le censure in merito alla violazione dei principi di diritto in cui sarebbe incorso il 1 giudice e la incidenza di queste ai fini della riforma della pronuncia. La Corte di merito, nel rigettare le eccezioni di inammissibilità dell’appello, si è adeguata a principi affermati dalla giurisprudenza in ordine alla natura essenzialmente devolutiva dell’atto di appello che, nell’ambito dei motivi di impugnazione, impone al giudice di svolgere una lettura delle domande in termini di sollecitazione a scrutinare il merito della ratio decidendi impugnata. Difatti, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 13535 del 30/05/2018 . 3. I motivi nn. 3, 40, 5 e 6 vanno trattati congiuntamente in quanto connessi. Con il 3 motivo la ricorrente deduce che il giudizio di primo grado si fonda su due rationes decidendi di cui una passata in giudicato. In particolare, l’accoglimento della domanda ripone sia sul fatto che le somme sottratte erano da ricondursi al MIUR come soggetto proprietario e titolare del conto corrente, in quanto si caratterizzavano da specifica e precisa individualità anche a seguito dei trasferimenti su diversi conti correnti, pagina 8 della sentenza di 10 grado , sia sul fatto che Poste italiane si era surrogata nei diritti del Ministero per il recupero delle somme illecitamente incassate, nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, con una richiesta di condanna al pagamento in via solidale pagina 10 della sentenza di 10 grado . La seconda ratio decidendi, attinente all’obbligazione di pagamento in solido conseguente all’esercizio dell’azione surrogatoria, coinvolgerebbe quindi gli istituti tipici del diritto delle obbligazioni. Pertanto l’appellante non avrebbe censurato la statuizione con la quale il tribunale di Roma ha accertato il diritto dell’attrice ad agire in surroga, comportando tale omissione la formazione del giudicato su detto accertamento e sull’obbligo della banca di adempiere in solido con gli altri debitori, a risarcire la parte surrogante. Con il 4 e 5 motivo deduce per le stesse ragioni la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 111 Cost. allo stesso modo nel quinto motivo denuncia come la motivazione resa sia irriducibilmente contraddittoria. Il sesto motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2900 c.c., artt. 324 e 336 c.p.c. e art. 1201 c.c. quale violazione dei principi sull’interpretazione delle sentenze. 3.1. Le censure non colgono nel segno e pertanto, sono inammissibili in quanto non si correlano alla ratio decidendi della sentenza. 3.2. La Corte di merito ha rilevato che il primo giudice ha proceduto a una qualificazione d’ufficio della domanda spiegata nei confronti della banca ex art. 948 c.c., non censurata da alcuno, sul presupposto che la res rivendicata fosse costituita da un’ ingente somma di danaro caratterizzata da una sua precisa individualità anche a seguito dei trasferimenti tra diversi conti correnti appartenuti a più soggetti. Ha rilevato anche che il Tribunale, con statuizione non impugnata, ha ritenuto rivendicabile un bene fungibile in quanto individuato, dal che consegue che anche la condanna della banca depositaria delle somme ivi confluite deve essere intesa quale condanna indirizzata al soggetto che le detiene, sino all’ammontare della somma rinvenuta nel conto corrente. La Corte di appello ha rilevato, in linea con il giudice di primo grado, che nel caso di specie, attinente al possesso e proprietà dei fondi rivendicati, la decisione, pur coinvolgendo soggetti residenti all’estero, vada risolta sulla base legge italiana L. n. 218 del 1995, ex art. 51. Pertanto, anche da questo solo rilievo è da escludersi che da un accertamento del diritto di surroga sia desumibile un giudicato su diritti obbligatori esercitati parallelamente dall’attrice in via surrogatoria, mai affermati dal giudice di merito anche in ragione di una indicata carenza di giurisdizione. -I 3.3. Ciò posto, l’azione esercitata in via di surroga dall’attrice, qui ricorrente, e accolta dal giudice di primo grado, incorpora la rivendica esercitata e dunque non è in grado di mutare la natura della domanda fatta valere in giudizio, vale a dire la qualificazione in termini di azione di rivendica fatta dal giudice di primo grado ed esercitata verso più soggetti la solidarietà passiva nell’obbligazione restitutoria, infatti, è stata affermata nell’ambito dell’accertamento della titolarità delle somme illecitamente sottratte consecutivamente da due soggetti e confluite nel conto corrente di deposito bancario aperto presso la banca egiziana sia la surrogazione che la solidarietà non sono un tratto tipico dei rapporti nascenti da obbligazioni, potendo delinearsi anche riguardo alle azioni di rivendica che comportino obblighi di restituzione tra più soggetti che, a diverso titolo, siano venuti in contatto con la res oggetto della contesa. Sicché, non apparendo i motivi correlati alla ratio decidendi della seconda pronuncia nell’interpretare il contenuto dell’appello, essi concretizzano la ragione di inammissibilità espressa dal principio di diritto, recentemente confermato da Cass. SU n. 7074 del 2017, secondo cui il motivo d’impugnazione deve concretamente considerare le ragioni che sorreggono la decisione e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il motivo che non rispetti tale requisito. 4. Con il 7^ motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 948, 1834 e 2930 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, laddove la Corte d’appello, erroneamente interpretando la sentenza di primo grado passata in giudicato su tale punto, non avrebbe riconosciuto alla surrogante il diritto di ricevere dalla banca il pagamento di una somma pari al saldo del conto corrente sussistente al tempo della richiesta di restituzione pari a Euro 13.041.650,00 confluita nel conto corrente di spettanza della società che ha partecipato alla truffa informatica, e ha ritenuto che l’azione di rivendica fosse esercitabile in forma specifica, non potesse valere per beni fungibili, e dunque fosse riferibile alla somma residua giacente sul conto che può essere esrcitata mediante esecuzione forzata. 4.1. Il motivo è fondato. 4.2. La Corte d’appello ha ritenuto accertata con autorità di giudicato da parte del primo giudice la titolarità delle somme in capo al MIUR e la fondatezza della domanda di rivendicazione proposta da Poste Italiane, quale surrogante, di res fungibile ma tuttavia individuata. Peraltro da tale statuizione non ha fatto discendere gli effetti propri della situazione giuridica soggettiva accertata in via definitiva dal giudice di primo grado che avrebbero condotto al rigetto dell’impugnazione. 4.3. Difatti la Corte d’appello di Roma non avrebbe dovuto far altro che ricondurre a detta situazione giuridica soggettiva definitivamente accertata gli effetti suoi propri, ossia disporre la condanna al pagamento a favore di Poste Italiane - in luogo del formale titolare del conto corrente - dell’importo di Euro 13.041.650,00, oltre interessi o proventi convenuti dal dovuto al saldo, presente nel conto corrente al tempo della domanda giudiziale, non limitandolo alle somme rimaste in giacenza. La Corte di merito infatti ha ritenuto che nella statuizione del giudice a quo, passata in giudicato, la res rivendicata fosse costituita da un’ingente somma di danaro caratterizzata da specifica e precisa individualità anche a seguito dei trasferimenti in diversi conti correnti, ritenendo quindi rivendicabile tale bene fungibile in quanto individuato ha ritenuto quindi che la restituzione non potesse che corrispondere al saldo del conto corrente di deposito al tempo dell’esecuzione, assumendo che la condanna per equivalente sia incompatibile con la tutela reale, prevista solo nel caso in cui la parte abbia cessato per fatto proprio di possedere o detenere la cosa. Ha inoltre rilevato che la locuzione del giudice a quo pare riecheggiare la possibilità di rivendica L. Fall., ex art. 103 dei beni fungibili, richiamando la pronuncia resa da Cass. 4813/2013. 4.4. Riguardo all’azione di rivendica ex art. 948 c.c. qui in esame, possono delinearsi diversi obblighi di restituzione della res, o di pagamento di un equivalente in danaro, egualmente gravanti sui soggetti che, a diverso titolo, siano venuti in possesso della res e l’abbiano pertanto illegittimamente acquisita nel loro patrimonio, confondendolo con il proprio. Difatti il legittimato ad agire in rivendica è il proprietario che non possiede più e in questo caso l’azione è stata rivolta a tutti coloro che, nell’acquisire e disporre della res fungibile sfuggita al controllo del titolare, si sono illegittimamente affermati titolari, hanno trasferito i fondi sui propri conti correnti e, pertanto, sono tenuti al medesimo obbligo restitutorio. La legge, L. Fall., ex art. 103, richiamata dai Giudici dell’appello, non è stata applicata dal giudice a quo ed è utile rammentare che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’ appello, la rivendica di cose fungibili, nei confronti del fallito, si ammette solo con riguardo a cose mobili esattamente individuate per specie, e non anche in relazione a cose di genere cfr. Cass. Sez 1, n. 4813/2011 , e in tal modo costituisce un’ipotesi eccezionale applicabile solo al fallimento, per ovvie ragioni di contemperamento degli interessi tra i diversi creditori. La regola generale, invece, qui in discussione, è che la rivendica di cose fungibili è ammissibile, non sussistendo, diversamente da quanto avviene nelle procedure concorsuali, un interesse a bilanciare il diritto soggettivo del rivendicante con la posizione di par condicio di altri eventuali creditori. Quindi la Corte d’appello ha errato nel fare riferimento alla normativa speciale in questione. 4.5. Per quanto riguarda la posizione della banca depositaria delle somme di cui si discute, la Corte d’appello ha rilevato essere fatto definitivamente accertato che la banca abbia acquisito l’intero ammontare dei fondi di danaro rivendicati tramite un conto di deposito bancario intestato all’ultimo possessore senza che sia stato mosso alcun titolo di responsabilità alla banca depositaria per il fatto di reato occorso. Tale argomento è corretto, ma tuttavia non egualmente corretta è la conclusione che se ne trae con riferimento all’azione di rivendica esercitata nei riguardi di somme depositate in conti correnti. 4.6. Come è noto, la natura del contratto di deposito bancario, regolato nel diritto interno dall’art. 1834 c.c., risulta tuttora controversa in dottrina. Per taluni esso rientra nella categoria dei depositi c.d. irregolari, dal quale si distinguerebbe per il solo fatto che il depositario è una banca altri, pur riconoscendovi analogie con il deposito irregolare, propendono per accostarlo al mutuo altri ancora vi intravedono un negozio complesso, che pur partecipando della struttura dell’uno e dell’altro contratto, è dotato di una propria autonomia. Tale ultima tesi appare maggiormente condivisibile se è vero che, così come nel deposito irregolare, anche nel deposito bancario la consegna comporta l’acquisto in capo al depositario della proprietà della somma ed il sorgere dell’obbligo di restituzione del tantundem, è anche vero che solo quest’ultimo è costruito come un contratto d’impresa caratterizzato da profili speculativi, in cui l’interesse della banca alla raccolta ed alla gestione del risparmio concorre con l’interesse del privato alla custodia ed alla remunerativà della somma versata, cui si accompagna l’obbligo di restituzione del tantundem o di parte di esso nel corso del rapporto. Ancor più evidenti appaiono le differenze col mutuo, che non assicura la conservazione e la permanente disponibilità della somma, e con il deposito regolare, che ha invece ad oggetto principale l’obbligo di custodia della res affidata. 4.7. Ciò che è certo, peraltro, è che il contratto di conto corrente regolato dall’art. 1834 c.c. si configura quale tipico negozio di durata, in cui la permanenza della somma presso l’istituto depositario comporta la soddisfazione degli interessi di entrambe le parti, ovvero dell’interesse della banca di acquisire la disponibilità del fondo conferito per gestire il risparmio raccolto in operazioni finanziarie e del contrapposto interesse del cliente di essere remunerato di tale utilizzo di capitale, tramite la percezione di utilità aggiuntive gli interessi corrispettivi che gli vengono periodicamente riconosciuti e accreditati, con diritto di restituzione del tantundem a semplice richiesta Sez. 1, Sentenza n. 788 del 2012 . 4.8. Da questi aspetti derivano ulteriori effetti che caratterizzano il contratto in esame. Se, in ipotesi, un soggetto deposita sul conto bancario intestato alla sua persona denaro non proprio, egli commetterà un illecito in danno del titolare effettivo delle somme ma, in confronto della banca, sarà comunque ritenuto come il soggetto titolare del credito e del correlativo potere di disposizione delle somme accreditate e acquisite dalla banca Sez. 1, Sentenza n. 1392 del 30/04/1969 Rv. 340137 - 01 . Ove la titolarità formale si scinda da quella reale, l’azione di rivendica rivolta a tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, compresa la banca depositaria che ne è divenuta inconsapevolmente proprietaria, è dunque giustificata dal fatto che nei confronti dell’uno o dell’altro soggetto debba essere accertato chi sia l’effettivo titolare delle somme conferite nel conto di deposito bancario, passate nella disponibilità della banca, per potere individuare il destinatario del diritto restitutorio del tantundem, arricchito degli incrementi connaturati al contratto di deposito bancario. 4.9. Simili principi risultano affermati nelle pronunce che hanno sancito che la mera titolarità formale di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate cfr. Sez. 1, Sentenza n. 1149 del 23/01/2004, ove ha confermato la decisione di merito che, a seguito di separazione personale, facendo corretta applicazione dell’art. 2729 c.c. aveva ritenuto che le somme accreditate sul conto corrente di cui era titolare un coniuge spettassero all’altro, i proventi della cui attività avevano costituito l’unica fonte di guadagno della famiglia . 4.10. Pertanto, poiché nel caso specifico la titolarità della res rivendicata è riguarda somme che, per quanto determinate nel loro ammontare, sono fungibili e in grado di confondersi nel patrimonio della banca depositaria, la rivendica dell’ammontare della somma versata in tale conto da parte di chi ne è stato spogliato è certamente compatibile con l’azione di cui all’art. 948 c.c., qualora sia accertato che la somma rivendicata corrisponda a quella confluita in detto conto e al tempo della domanda sia ancora nella disponibilità della banca nello stesso ammontare, in quanto in tale caso l’azione è intesa ad accertare la effettiva titolarità del diritto di disposizione della somma depositata. 4.11. Conseguentemente, sia l’esercizio dell’azione di rivendica in via surrogatoria, che l’intervento di un vincolo esterno pignoramento o sequestro giudiziario o conservativo eventualmente impediente la restituzione delle somme, sono tutti elementi non idonei a incidere sulla causa giuridica dell’obbligo restitutorio della banca, anche per i frutti e proventi nel frattempo maturati, che trova ragione nel rapporto di conto corrente, anche se instaurato con il falsus titolare, perché il vincolo giudiziale determinatosi impedisce solo al titolare formale della somma depositata di richiederne nell’immediato la restituzione alla banca depositaria, ma non la rende tout court indisponibile per il soggetto legittimo titolare delle somme, se non a sua volta destinatario del provvedimento di sequestro o di pignoramento Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17945 del 2003 . In ragione del sequestro penale operato non muta, dunque, la causa giuridica contrattuale da cui discende l’obbligo di restituzione delle somme in giacenza in favore del legittimo titolare, in luogo dei soggetti che hanno personalmente subito il sequestro delle somme di cui erano formalmente titolari, e neppure mutano la natura e la disciplina giuridica proprie degli interessi dovuti nel corso del rapporto bancario, spettanti all’avente diritto a ricevere il tantundem, com’è naturale in tutti i rapporti di durata, il cui scioglimento non necessariamente corrisponde all’immediata estinzione dei rapporti giuridici da essi derivati, ed in particolare di quelli concernenti le conseguenze stesse dello scioglimento. 4.12. Pertanto l’azione di rivendica, ove miri a ottenere nei confronti della banca depositaria il riconoscimento della titolarità delle somme depositate e individuate nel loro preciso ammontare, confluite nel conto di deposito bancario, è intesa a far conseguire al legittimo titolare il possesso della res ivi depositata, e l’esercizio dei relativi diritti, compreso quello di ricevere la restituzione del tantundem dell’importo depositato, comprensivo dei frutti o proventi nel frattempo maturati. Da tutto ciò consegue che l’obbligo di restituzione dell’importo di danaro individuato nel suo preciso ammontare al tempo della domanda, ove avvenga per via esecutiva ex art. 2930 c.c. nei confronti della banca depositaria in conseguenza dell’azione di rivendica esercitata ex art. 948 c.c. dal legittimo titolare, è suscettibile di esecuzione forzata per l’intero ammontare rivendicato ed esistente nel conto corrente al tempo della domanda giudiziale cfr. Sez. 3 -, Sentenza n. 22457 del 27/09/2017 . 4.13. Conclusivamente, il ricorso va accolto con riguardo al motivo n. 7 e la sentenza della Corte d’appello, pertanto, va annullata in parte qua, con rigetto degli ulteriori motivi. Per l’effetto, la Corte di cassazione, decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, accoglie la domanda di Poste Italiane s.p.a. e condanna la National Bank of Egypt a restituire alla medesima l’importo di Euro 13.041.650,00, oltre interessi o proventi comunque convenuti e maturati dal versamento al saldo condanna la banca soccombente convenuta al pagamento delle spese processuali del secondo grado e di questa fase, come di seguito liquidate in favore della parte ricorrente. P.Q.M. la Corte di Cassazione accoglie il ricorso in riferimento al motivo n. 7 e cassa la sentenza in parte qua, rigettando gli ulteriori motivi decidendo nel merito, accoglie la domanda di Poste Italiane s.p.a. nei confronti della Banca Nazionale d’Egitto relativamente all’importo di Euro 13.041.650,00, oltre interessi o proventi convenuti e maturati dal dovuto al saldo per l’effetto, condanna National Bank of Egypt a pagare il relativo importo a Poste Italiane s.p.a. condanna la National Bank of Egypt alle spese dell’appello e di questa fase, liquidate per l’appello in Euro 32.000,00, oltre Euro 1000, 00 per spese, oltre spese forfetarie al 15%, Iva e cpa e per il giudizio di cassazione in Euro 60.000,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.