Patto limitativo della concorrenza in un contratto di compravendita immobiliare: esclusa la natura reale

La clausola contrattuale che individua un patto di non concorrenza non è utile al fondo acquistato dal soggetto che beneficia del patto bensì all’azienda che l’acquirente esercita su di esso, sicché in tali ipotesi non si può parlare di servitù perché l’azienda come tale non si identifica con il fondo sul quale essa opera. Pertanto, la relativa clausola ha natura obbligatoria e non reale.

L’articolata vicenda posta al vaglio della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27321 depositata il 17 novembre 2017, concerne un’ipotesi di contratto preliminare di vendita relativo ad un immobile su cui parte promittente acquirente aveva scoperto sussistere un vincolo limitativo dell’utilizzo dei locali. La fattispecie è interessante nella misura in cui distingue la clausola reale da quella obbligatoria. Il caso. La promittente parte acquirente di un locale collocato all’interno di un centro commerciale conveniva in giudizio la parte promittente venditrice onde sentire dichiarare la legittimità del recesso contrattuale esercitato con condanna della convenuta al pagamento del doppio della caparra, ovvero, in via subordinata, alla risoluzione del contratto per inadempimento con condanna alla restituzione della caparra oltre al risarcimento del danno. In via gradata domandava la risoluzione del contratto per mutuo consenso. Riferiva di aver appreso dell’esistenza di un vincolo sull’immobile presente nei titoli originari di provenienza del bene, che ne avrebbe limitato il godimento. Si trattava di un patto speciale, particolare ed essenziale. La convenuta eccepiva la natura obbligatoria del vincolo che riteneva essere nullo per violazione del principio di libera iniziativa economica ed imprenditoriale, al fine di ottenere la declaratoria di nullità del patto chiedeva ed otteneva la chiamata in causa del soggetto avente causa dal dante causa originario. Questi, costituitosi in giudizio, chiedeva dichiararsi il proprio difetto di legittimazione passiva motivando che la domanda di nullità andasse proposta nei confronti dell’originario acquirente o dei suoi originari aventi causa. Il Tribunale rigettava la domanda principale dichiarando parimenti cessata la materia del contendere rispetto a quella proposta dal convenuto in danno del chiamato in causa. I giudici attribuivano inoltre alla clausola contestata valore obbligatorio. A loro parere l’interpretazione della clausola non faceva emergere l’esistenza di una servitù di non fare a carico di determinati fondi, bensì solo un obbligo di astenersi dall’intraprendere in quei locali determinate attività commerciali tale obbligo era posto a carico dei proprietari di alcuni beni ed in favore di un unico fondo. In primo grado i Magistrati avevano quindi ritenuto che tale clausola non fosse opponibile alla promittente acquirente del preliminare in quanto non si trattava di una clausola reale parimenti non era opponibile neppure alla promittente venditrice che, a sua volta, non aveva assunto la relativa obbligazione verso l’originaria dante causa ed i suoi successori. La sentenza era confermata in grado di appello. I Giudici avevano statuito la natura obbligatoria della clausola con cui i futuri acquirenti dei locali si impegnavano a non intraprendere negli stessi attività commerciali in conflitto con quelle poste in essere dall’originaria acquirente. Tale clausola era stata considerata non opponibile agli acquirenti futuri, in quanto priva di indicazioni relative alla sua efficacia temporale. Inoltre, secondo i Giudici di appello, l’acquirente avrebbe potuto opporsi alla introduzione della clausola nell’atto di compravendita definitivo trattandosi di clausola nulla. I Giudici di seconde cure, in buona sostanza, ritenevano che la promittente acquirente, essendo receduta prima del definitivo, momento in cui avrebbe potuto effettivamente opporsi all’inserimento della clausola nel contratto, si era resa inadempiente. La decisione era impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione con numerosi motivi di censura. La natura obbligatoria del vincolo contrattuale nella ricostruzione data dalla Cassazione. Ai nostri fini preme analizzare i motivi di ricorso finalizzati a censurare l’interpretazione data dal Giudice di merito in ordine alla natura obbligatoria e non reale del vincolo imposto dalla clausola. Sosteneva la ricorrente che il patto individuasse un vincolo reale in ragione della prospettiva futura in essa ribadita nonché del termine contenuto nel preliminare di vendita che sarebbe servito proprio a verificare il significato di eventuali clausole contenute nel contratto. La Cassazione, riprendendo per esteso la clausola in discussione, evidenziava come la sua formulazione lasciasse intendere che si trattasse di clausola obbligatoria. Riteneva pertanto corretta l’interpretazione fornita dalla Corte di Appello secondo cui con tale clausola non sarebbe stata imposta una servitù di non fare a carico di uno o più fondi ed a favore di un altro, bensì un obbligo di non fare a favore del compratore originario e dei suoi aventi causa. In questa prospettiva i vantaggi del patto di non concorrenza resterebbero utili per l’azienda commerciale e non già per il fondo, conseguentemente l’azienda non potrebbe identificarsi con il fondo su cui materialmente opera. Patto limitativo della concorrenza non opponibile ai futuri acquirenti del fondo. Pertanto, il patto limitativo della concorrenza era stato ritenuto non opponibile ai futuri acquirenti del bene in quanto tali soggetti non avevano assunto personalmente il rispetto di tale obbligazione. Inoltre il contratto preliminare non menzionava tale vincolo ed in esso l’atto di provenienza del bene era stato menzionato solo quale atto di provenienza del bene senza che quindi la promissaria acquirente avesse assunto alcun obbligo giuridico rispetto ai soggetti estranei al rapporto di cui al preliminare.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 26 settembre – 17 novembre 2017, n. 27321 Presidente Mazzacane – Relatore Giusti Fatti di causa 1. - Con atto di citazione notificato il 17 novembre 2004 Macofin s.p.a. conveniva in giudizio D.T.R. & amp C. s.a.s. davanti al Tribunale di Brescia, deducendo che con contratto preliminare in data 14 gennaio 2003 la convenuta aveva promesso in vendita ad essa attrice un negozio con parti comuni, inserito nel centro commerciale del Comune di omissis , come pervenuto alla promittente venditrice con atto notarile del omissis che essa aveva versato, a titolo di caparra confirmatoria, Euro 100.000 e aveva accettato quale termine per il trasferimento della proprietà il 30 luglio 2003, poi prorogato al 30 settembre 2003. Poiché nel periodo anteriore al rogito era emerso che sull’unità immobiliare oggetto della promessa di vendita gravava il limite di godimento e di utilizzazione previsto a favore di Standa s.p.a. da patto speciale, particolare, essenziale contenuto nei titoli di provenienza atti notarili del omissis e del omissis , e poiché detto vincolo che non era stato rimosso, nonostante la richiesta avanzata con lettera del 4 febbraio 2004, Macofin chiedeva, in principalità, di dichiarare la legittimità del proprio recesso ex art. 1385, secondo comma, cod. civ. e di condannare parte convenuta a corrisponderle il doppio della caparra in subordine, di dichiarare la risoluzione del contratto per inadempimento della promittente, con condanna della stessa alla restituzione della somma di Euro 100.000, oltre al risarcimento del danno in ulteriore subordine, di dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del contratto, con condanna alla restituzione della caparra oltre interessi legali. Costituitasi in giudizio, D.T.R. & amp C. s.a.s. chiedeva il rigetto delle domande, rilevando che la promissaria era a conoscenza dell’esistenza della clausola. Deduceva, inoltre, che la clausola aveva natura obbligatoria e, in ogni caso, era nulla perché in contrasto con il principio della libera iniziativa economica e imprenditoriale privata. A tal fine, ossia per la declaratoria di nullità della clausola, la convenuta chiedeva e veniva autorizzata a chiamare nel processo Billa AG, avente causa da Standa s.p.a. Billa AG, nel costituirsi in giudizio, chiedeva di dichiarare il proprio difetto di legittimazione passiva in relazione alle domande proposte e, per l’effetto di respingerle, esponendo di essere, quale cessionaria di rami di azienda di Standa Commerciale s.p.a. soggetto diverso da Standa s.p.a. , subentrata nei rapporti di locazione degli spazi presenti nel centro commerciale, in qualità di conduttrice. Standa s.p.a., invece, si era resa acquirente, dal costruttore Garfin s.p.a., di altri locali del centro commerciale, e nei suoi confronti o degli eventuali suoi aventi causa andavano proposte le domande di nullità, dal momento che il patto speciale, particolare ed essenziale era contenuto e richiamato negli atti di acquisto delle unità immobiliari, debitamente trascritti, succedutisi nel tempo. 2. - Il Tribunale di Brescia, con sentenza in data 27 settembre 2007, rigettava le domande proposte da Macofin e dichiarava cessata la materia del contendere nel rapporto processuale tra D.T.R. & amp C. s.a.s. e Billa AG disponeva la compensazione tra le parti delle spese di lite. 2.1. - Il Tribunale così argomentava. La clausola ha natura obbligatoria, in quanto con la stessa non si è voluto imporre una servitù di non facere a favore di determinati fondi e a carico di un altrettanto determinato fondo, ma un obbligo di non fare da parte di alcuni proprietari di fondi a favore del conduttore di un fondo, Standa s.p.a., e gli aventi causa dalla medesima. Poiché l’obbligazione in questione non illegittima né illecita - non ha natura reale, la stessa non può ritenersi opponibile di per sé a Macofin quale avente causa di D.T.R. & amp C., non avendo a sua volta Macofin assunto tale obbligazione nei confronti di Standa o degli aventi causa dalla medesima. Manca inoltre la prova della volontà delle parti di scioglimento consensuale del contratto preliminare. 3. - Pronunciando sull’appello principale proposto da Macofin e sull’appello incidentale proposto da Billa, e nel contraddittorio anche con tutti i soci della disciolta società D.T. , la Corte d’appello di Brescia, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 16 gennaio 2013, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, ha condannato D.T.R. & amp C. s.a.s. a rifondere a Billa le spese processuali del primo grado, mentre ha rigettato l’appello principale e per l’effetto ha confermato la sentenza impugnata. 3.1. - Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale ha affermato che la clausola oggetto del contendere è di natura obbligatoria e non reale impegnarsi ad adottare un preventivo accordo con Standa e garantire che le attività dei futuri acquirenti non entrino in concorrenza con le attività commerciali di Standa sono sinonimo di obbligazioni personali che nulla hanno a che vedere con le limitazioni a carattere reale, non essendo la volontà dei contraenti Garfin e Standa finalizzata al miglior godimento del bene immobile compravenduto. Secondo la Corte d’appello, tale clausola è inopponibile agli acquirenti futuri, poiché nulla si dice circa il suo limite temporale, e Macofin avrebbe potuto opporsi alla introduzione nell’atto definitivo di una clausola simile, essendo nulla. Essendo receduta prima di tale momento - ha rilevato la Corte di Brescia - Macofin si è resa inadempiente agli obblighi assunti. Infine, la Corte distrettuale non ha ravvisato una volontà concorde di addivenire ad una risoluzione consensuale salvo successivo ravvedimento, poiché non può assumere alcun significato un comportamento omissivo . 4. - Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello Maconfin ha proposto ricorso, sulla base di dodici motivi. D.T.R. & amp C. s.a.s. e i soci della disciolta società sono rimasti intimati. La società Billa, anch’essa destinataria della notifica del ricorso, ha resistito con controricorso. In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato una memoria illustrativa. Ragioni della decisione 1. - Con il primo motivo violazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. la ricorrente deduce che il Tribunale aveva escluso l’illegittimità e l’illiceità del vincolo imposto dalla clausola e poiché tale capo autonomo della sentenza non è stato impugnato da alcuno, sul medesimo si è formato il giudicato interno. Ad avviso della ricorrente, la Corte d’appello non poteva riprendere un tema già coperto da giudicato, sancendo la nullità della clausola denominata patto speciale particolare ed essenziale . Il secondo mezzo denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. Era stata la società D.T. a richiedere la declaratoria di nullità della clausola de qua ma poiché la stessa aveva abbandonato tale domanda in sede di precisazione delle conclusioni e non l’aveva più riproposta in secondo grado, la Corte d’appello non poteva, se non violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, dichiarare la nullità della clausola in questione. Con il terzo motivo violazione dell’art. 102 cod. proc. civ. la ricorrente lamenta che la nullità della clausola non poteva essere dichiarata dal giudice senza la previa instaurazione del contraddittorio nei confronti di Standa, titolare del diritto introdotto dalla clausola. Il contraddittorio avrebbe dovuto essere esteso anche nei confronti di Garfin, dante causa di D.T. , che aveva stipulato la clausola nel contratto a monte. Un altro error in procedendo è prospettato con il quarto motivo violazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. , con cui si deduce che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto chiamare le parti, prima di dichiarare la nullità della clausola, a esporre sul punto le proprie argomentazioni. Con il quinto mezzo violazione degli artt. 41 Cost. e 1418 cod. civ. la ricorrente sostiene che la pattuita limitazione dell’esercizio ad libitum di attività mercantili nel centro commerciale di omissis non potrebbe qualificarsi come indebita restrizione dell’attività economica privata. Il sesto motivo violazione dell’art. 1322 cod. civ. prospetta che non vi sarebbe alcuna violazione di legge nell’omettere un limite temporale alla durata del patto in questione. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 1362 cod. civ., sostenendo che il vincolo discendente dalla clausola avrebbe natura reale, sul rilievo che se il vincolo cadesse al primo e successivo atto di vendita, l’equilibrio economico complessivo del centro commerciale rischierebbe di venir meno. Ciò sarebbe altresì confermato dalla volontà di profondità temporale e dalla prospettiva futura dal preciso obbligo, assunto dai paciscenti, di ricondurre ai loro aventi causa l’obbligo di ricomprendere nei futuri atti di compravendita la clausola de qua e, quindi, a maggior ragione, di ottemperarle dalla mancanza di limite temporale all’efficacia della clausola de qua e dalla sua trascrizione dall’importanza che le parti originarie hanno assegnato alla clausola, dichiarandola patto speciale, particolare ed essenziale in rapporto al sinallagma dal fatto che la clausola venne stipulata nell’interesse di Standa, che non era la conduttrice come ritenuto dal giudice di primo grado, seguito pedissequamente dalla Corte d’appello , ma la proprietaria. Con l’ottavo mezzo violazione dell’art. 1372 cod. civ. la ricorrente sostiene che la volontà comune scambiata tra le parti era quella di compravendere un bene libero da ogni vincolo e che questo giustificava il comportamento oppositivo da parte di Macofin rispetto all’introduzione della clausola de qua nell’atto definitivo. Il nono motivo violazione degli artt. 1362, secondo comma, cod. civ. e 115 cod. proc. civ. lamenta che la Corte d’appello non abbia tenuto conto del comportamento tenuto dalle parti, deponente nel senso della sussistenza di un vincolo di natura reale. Tali circostanze sarebbero rappresentate dal fatto che in data 7 agosto 2003 le parti decidevano di posporre il termine per la stipula del contratto di compravendita al 30 settembre 2003 proprio al fine di verificare il significato di clausole limitative dell’utilizzazione del bene in questione, contenute nell’atto di compravendita attraverso il quale la società D.T. si era resa acquirente del fondo ad uso commerciale, e non riportate nel preliminare intervenuto con Macofin. Sarebbe significativa nella medesima direzione anche la comparsa di risposta di D.T. , in cui si riportava che la stessa aveva chiesto e ottenuto da Billa, acquirente a titolo derivato da Standa, l’assenso alla vendita di articoli di maglieria all’interno del negozio posto nel centro commerciale, oggetto della promessa di vendita. Con il decimo motivo violazione dell’art. 1362, secondo comma, cod. civ. la ricorrente deduce che uno dei principi cardine dell’ordinamento è quello della libertà delle forme e che è pacifico che nel caso v. atto introduttivo di primo grado, sottoscritto dalle parti le parti abbiano entrambe, e reciprocamente, espresso la volontà per iscritto di non offrire più oltre esecuzione al negozio, che il recesso di tanto è espressione così come la diffida ex art. 1454 cod. civ. . Perciò - prosegue la ricorrente - c’è volontà e forma, dovendo, al netto dell’inadempimento, tali aspetti rimanere fermi, conducendo alla nichilizzazione delle precedenti esternazioni di volontà in forza del principio di conservazione del negozio di risoluzione . L’undicesimo motivo è rubricato violazione dell’art. 2033 cod. civ. e dell’art. 99 cod. proc. civ. . Riferisce la ricorrente che la sentenza di primo grado dichiara che il contratto preliminare si è risolto per l’intervenuto inutile decorso del termine assegnato da D.T. con la diffida ex art. 1454 cod. civ. partecipata alla Macofin in data 3 maggio 2004. Poiché la sentenza di secondo grado ha confermato la sentenza di primo grado e la risoluzione ai sensi dell’art. 1454 cod. civ., così come accolta dalla Corte di merito, comporta la nichilizzazione del negozio e, perciò, l’insussistenza del titolo nel mantenere a proprie mani le reciproche attribuzioni , avrebbe errato la sentenza impugnata a non disporre, a fronte della ripetute domande avanzate da Macofin, la restituzione della caparra. Il dodicesimo motivo prospetta violazione degli artt. 1175, 1375 e 1453 cod. civ. La ricorrente sostiene che sia difficile pensare che possa giocare in danno alla deducente un vincolo, che si era, in sede di acquisto del bene, liberamente assunta, dapprima, D.T. s.a.s. e che, di poi, s’era obbligata a vendere senza vincoli . La difesa di Macofin ricorda che nel nostro ordinamento vige il principio per cui nemo contra factum proprium venire potest e ritiene che appioppare un inadempimento fondato sul presupposto della partecipata diffida ad adempiere, inosservata dalla promissaria l’acquisto, nella comunque, perdurante presenza della trascrizione di quel vincolo, non ha senso alcuno, neanche giudiziario . 2. - È preliminare in ordine logico l’esame del settimo e del nono motivo di ricorso, i quali, stante la stretta connessione, possono essere scrutinati congiuntamente, censurando, entrambi, la statuizione della Corte d’appello nel senso della natura obbligatoria, e non reale, dell’impegno riveniente dal patto speciale, particolare, essenziale contenuto nei titoli di provenienza della promittente venditrice atti notarili del omissis e del omissis . La complessiva doglianza è infondata. Occorre premettere che la clausola oggetto del contendere è del seguente tenore resta quindi stabilito che gli acquirenti di porzioni immobiliari del Centro Commerciale ai fini di poter esercitare attività commerciali nei locali che acquistano dovranno preventivamente prendere accordi a con la Standa s.p.a. e/o suoi aventi causa senza limiti di tempo in relazione ai punti A e B . Il punto A prevede l’impegno da parte di Garfin s.p.a. venditrice nei confronti di Standa acquirente , in considerazione che l’immobile del presente atto è inserito in un più ampio complesso destinato a Centro Commerciale , a concordare preventivamente con l’acquirente stessa le attività di vendita complementari che potranno essere attivate negli spazi che saranno direttamente gestiti dalla venditrice o ceduti a terzi in proprietà, locazione o leasing, in modo da offrire la migliore e più diversificata offerta di prodotti e servizi complementari e non concorrenziali all’attività svolta dalla parte acquirente. Con il punto B Garfin s.p.a. garantisce che, nei locali diversi da quelli ceduti a Standa s.p.a. che saranno posti in vendita, non si svolgeranno, da parte dei futuri acquirenti, attività di vendita al dettaglio di orologeria, gioielleria, oreficeria e cine-foto-ottica. La Corte di Brescia ha giudicato la clausola in questione di natura obbligatoria e non reale per le espressioni usate. Impegnarsi ad adottare un preventivo accordo con Standa s.p.a. e garantire che le attività dei futuri acquirenti non entrino in concorrenza con le attività commerciali di Standa s.p.a. - ha affermato la Corte territoriale - sono sinonimo di obbligazioni personali che nulla hanno a che vedere con le limitazioni di carattere reale, non essendo la volontà dei contraenti Garfin e Standa finalizzata al miglior godimento del bene immobile compravenduto, ma semplicemente a porre un divieto di carattere obbligatorio che non interferisca con gli interessi commerciali squisitamente e prettamente di Standa che per prima aveva acquistato. La Corte d’appello ha quindi condiviso la conclusione cui era già pervenuto il Tribunale, il quale aveva osservato come con la clausola in questione non si è voluto imporre una servitù di non facere a favore di determinati fondi e a carico di un altro determinato fondo, ma un obbligo di non facere a favore della Standa e dei suoi aventi causa. Tanto premesso, occorre rilevare che la realità del vincolo può configurarsi solo ove sia ipotizzabile un rapporto tra fondi, così da riprodurre gli estremi della predialità in cui si compendia l’essenza della servitù se il vantaggio della non concorrenza è utile non già al fondo ma alla azienda commerciale che in esso sia stata installata, non si può parlare di servitù giacché l’azienda commerciale non si può identificare con il fondo nel quale essa opera Cass., Sez. II, 7 dicembre 1962, n. 3298 Cass., Sez. II, 24 agosto 1977, n. 3852 . Nella specie i giudici del merito, interpretando il contenuto del patto speciale, particolare ed essenziale nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., hanno evidenziato che il vantaggio della non concorrenza espresso attraverso l’impegno del costruttore-venditore Garfin, proprietario di altre porzioni immobiliari nel centro commerciale, di concordare preventivamente con la stessa acquirente Standa le attività di vendita complementari che potranno essere attivate nei restanti spazi del centro commerciale che saranno direttamente gestiti dalla venditrice o ceduti a terzi, e di non esercitare, in detti locali, attività commerciali al dettaglio di gioielleria, oreficeria, orologeria e cine-foto-ottica è utile, non al fondo acquistato da Standa, ma all’azienda che l’acquirente esercita su di esso, sicché non si può parlare di servitù perché l’azienda come tale non costituisce fondo. Avendo riconosciuto, in aderenza ai principi enunciati da questa Corte di legittimità, la natura personale dei diritti nascenti dal patto inter alios, rettamente la Corte territoriale ha ritenuto il vincolo in questione, in quanto esorbitante dalle coordinate della realità, non opponibile agli acquirenti futuri , tra cui Macofin, che non ha assunto direttamente tale obbligazione. Il patto obbligatorio di non concorrenza prevedente un vincolo di modo nell’utilizzo di un cespite immobiliare, infatti, astringe il soggetto che l’ha stipulato, ma non il suo avente causa esso, per vincolare il nuovo acquirente, deve essere specificamente richiamato nell’atto di acquisto del terzo. Nella specie - hanno accertato incensurabilmente i giudici del merito - il contratto preliminare stipulato da Macofin non faceva alcuna menzione di tale vincolo, il precedente rogito di acquisto essendo richiamato solo quale atto di provenienza del bene, e non quale negozio costitutivo di obblighi nei confronti della promissaria Macofin. E poiché Macofin non si è assunta alcun vincolo nei confronti di Standa o dei suoi aventi causa non essendo ad essa opponibile l’obbligo sussistente in capo ai danti causa Garfin o D.T. , non hanno neppure rilievo decisivo le circostanze di cui la ricorrente lamenta l’omesso esame lo slittamento della data di stipulazione del contratto definitivo al fine di verificare il significato di clausole limitative dell’utilizzazione del bene contenuto nel precedente atto di compravendita l’assenso all’ampliamento della gamma degli articoli vendibili all’interno del negozio oggetto del preliminare che D.T. aveva ottenuto da Standa o da Billa AG. 3. - I primi sei motivi sono, a questo punto, inammissibili. Invero, essi investono una ulteriore ratio decidendi, riguardante la nullità del patto speciale, particolare ed essenziale perché frapponente ostacoli alla libera iniziativa economica, diritto costituzionalmente garantito , senza alcun limite temporale . Ma poiché la prima ratio decidendi - efficacia soltanto obbligatoria del vincolo esorbitante dalle coordinate della predialità, come tale non vincolante l’avente causa Macofin, soggetto terzo rispetto alla stipulazione del patto e non assuntore in proprio dell’obbligo - è da sola sufficiente a sostenere la decisione impugnata, trova applicazione il principio secondo cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi ognuna delle quali idonea, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate ne consegue che, rigettato il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta Cass., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12372 . 4. - L’ottavo motivo è inammissibile perché non coglie la ragione che sostiene la pronuncia impugnata. La Corte d’appello, infatti, ha dichiarato l’inadempienza di Macofin per il fatto di essere illegittimamente receduta dal contratto pur non essendo ad essa opponibile il patto speciale, particolare ed essenziale , non specificamente richiamato nel preliminare con cui si era impegnata ad acquistare il bene dalla D.T. . Perciò, ha ritenuto, confermando la sentenza di primo grado, che il contratto si è risolto per fatto e colpa di Macofin, a seguito dell’invio della diffida ad adempiere del 3 maggio 2004, rimasta inevasa. 5. - Il decimo mezzo è infondato. In tema di risoluzione consensuale del contratto, il mutuo dissenso, realizzando per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dà vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto originario Cass., Sez. II, 30 agosto 2005, n. 17503 Cass., Sez. III, 10 luglio 2008, n. 18859 . La Corte d’appello ha escluso che nella specie sia stata raggiunta la prova della volontà delle parti di sciogliere consensualmente il contratto. La statuizione della Corte di Brescia si sottrae alla censura articolata con il motivo, giacché la risoluzione consensuale postula l’esigenza di un idem placitum, non rinvenibile nel recesso di un contraente e nella diffida da parte dell’altro contraente, l’uno e l’altra fondati sui contrapposti inadempimenti e sull’addebito delle rispettive colpe cfr. Cass., Sez. III, 6 novembre 1981, n. 5865 . E nella specie - ripetesi - è stata Macofin, destinataria di diffida ad adempiere, a rendersi inadempiente all’obbligazione assunta di prestare il consenso alla stipulazione del contratto definitivo di compravendita. 6. - L’undicesimo motivo è infondato, perché i diritti che la caparra confirmatoria attribuisce alla parte fedele sopravvivono alla risoluzione di diritto per diffida ad adempiere ex art. 1454 cod. civ. Infatti, la risoluzione di diritto del contratto per diffida ad adempiere, ai sensi del citato art. 1454, non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, l’esercizio della facoltà di ottenere, secondo il disposto dell’art. 1385 cod. civ., invece del risarcimento del danno, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio , con la conseguenza che, sebbene spetti al giudice di accertare che l’inadempimento dell’altra parte non sia di scarsa importanza, non è poi onere della parte adempiente provare anche il danno nell’an e nel quantum debeatur Cass., Sez. III, 28 febbraio 2012, n. 2999 . In altri termini, la parte non inadempiente, provocata la risoluzione mediante diffida ad adempiere, ha diritto di ritenere quanto ricevuto a titolo di caparra confirmatoria come liquidazione convenzionale del danno da inadempimento Cass., Sez. I, 13 marzo 2015, n. 5095 . 7. - Anche il dodicesimo motivo è infondato. È inconferente il richiamo al divieto di venire contro il fatto proprio, non essendovi alcuna contraddizione nell’essersi D.T. impegnata, con il preliminare, ad alienare un immobile privo di vincoli, attesa la natura personale dell’obbligo nascente dal patto speciale, particolare ed essenziale di non concorrenza che essa aveva assunto nel proprio titolo di acquisto. 8. - Il ricorso è rigettato. La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione, tanto più che a Billa - l’unica ad avere svolto attività difensiva in questa sede - il ricorso per cassazione è stato notificato solo a titolo di litis denuntatio. 9. - Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione dichiara - ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 - la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.